venerdì 11 settembre 2020

Il Torneo delle ombre

Gli attentati dell’ 11 settembre;


«I terroristi che hanno colpito New York City erano talebani? Erano dell’ Afghanistan? Non erano né talebani, né afghani. Allora, qual’ era la ragione per le guerre in Iraq e in Afghanistan?» Muammar Gheddafi;


Il 30 novembre 1878, nel pieno della Seconda guerra anglo-afghana, l’ importante rivista satirica britannica Punch, diffusa con periodicità settimanale dal 1841 al 1992, pubblicò una vignetta, «Il Grande Gioco in Afghanistan», che ben rappresentava la posizione del Paese centroasiatico, stretto tra le ambizioni dell’ orso russo e quelle del leone britannico. Il conflitto, che data l’ immensa popolarità della vignetta venne appunto chiamato Grande gioco, o anche Torneo delle ombre, impegnò britannici e russi per buona parte dell’ Ottocento, ed ebbe luogo in parte sul campo di battaglia e in parte nelle stanze del potere, tra eserciti, agenti segreti e ambasciatori, per il controllo di Asia centrale e Medio Oriente. Londra in particolare desiderava creare un cuscinetto per difendere l’ India dalla Russia, alleandosi, o se necessario conquistando, gli emirati dell’ Afghanistan, a lungo minacciati dai persiani, e i khanati del Turkestan.

La vignetta satirica sul Punch


Più di cento anni dopo, alla fine del Novecento e agli inizi del Duemila, l’ Afghanistan era un Paese remoto e povero, sperduto chissà dove tra le lontane e ciclopiche montagne asiatiche. In molti addirittura non sapevano nemmeno dove fosse, ma ad un tratto, e con toni ben più sinistri, si riprese a parlare del Torneo delle ombre per indicare il bramoso interesse che l’ Afghanistan, spesso chiamato «Cimitero degli imperi» per il suo successo nel resistere alle occupazioni straniere, suscitò negli Stati Uniti, e non solo, in ambito politico e militare, ma anche imprenditoriale, al punto che ora risulta una delle nazioni più conosciute al mondo. Lo scopo ufficiale dell’ Operazione Libertà Duratura, l’ invasione decretata dal Presidente statunitense George W. Bush in conseguenza agli attentati dell’ 11 settembre 2001, era quello di liberare il Paese dalla rete terroristica di Al Qaeda, trovare Osāma bin Lāden e smantellare il regime teocratico dei talebani in vigore. Ma erano solo questi gli obiettivi, oppure ve ne erano altri che nel tempo furono sempre opportunamente omessi? Considerando i precedenti fatti di cronaca e leggendo tra le righe della versione ufficiale, si può intravedere una realtà più vasta e complessa, che negli anni ha portato l’ opinione pubblica sia nazionale che internazionale a contestare sempre più autorevolmente le motivazioni ufficiali.

L’ Afghanistan;


Nel 1979, l’ Afghanistan era guardato con una certa attenzione sia dall’ Unione Sovietica che dagli Stati Uniti. La Casa reale dei Barakzai era stata deposta da poco, nel 1973, e da allora la Repubblica Democratica Afghana faticava moltissimo nell’ assicurare stabilità e ordine al Paese. Nel mese di settembre, con l’ assassinio del Presidente Nur Mohammad Taraki, che tentò di democratizzare e laicizzare il Paese scontrandosi fortemente con le autorità religiose e tribali, il suo vice, Hafizullah Amin, mandante dell’ omicidio, assunse la Presidenza. I sovietici, tuttavia, non si fidavano di lui in quanto sospettavano che avesse legami con la CIA, pertanto decisero di invadere il Cimitero degli imperi, anche a rischio di destabilizzare la zona. L’ Armata rossa entrò a Kabul il 27 dicembre, e mise al potere un politico compiacente, Babrak Karmal.

Come in molti avevano previsto, l’ intervento militare sovietico provocò un serio peggioramento della guerriglia afghana contro le autorità della Repubblica Democratica Afghana: i mujāhidīn, ossia «combattenti per la jihād», divisi in più schieramenti e partiti che nel corso del conflitto non ebbero mai una guida unitaria, intrapresero una lunga lotta armata dando numerosi e gravi problemi al presidio sovietico e alle forze armate statali. Appoggiati politicamente e finanziariamente, addestrati e armati da Stati Uniti, Gran Bretagna e Arabia Saudita, che tramite i servizi segreti pakistani, l’ Inter-Services Intelligence, inviavano regolarmente gli aiuti, essi trovarono un importante alleato in un giovane saudita, Osāma bin Lāden, che li organizzò e coordinò per mezzo del Maktab al-Khidamat, un movimento islamista paramilitare in cui convogliavano soldi, armi e combattenti musulmani provenienti da tutto il mondo. Figlio di uno sceicco yemenita che, migrato povero in Arabia Saudita era divenuto un ricco e potente magnate dell’ edilizia vicinissimo agli Al Saud, la famiglia reale, Osāma funse da vero e proprio agente per conto delle autorità saudite, con cui si teneva regolarmente in contatto tramite il principe Turki bin Faisal Al Saud, capo della Direzione Generale dell’ Intelligence, principale agenzia dei servizi segreti sauditi: se gli statunitensi garantivano armi e addestramento, i sauditi fornivano ai combattenti denaro e legittimità spirituale, soprattutto per mezzo di una rete di scuole coraniche, madrassa, create in Pakistan per i milioni di profughi afghani che frequentarono come talebani, dal termine pashtu e farsi ṭāleb, ossia «studenti», per poi farli tornare tra le molte fazioni dei partigiani mujāhidīn.

Bin Lāden in una grotta afghana nel 1988;


La guerriglia dei guerrieri santi fu lunga e cruenta, e provocò vaste distruzioni e moltissime vittime in tutto l’ Afghanistan, finché nel febbraio 1989, dopo la firma degli accordi di Ginevra tra Repubblica Democratica Afghana e Pakistan, terminò con l’ abbandono del Paese da parte dell’ esercito sovietico.

Mentre i mezzi di comunicazione mondiali parlavano della fine del «Vietnam sovietico», gli scontri tra mujāhidīn e forze armate afghane proseguirono fino alla caduta del governo nell’ aprile del 1992: con la caduta della Repubblica Democratica, il Cimitero degli imperi vide i vari combattenti mujāhidīn iniziare a combattersi tra loro per l’ ascesa al potere, finché i talebani riuscirono a farsi valere come una forza in grado di portare l’ ordine in un Paese sempre più allo sbando. Forti del notevole supporto da parte degli afghani di etnia pashtun e dei pakistani, imposero con la forza una tregua richiamandosi ai valori del puro Islam, riducendo i combattimenti tra le varie fazioni in lotta ed eliminando tutti quei gruppi combattenti che non si schieravano dalla loro parte. Gli Stati Uniti speravano che potessero spingere i signori della guerra a risolvere le loro divergenze, e scelsero una politica di non intervento. Benché l’ ideologia talebana si basasse su idee religiose radicali, tali da scoraggiare simpatie e appoggi, in molti considerarono la loro entrata in scena come un positivo elemento di unione nazionale.

Dopo anni di combattimenti brutali, il 26 settembre 1996 essi occuparono Kabul e fondarono l’ Emirato Islamico dell’ Afghanistan, una teocrazia sotto la guida del Mullā Omar e comprendente il novantacinque percento del Paese, da cui erano escluse le regioni settentrionali rimaste nelle mani dell’ Alleanza del Nord, l’ unione dei diversi gruppi combattenti afghani comandati dai cosiddetti signori della guerra ostili al nuovo ordine. Il nuovo governo venne riconosciuto soltanto da tre governi stranieri, ossia Arabia Saudita, Pakistan ed Emirati Arabi Uniti. Apertamente ostile agli influssi del pensiero non musulmano e della modernità, il neonato Stato islamico si basò con convinzione sull’ interpretazione di un Islam estremamente conservatore, adottando un atteggiamento repressivo nei confronti degli oppositori e facendosi portatore di un ideale politico e religioso atto a recuperare il puro insegnamento culturale, sociale, giuridico ed economico di Maometto, colui che ogni musulmano riconosce come Profeta.


Terminata l’ esperienza sovietica in Afghanistan, il Torneo delle ombre si preparava ad avviarsi lungo un sentiero tortuoso, attraverso intrighi e rivalse destinate a provocare ulteriore scompiglio nella regione, e non solo. Nel 1988, supportato dai suoi più importanti luogotenenti, il giovane Osāma tramutò il Maktab al-Khidamat in Al Qaeda, ossia «la Base», un movimento paramilitare basato sul Sunnismo, la corrente prevalente più dogmatica dell’ Islam, eretta rigorosamente sugli atti e la parola di Maometto, e impegnato in atti terroristici nei confronti sia dell’ Occidente infedele che delle società islamiche ad esso vicine, pertanto tacciate di essere munāfiqūn, vale a dire «ipocrite». Le autorità politiche e religiose saudite provvidero fin da subito a finanziare generosamente i qaedisti, nonché a fornire uomini adeguatamente addestrati e indottrinati, al fine di promuovere una versione dell’ Islam radicale, capace di alimentare l’ estremismo e contrastare quei governi a visione sciita come la recente Repubblica Islamica dell’ Iran, retta dal Grande Āyatollāh Khomeynī.

Figlio di una ricchissima e potente famiglia legata alla cerchia più stretta della famiglia reale degli Al Saud e in prima linea del fronte a difendere e promuovere i valori fondamentali dell’ Islam, bin Lāden era considerato una ricca e valida risorsa, un vero devoto ad Allāh da impiegare nella complessa scacchiera del Medio Oriente, e oltre. Come confermato dal principe Bandar bin Sulṭān, membro della famiglia reale e ambasciatore saudita negli Stati Uniti tra il 1983 e il 2005: «Bin Lāden veniva da noi, in Arabia Saudita, quando gli Stati Uniti, attraverso la CIA, aiutavano i nostri fratelli mujāhidīn in Afghanistan nella lotta contro le forze armate sovietiche. Osāma bin Lāden è venuto e ha detto: ‘Grazie per aver convinto gli statunitensi ad aiutarci.’.».

Tuttavia, le cose cambiarono drasticamente con la Guerra del Golfo. Il 2 agosto del 1990, Saddam Hussein, Presidente dell’ Iraq, invase il vicino Kuwait per via delle sue notevoli risorse petrolifere, affermando che il minuscolo Paese fosse storicamente parte dell’ Iraq e che avesse acquisito l’ indipendenza soltanto attraverso le manovre imperialistiche della Gran Bretagna. L’ esercito iracheno, il più grande del Medio Oriente, ora piantonava il confine saudita, e Baghdad già considerava le vicine aree petrolifere saudite. Le Nazioni Unite si affrettarono a condannare l’ aggressione, mentre il Presidente degli Stati Uniti, George H. W. Bush, fu autorizzato dal Congresso a utilizzare la forza militare contro le truppe irachene in Kuwait, benché l’ autorizzazione fosse stata negata dal Consiglio di Sicurezza dell’ ONU. In Arabia Saudita, la posizione del re Fahd, di idee religiose assai conservatrici e noto per aver approvato pubblicamente la raccomandazione dello sceicco Abdul Aziz Bin Baz di evitare la via del male viaggiando in Europa e Stati Uniti, si fece molto problematica. Intuendo che gli intenti di Saddam, socialista, laicista e panarabista, erano un pericolo per la pura tradizione islamica e l’ autorità saudita sul mondo arabo, si avvicinò grandemente agli Stati Uniti nella guerra che si stava per scatenare. L’ ONU intimò all’ Iraq il ritiro delle truppe dal territorio kuwaitiano entro il successivo 15 gennaio: oltre tale data, gli Stati membri avrebbero autorizzato l’ impiego di ogni mezzo necessario affinché il Kuwait tornasse libero. Re Fahd accettò di ospitare sul suolo saudita le truppe della coalizione guidata dagli statunitensi, mettendo a disposizione un’ eccellente organizzazione logistica. Tale decisione suscitò notevoli critiche e la forte opposizione di buona parte della sudditanza, ostile alla presenza di truppe straniere e non musulmane sul suolo saudita, e fu apertamente contestata dai suoi fratelli Sudairi, fratelli di sangue che condividevano entrambi i genitori, nonché da un’ infinità di altri principi della vastissima famiglia reale, tra cugini e nipoti che reputavano intollerabile la presenza degli infedeli nella terra santa dove il Profeta era nato e aveva predicato la parola di Allāh dopo aver ricevuto il Corano tramite l’ arcangelo Gabriele.

Benché gli statunitensi fossero fra i più importanti alleati dei sauditi, diversi membri di Casa Al Saud nutrivano sentimenti contrastanti nei loro confronti. Lo stesso Osāma era nettamente contrario, e si incontrò immediatamente con Fahd e il principe Sulṭān bin Abdulaziz, Ministro della Difesa, incoraggiandoli a non dipendere dal sostegno concesso dagli occidentali, offrendosi di aiutare e di difendere l’ Arabia Saudita con i suoi guerrieri afghani. La sua proposta venne fermamente respinta, e il monarca invitò gli Stati Uniti a dispiegare le forze in territorio saudita. Bin Lāden denunciò pubblicamente la completa dipendenza militare saudita nei confronti degli Stati Uniti, sostenendo che i due luoghi più sacri dell’ Islam, La Mecca e Medina, ove Maometto aveva ricevuto e divulgato la parola di Dio, avrebbero dovuto essere difese dai musulmani. In un filmato in cui si trovava circondato dai suoi seguaci recitò con toni commossi svariati versetti del Corano, e raccontò della vita del Profeta, paragonando i governanti sauditi a Saddam e alludendo al loro essere come i vecchi ṭawāghīt, gli idoli preislamici, seppur non esplicitamente. Non mancò di condannare la corruzione e la bancarotta morale della famiglia reale saudita, di definire innovatrici e lontane dalla mentalità di Maometto le autorità del Regno, avendo abbandonato la terra santa alla Casa Bianca, preferendola ai musulmani. Da quel momento in poi non si rivolse mai più all’ Arabia Saudita con la tradizionale espressione «Terra delle due sacre Moschee», non riconoscendo più come legittima autorità del Paese quella di Casa Al Saud.


Dopo mesi di negoziati infruttuosi, la notte tra il 16 e il 17 gennaio 1991 la coalizione guidata dagli statunitensi e formata da trentacinque Stati, tra cui alcune nazioni arabe e l’ Unione Sovietica, cominciò una devastante campagna aerea contro l’ Iraq e le truppe irachene nel Kuwait. La Guerra del Golfo, evento mediatico che segnò uno spartiacque nella storia dei media, terminò il 28 febbraio 1991, con il previsto ritiro delle truppe irachene dal Kuwait.

Con lo stanziamento di ventimila soldati statunitensi, che rimasero a tenere d’ occhio il dittatore di Baghdad in modo da prevedere eventuali reazioni, si consumò la preannunciata rottura tra Osāma e la Corona saudita. Bin Lāden non smise mai di rivolgere accuse e critiche a Fahd, nonchè ai principi della famiglia reale circa la loro vita dissoluta, infastidendo notevolmente le autorità a lui fedeli che tentarono inutilmente di farlo tacere, e guadagnandosi al tempo stesso l appoggio di tutti quei principi che condividevano la sua opinione in aperta opposizione al monarca, soprattutto Abdullah, suo fratellastro e conservatore molto rispettato, Comandante della Guardia Nazionale ed erede al trono saudita, che divenne suo protettore. Il governo di Riyad, infine, lo privò della cittadinanza saudita e gli impose di lasciare il Paese. Dopo aver vissuto in Sudan dal 1992, nel maggio 1996 il capo di Al Qaeda tornò a Jalalabad, in Afghanistan, avvicinandosi definitivamente al Mullā Omar e ai talebani, con cui rafforzò i propri legami spirituali, e facendo del Paese centroasiatico il quartier generale della sua rete.

Il percorso previsto del gasdotto TAPI;


L’ Afghanistan si trova in una posizione strategica dell’ Asia centrale, in una regione ricchissima di risorse naturali da tempo al centro di una nuova lotta per il loro controllo. Si stima che l’ intero Mar Caspio sia colmo di petrolio e gas metano, a partire dall’ Azerbaijan e continuando verso la riva opposta nel territorio del Kazakistan e del Turkmenistan: tali giacimenti sono di estrema importanza per la vicinanza alle nascenti potenze di Cina e India, a loro volta affamate di energia. Tuttavia, in quel tempo la principale potenza che controllava le infrastrutture energetiche locali, e quindi le esportazioni, era Mosca. E l’ Occidente, da parte sua, era alla ricerca di nuove fonti di approvvigionamento energetico. Nel corso della storia, tutti i Paesi che hanno tentato di occupare e sfruttare le terre dell’ Asia centrale si sono stati di fronte ad un ostacolo non da poco, rappresentato dalla mancanza di sbocchi sul mare. Oggi, però, ogni barriera può essere facilmente elusa con la tecnologia, l’ ingegneria e l architettura.

Nell aprile 1995, il Consiglio per la sicurezza nazionale, il principale organo che consiglia e assiste il Presidente statunitense in tema di sicurezza nazionale e politica estera, insieme a Dipartimento di Stato e CIA, l’ agenzia di spionaggio per l’ estero, formò un gruppo di lavoro per studiare gli interessi statunitensi sul petrolio e sul gas nella regione del Mar Caspio. Nello stesso mese, alcuni governanti del Turkmenistan viaggiarono in Texas, a Sugarland, per incontrarsi con i dirigenti della Unocal, una grande società energetica internazionale, per discutere la fattibilità della costruzione di un gasdotto lungo millesettecento chilometri che, partendo dal Turkmenistan, avrebbe attraversato l Afghanistan, il Pakistan e l’ India, fino a giungere nel Mar Arabico. Per la Unocal e il governo statunitense i risultati di tale progetto, detto TAPI dalle iniziali dei Paesi che avrebbe coinvolto, sarebbero stati miracolosi, adatti a moltissimi scopi: da una parte avrebbe evitato che India e Pakistan si rifornissero di gas naturale dall Iran, che aveva offerto la costruzione di un gasdotto diretto, e dall’ altra avrebbe segnato un punto importante nella competizione con la Cina sull’ accaparramento delle risorse energetiche centroasiatiche. In ottobre, il Presidente del Turkmenistan, Saparmurad Niyazov, firmò ufficialmente l’ accordo con la Unocal e la Saudi Arabian Delta Oil Company, dando alle due società i diritti esclusivi per sviluppare il gasdotto transafghano nel suo Paese. Due anni dopo, nel 1997, una delegazione di alti dignitari talebani fu invitata a Sugarland dalla Unocal per aprire i colloqui sulla costruzione del gasdotto sul tratto previsto in Afghanistan, trascorrendo molti giorni in Texas. Bill Clinton, allora Presidente degli Stati Uniti, colpito dall’ apparente volontà dei talebani di discutere del gasdotto, scelse di sostenere la loro presa del potere in terra afghana, giudicandoli aperti all’ Occidente e ostili all’ Iran. La Unocal, desiderosa di iniziare quanto prima lo sfruttamento delle vaste risorse energetiche della regione del mar Caspio, commissionò all’ Università del Nebraska la formazione di tecnici afgani in modo da contribuire alla costruzione del TAPI. Frattanto, però, le ombre continuavano a farsi più oscure, e la minaccia fantasma di Osāma bin Lāden si affacciava su di un orizzonte più ampio e mortale, orientando il Torneo nella sua parte peggiore. Nel febbraio 1998, dalle stesse montagne in Afghanistan, lanciò una fatwā, una condanna religiosa, contro gli Stati Uniti, rei di sacrilegio verso la fede e offesa al popolo musulmano per il loro supporto ad Israele e alle sue azioni contro i musulmani libanesi, per la presenza di loro truppe in Arabia Saudita, le sanzioni contro l’ Iraq, i loro «attacchi contro musulmani» in Somalia e la presenza di governi a loro vicini in Medio Oriente. Tramite Al Qaeda, il 7 agosto del 1998 compì una serie di attentati alle ambasciate statunitensi in Kenya e Tanzania, provocando duecentoventiquattro morti e circa quattromila feriti. Questi attacchi terroristici suscitarono effetti a cascata, e portarono alla rottura definitiva tra statunitensi e talebani, che proteggevano il terrorista saudita e voltarono le spalle agli interessi statunitensi chiudendo il loro emirato al percorso del gasdotto, ostacolando un progetto dal valore di ben otto miliardi di dollari.

Latitante e schedato dall FBI statunitense nella lista dei dieci criminali più ricercati, sempre con il generoso e fondamentale appoggio saudita, e non ancora sazio di sangue statunitense infedele, Osāma guardò avanti e concepì un grande e sensazionale attacco contro gli Stati Uniti direttamente sul loro territorio. I principi sauditi ostili alle aperture di re Fahd elargivano tuttora supporto materiale ad Al Qaeda attraverso i sostanziosi contributi di enti caritatevoli islamici controllati dallo Stato e fornendo uomini qualificati e timorati di Allāh: l’ attacco al diavolo occidentale sarebbe stato brutale e inevitabile, tutti lo avrebbero visto senza poter fare nulla per evitarlo.

Il Presidente George W. Bush;


Qualche tempo dopo, nel 2000, negli Stati Uniti si tennero le elezioni presidenziali. La sfida contrappose il candidato repubblicano, George W. Bush, Governatore del Texas e figlio dell ex Presidente George H. W., e il Vicepresidente uscente, il democratico Al Gore. La proclamazione del vincitore venne rinviata per molti giorni, poiché nello Stato determinante della Florida fu necessario ricontare i voti, addirittura a mano, e alla fine Bush ottenne la maggioranza con un distacco di appena cinquecentotrentasette voti. Per anni dirigente nel settore petrolifero ed energetico, sotto la presidenza di Bush il braccio di ferro relativo al TAPI entrò nella sua fase più drammatica: il «sogno geopolitico americano» in quello che gli stessi statunitensi definivano un «corridoio di transito cruciale» doveva assolutamente divenire realtà, e le aziende a stelle e strisce avrebbero finalmente intascato i previsti immensi profitti. Sarebbe stata una pura follia lasciar naufragare tutto, occorreva agire in qualsiasi modo, e senza lasciare nulla di intentato. Ma a sorpresa, sembrava che un vecchio nemico fosse disposto ad offrire un aiuto di estrema importanza, semplificando enormemente le cose fungendo da pretesto ideale per agire contro i talebani e magari addirittura sostituirli con un governo amico…

La CIA presenta a Bush il rapporto su Osāma;

La CIA era perfettamente al corrente dei piani di bin Lāden e Al Qaeda in territorio statunitense: una serie di documenti riservati inviati con alta priorità alla Casa Bianca durante tutto il 2001, attualmente resi pubblici dalla stampa, riferivano di possibili attacchi di Al Qaeda nel cuore della nazione. Un rapporto in particolare, ricevuto da Bush il 6 agosto mentre era in vacanza nel suo ranch in Texas, addirittura, parlava di rischi di dirottamenti di aerei statunitensi all’ estero o sul suolo nazionale e recava un titolo allarmante e inequivocabile: «Bin Lāden determinato a colpire negli Usa». Il documento sottolineava che Osāma sperava di «portare la battaglia in America» come rappresaglia per l’ attacco missilistico ai campi della rete terroristica in Afghanistan nel 1998. Era stato lo stesso Bush, dopo aver ricevuto avvisi su minacce di attacchi di Al Qaeda oltre i confini statunitensi, a chiedere ai servizi segreti un indagine, dicendosi poi deluso perché non erano emersi sufficientementi dettagli e neppure informazioni recenti. La sezione dell’ FBI di Phoenix, in Arizona, ammonì addirittura che Al Qaeda stava utilizzando scuole di volo statunitensi per addestrare i suoi terroristi ed elencava i nomi di almeno due seguaci. Come se non bastasse, la CIA segnalava rischi di attacchi suicidi con aerei dirottati contro il Pentagono o la Casa Bianca fin dal 1999, che tuttavia già Clinton aveva reputato indicazioni di «scarso valore informativo e strategico» poiché si limitavano a utilizzare informazioni già pubbliche per cercare d’ ipotizzare che cosa i terroristi di Osāma potessero fare. I rapporti mostravano che il saudita era pericoloso, ma non fornivano informazioni precise sulle sue intenzioni. Ragion per cui Clinton aveva ordinato di colpire i campi d’ addestramento di Al Qaeda e di cercare di scovare e catturare o eliminare il capo dell’ organizzazione.

Benché adeguatamente informato, il governo Bush non fece assolutamente nulla: non adottò alcun piano di difesa e neppure si mosse contro i sospetti. In altre parole, lasciò semplicemente che gli eventi facessero il loro corso.

Il rapporto della CIA su Osāma;


In seguito, la mattina dell’ 11 settembre, un martedì, sotto il limpido e soleggiato cielo di New York, la metropoli più affollata e caotica al mondo, i crudeli piani del terrorista saudita si abbatterono come un fulmine a ciel sereno in una delle sue zone più note, importanti e affaccendate. Una giornata come tante altre fu scossa nel peggiore dei modi, con quattro aerei di linea, appartenenti a due delle maggiori compagnie aeree statunitensi, la United Airlines e la American Airlines, dirottati da diciannove terroristi di Al Qaeda. Due di essi, il volo American Airlines 11 e il volo United Airlines 175, furono rispettivamente fatti schiantare contro le Torri Gemelle del World Trade Center, nella parte sud dell’ isola di Manhattan. Nel giro di un’ ora e quarantadue minuti, entrambi i palazzi crollarono. Un terzo aereo, il volo American Airlines 77, fu fatto schiantare contro il Pentagono, sede del Dipartimento di Difesa, ad Arlington, in Virginia. L’ attacco causò il crollo della facciata ovest dell’ edificio. Un quarto e ultimo aereo, il volo United Airlines 93, fatto inizialmente dirigere verso Washington, precipitò invece in un campo nei pressi di Shanksville, in Pennsylvania, a seguito di una rivolta dei passeggeri.

Con le Torri Gemelle e il Pentagono profanati, il popolo statunitense si sentì dolorosamente devastato e vulnerabile. La distruzione del solo World Trade Center causò la morte di ben duemilanovecentosettantasette persone, oltre i diciannove dirottatori, e il ferimento di altre seimila. Ebbe peraltro un significativo impatto sui mercati globali, causando la chiusura di Wall Street fino al 17 settembre e aggravando notevolmente una crisi economica già in atto, divenendo da subito per l opinione pubblica il più grave attentato dell’ età contemporanea, infinitamente superiore al dramma di Pearl Harbor. I terroristi avevano pienamente raggiunto il loro scopo: l’ egemonia culturale statunitense sull’ immaginario globale, vissuta come una leggenda spettacolare, un orizzonte mitico pianificato per sostenere e mascherare il progetto di dominio politico ed economico della bandiera a stelle e strisce sul mondo, aveva ricevuto una dichiarazione di guerra senza precedenti, ed era stata gravemente colpita sia nella forma che negli effetti. L’ Occidente non sarebbe stato mai più lo stesso di fronte allo zelo dei devoti ad Allāh.

Il Presidente viene informato degli attentati;


Quella stessa mattina, Bush era in visita in Florida. Il precedente 5 settembre la sua popolarità era ai minimi storici, appena al quarantacinque percento, tanto che molti osservatori lo reputavano già un capo non rieleggibile. Nel momento esatto in cui avvenivano gli attentati stava assistendo a una dimostrazione di lettura degli scolari della classe 301 della scuola elementare Emma E. Booker di Sarasota. Il capo del personale presidenziale gli si avvicinò e gli sussurrò all’ orecchio che la nazione era sotto attacco: tuttavia, anziché preoccuparsi della propria incolumità o di dare priorità a quanto stava accadendo, il Presidente degli Stati Uniti rimase semplicemente seduto in aula a leggere con i bambini la favola della capretta per ben sette minuti, come se nulla fosse accaduto.

Finalmente decisosi a prendere in mano la situazione, nelle ore successive l’ inquilino della Casa Bianca tuonò pubblicamente che un atto tanto vile e spregevole andava punito, e che avrebbe scatenato senza pietà l esercito. I sospetti ricaddero quasi subito su Osāma e Al Qaeda, e tutti i diciannove dirottatori vennero identificati con esattezza: ben quindici di loro erano sauditi, mentre due erano emiratini, uno egiziano e un altro ancora libanese. Ciascuno selezionato con criteri estremamente precisi, con valutazioni atte a stabilirne le motivazioni e a escludere potenziali spie e insicuri, e soprattutto a chiarirne il grado di istruzione e le abilità lavorative, essi erano stati suddivisi tra piloti e guardaspalle: i primi avevano vissuto in Occidente, vantavano un alto grado d’ istruzione, una buona preparazione tecnica accompagnata da un’ eguale padronanza dell’ inglese, e per ironia della sorte molti di loro si erano formati in scuole di volo in Florida, mentre gli altri per lo più erano disoccupati, avevano un grado d’ istruzione molto basso, ed erano tutti originari di territori ristretti e assai poveri.

Le forze internazionali invadono l’ Afghanistan;


George W. Bush e il suo governo si scagliarono prontamente contro bin Lāden, e il successivo 20 settembre lanciarono un’ ingiunzione ai talebani, in cui esigevano la consegna di tutti i qaedisti presenti in Afghanistan, prima tra tutte quella di Osāma, e la chiusura dei loro campi di addestramento, oltre che il libero accesso agli stessi campi per verificarne lo smantellamento. Alle televisioni e ai giornali, il Presidente dichiarava alla maniera di un moderno cowboy: «Lo staneremo!». Ma dall’ altra parte del mondo i talebani, che non gli risposero direttamente nella convinzione che l’ atto di dialogare con un politico non musulmano fosse un insulto per l’ Islam, fecero sapere per mezzo della loro ambasciata in Pakistan di non poter accogliere l’ ultimatum in quanto non vi era alcuna prova evidente che riconducesse gli attentati presso New York e Washington a bin Lāden, ma in un secondo momento si dissero favorevoli a processarlo in Afghanistan. Reputando insufficiente la loro offerta, il 7 ottobre 2001 il Presidente dichiarò guerra all’ Afghanistan, avviando una campagna di bombardamenti aerei contro Al Qaeda e i talebani alla testa di una coalizione che comprendeva vari Paesi occidentali, come Gran Bretagna, Francia, Germania, Italia e Canada: il movente era perfetto e aveva funzionato a dovere, ora finalmente gli studenti di scuola coranica che farneticavano verso i cieli invocando la jihād nel nome di Allāh si sarebbero potuti spodestare in favore di qualche altro dignitario più malleabile, qualcuno che avrebbe assicurato la realizzazione del gasdotto TAPI e tutti i suoi preziosi profitti ponendo fine all’ ormai interminabile serie di contrattempi e ritardi.

La prima guerra del XXI secolo si scatenò tra colpi di guerriglia e propaganda mediatica, tenendo il mondo con il fiato sospeso, ma senza ottenere progressi significativi circa la caccia al terrorista saudita. Nonostante la feroce e tenace guerriglia condotta dai miliziani jihadisti, Kabul cadde nel giro di un mese, il 14 novembre, e i talebani si ritirarono nella roccaforte di Kandahar, nell’ Afghanistan del sud, che a sua volta cedette il 7 dicembre, segnando la fine dell’ Emirato islamico. Poco distante, tra il 3 e il 17 dicembre, le forze aeree statunitensi bombardarono furiosamente il complesso di caverne di Tōrah Bōrah, nell’ Afghanistan orientale, poiché i servizi informativi vi avevano segnalato in un punto indefinito il nascondiglio di bin Lāden, il quale a dispetto della propaganda serrata, secondo cui aveva luogo una spietata caccia al terrorista e una devastante aggressione a coloro che lo proteggevano, riuscì a sfuggire vivo. Come se non bastasse, Richard Clarke, allora capo della divisione antiterroristica, rilasciò alcune celebri interviste che destarono sensazione: «Gli Stati Uniti fecero poco, e lo fecero lentamente. Mandarono solo undicimila soldati. C’ è più polizia a Manhattan che soldati statunitensi in Afghanistan. La reazione di Bush è stata piuttosto blanda, doveva dare la caccia subito a bin Lāden. Le Forze Speciali entrarono nella zona dove era bin Lāden solo due mesi dopo.».


Messo pubblicamente alle strette con la notizia della fuga dell’ uomo che aveva provocato circa tremila morti in un solo giorno e del Mullā Omar, clamorosamente sgattaiolato in sella a una logora motocicletta da Baghran, nell’ Afghanistan meridionale, nonché di quella della maggior parte dei talebani verso le montagne, ove organizzarono una drammatica resistenza armata, e in Pakistan, il Presidente Bush rispose ai giornalisti: «Il terrorismo coinvolge più di un individuo. E bin Lāden non è che un individuo che ora è stato emarginato. Quindi non so dove sia. Non è che gli dedichi molto tempo.».

Ma ben presto molte altre notizie spiacevoli contribuirono a compromettere la sua immagine pubblica, che a seguito degli attentati era salita fino all’ ottantasei percento, facendo calare drasticamente i suoi indici di gradimento. Innanzitutto, il suo governo provvide fin da subito a insabbiare il coinvolgimento dei sauditi nell’ 11 settembre e cercò di impedire la formazione di una commissione che indagasse sugli attentati. Tuttavia, non potendosi opporre al Congresso, che alla fine impose un gruppo d’ inchiesta ufficiale, cercò di ostacolare la formazione di un secondo comitato indipendente. E quando la commissione del Congresso presentò il rapporto relativo alla propria inchiesta, il Presidente ne censurò ben ventotto pagine: secondo fonti dei servizi segreti, infatti, l’ Arabia Saudita era coinvolta. Nonostante la sua contrarietà, più di cinquecento famigliari delle vittime dell’ 11 settembre fecero causa all’ Arabia Saudita e agli Al Saud, ma il Ministro della Difesa saudita si rivolse all’ avvocato e politico James Baker, un’ influente personalità molto vicina alla famiglia Bush, affinché insabbiasse l’ azione, secondo cui «l’ Arabia Saudita fornì supporto materiale ad Al Qaeda per più di un decennio, fino all’ 11 settembre 2001. Era informata che la rete del terrore di bin Lāden intendeva utilizzare il suo appoggio per compiere attentati terroristici negli Stati Uniti. Al Qaeda non sarebbe stata in grado, senza l’ aiuto saudita, di concepire, pianificare ed eseguire gli attacchi dell’ 11 settembre». Al governo statunitense conveniva enormemente negare il coinvolgimento saudita negli attentati di Osāma poiché la Terra delle due sacre Moschee è di fatto il più grande giacimento di petrolio al mondo, di cui fissa i prezzi aumentando o diminuendo la produzione. Inoltre, è il principale acquirente di armi statunitensi, con una spesa di ben novantasette miliardi di dollari, e vanta l’ investimento di una somma pari a ottocentosessanta miliardi di dollari nell’ economia statunitense, per un totale del sette percento del suo totale: se un giorno i sauditi decidessero di ritirarli, per gli Stati Uniti sarebbe stato un vero e proprio disastro finanziario. Peraltro, i mezzi di comunicazione parlarono persino dell’ invito a cena alla Casa Bianca per un colloquio informale che Bush aveva rivolto al principe Bandar bin Sulṭān, l’ ambasciatore saudita, che si erano tenuti il 13 settembre: benché Osāma fosse saudita, Al Qaeda fosse finanziata da denaro saudita e quindici dirottatori su diciannove fossero stati sauditi, il Presidente degli Stati Uniti si era intrattenuto privatamente, riservatamente e informalmente con il rappresentante diplomatico dell’ Arabia Saudita, il cui governo non congelò i beni degli attentatori e neppure permise ai parenti delle vittime di rivolgersi a quelli dei dirottatori. Le tematiche del colloquio non vennero mai divulgate: forse Bush rassicurò il principe Bandar dicendo di avere già in atto in piano con cui risolvere i problemi ed evitare situazioni spiacevoli al suo Paese? Un altro duro scossone all’ immagine del Presidente venne dal fatto che, all’ indomani dell’ 11 settembre, benché tutti i voli nazionali e internazionali che coinvolgevano gli Stati Uniti fossero stati cancellati per ragioni di sicurezza, il governo autorizzò alcuni voli che permisero a centoquarantadue sauditi, molti dei quali erano principi di Casa Al Saud, e a ventiquattro membri della famiglia bin Lāden di lasciare il Paese: un clamoroso autogol politico e senz’ altro un pesante intralcio alle indagini riguardanti l’ accaduto e i responsabili…

Bush e Hamid Karzai;


Il prezzo da pagare era stato certamente altissimo in termini umani, strategici e di immagine, eppure l’ obiettivo fondamentale, ossia la conquista dell’ Afghanistan per giusta causa, era andato a buon fine. Restavano solo alcuni dettagli da definire: il 20 dicembre, alla Conferenza internazionale sull’ Afghanistan in Germania, venne scelto come capo dell’ Amministrazione provvisoria Hamid Karzai, un personaggio poco noto proveniente da una famiglia pashtun, parte dell’ influente clan Popalzay, che qualche anno addietro era stato consulente della Unocal. Suo fratello, Ahmed Wali, era peraltro indicato come ampiamente coinvolto nel traffico di oppio, di cui il Paese è da lungo tempo un grandissimo produttore, così come nel reclutamento di forze paramilitari che operavano al servizio della CIA contro gli insorti. Tutto questo ovviamente andava nettamente a vantaggio dei piani statunitensi, e infatti, subito dopo l’ insediamento, Karzai firmò con il Presidente pakistano, quello turkmeno e il Ministro del petrolio e del gas naturale indiano gli accordi necessari per la realizzazione del TAPI, in un progetto che avrebbe avuto una portata annua di trenta miliardi di metri cubi di gas naturale, destinati per l’ ottantaquattro percento nelle condutture di Pakistan e India e per il restante sedici percento alla rete afgana. A Kabul, il TAPI avrebbe assicurato quattrocento milioni di dollari all’ anno in diritti di transito e circa dodicimila posti di lavoro. Parallelamente, Washington nominava un proprio rappresentante nel Cimitero degli imperi: l’ agente diplomatico Zalmay Khalilzad, nato in Afghanistan e formatosi negli Stati Uniti, che negli Anni Novanta aveva lavorato come consulente per la Cambridge Energy Research Associates, proprio mentre stava conducendo un’ analisi dei rischi per la Unocal circa il progetto del TAPI.

Bush e Zalmay Khalilzad;


Quando politica e affari viaggiano sullo stesso carro, solitamente ci si deve preparare ad affrontare i guai peggiori, perché il risultato e il profitto vengono al primo posto, senza curarsi di quante persone vadano sacrificate. E la questione del gasdotto TAPI pare proprio un esempio lampante di questo drammatico principio, la vera motivazione per cui siano stati permessi gli attentati dell’ 11 settembre 2001, consentendo un’ invasione militare che diversamente non avrebbe avuto una giustificazione. Eppure, nonostante la propaganda e le dichiarazioni forti, già in quei giorni la gente non poté fare a meno di chiedersi se fosse davvero possibile che nonostante i possenti e raffinati strumenti di osservazione a disposizione nessuno si fosse reso conto che ben quattro aerei commerciali fossero stati dirottati, provvedendo quindi ad abbatterli evitando una carneficina destinata a fare storia. Eppure l’ Occidente finse di non vedere, come sarebbe avvenuto in seguito, nel 2003, quando si sarebbe bevuto la scusa delle armi di distruzione di massa di Saddam come base per un’ altra guerra con conseguente invasione, e sebbene l’ attacco alle Torri Gemelle fosse stato riconosciuto come un atto di terrorismo e non di guerra da parte di un Paese straniero, questo non impedì che già il giorno seguente, il 12 settembre, l’ Alleanza atlantica invocasse l’ applicazione dell’ Articolo 5 della Carta NATO sulla difesa reciproca: ogni Stato dell’ Alleanza non perse tempo a manifestare il proprio pubblico appoggio a Washington.

La guerra in Afghanistan divenne la più lunga guerra mai combattuta dagli Stati Uniti, e com’ era ovvio che fosse minò il morale dei militari in essa coinvolti. La maggior parte degli statunitensi si stancò ben presto dell’ occupazione del lontano Paese centroasiatico da parte della propria macchina da guerra, soprattutto considerando che Osāma bin Lāden e i talebani fossero riusciti a scappare tanto facilmente, con il dubbio che in realtà fossero stati lasciati andare, e che dopo la caduta della loro teocrazia si fosse insediato uno dei governi più inefficienti e corrotti al mondo, che non riformò il Paese, continuando invece a non garantire i diritti civili tra discriminazione sessuale, censura, repressione del dissenso e tortura, dando piuttosto nuova linfa alla produzione e allo spaccio di oppio ed eroina, vietati al tempo dello Stato islamico. Le autorità governative, sia centrali che periferiche, si impantanarono beatamente in questa losca attività dagli effetti deleteri, non solo sulla popolazione afghana, ma anche quella occidentale, non esclusa quella italiana, le cui fasce giovanili presero presto ad interessarsi della famigerata eroina afghana.

Obama segue l’ operazione di assassinio di Osāma;


Osāma venne usato molto bene come scusa nel regolare vecchi conti in sospeso. Grazie a lui, i burattinai di Washington e dintorni tirarono abilmente i fili del Torneo delle ombre dimostrando di possedere menti assai raffinate. Nemmeno il successore di George W. Bush, il democratico Barack Obama, insediatosi alla Casa Bianca il 20 gennaio 2009, si sottrasse alla regola, riconoscendo a sua volta il terrorista saudita come un’ utile e ricca risorsa da cui trarre beneficio: la sua elezione era stata salutata con grande entusiasmo in quanto primo afroamericano chiamato a rappresentare l’ intera nazione statunitense, ma negli anni successivi nonostante i successi sia in politica interna, con il salvataggio dell’ industria automobilistica e l’ approvazione della riforma sanitaria, e quelli in politica estera con la fine della guerra in Iraq nel 2011, con l’ aggravarsi della crisi economica e l’ aumento della disoccupazione la sua popolarità subì un netto e preoccupante calo. Occorreva quindi un colpo di teatro con cui assicurarsi la rielezione nel 2012, e l’ uccisione di bin Lāden sarebbe equivalsa ad un successo imparagonabile. Preceduta da attenti e dettagliati preparativi, nonché da un’ imponente raccolta di informazioni e sorveglianza condotta dalla CIA, l’ Operazione Neptune Spear, portata avanti dai famigerati Navy SEAL, le forze speciali della Marina militare, e autorizzata da Obama in persona, localizzò Osāma bin Lāden in una palazzina indipendente nei pressi di Abbottabad, in Pakistan, lungo il confine afghano, e il 2 maggio 2011 lo uccisero durante un assalto.

La morte del terrorista saudita sui giornali;


Con aria risoluta, il Presidente degli Stati Uniti poté finalmente presentarsi in diretta televisiva e annunciare al mondo il proprio trionfo: «Questa notte posso riferire alla gente d’ America e al mondo che gli Stati Uniti hanno portato a termine un’ operazione in cui è stato ucciso Osāma bin Lāden, il leader di Al Qaeda, un terrorista che è responsabile dell’ omicidio di migliaia di uomini, donne e bambini innocenti. Sono passati quasi dieci anni da quel giorno luminoso di settembre oscurato dal peggiore attacco della nostra storia contro americani. Le immagini dell’ 11 settembre sono scolpite nella nostra memoria nazionale: aerei dirottati comparire all’ improvviso in un limpido cielo di settembre; le Torri Gemelle collassare al suolo; un fumo nero alzarsi dal Pentagono; il disastro del volo 93 in Shanksville, in Pennsylvania, dove le azioni di cittadini eroici hanno consentito di evitare una distruzione e un dolore ancora maggiori.». Proprio come previsto, la morte del terrorista saudita venne accolta favorevolmente dall’ opinione pubblica sia statunitense che mondiale, e salutata dal Segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, dalla NATO, dall’ Unione europea e da un gran numero di Paesi come un positivo e rilevante punto di svolta della sicurezza globale e della lotta al terrorismo. Fu il successo principale che restituì a Obama un elevato indice di gradimento, essendo riuscito laddove Bush era venuto meno, e come previsto gli garantì il secondo mandato.

Il TAPI lungo l’ Afghanistan;


Attualmente, dopo più di due decenni, tra numerose interruzioni e rinvii dovute all’ instabilità dei Paesi coinvolti e dopo i drammatici eventi del terrorismo jihaidista, il progetto del TAPI pare finalmente destinato a concretizzarsi. A seguito di mille ostacoli politici e orientato lungo un percorso che procede tra terre dominate dai gruppi insurrezionalisti e jihaidisti e collide con le vecchie inimicizie tra India e Pakistan, perennemente contrapposti a causa dell’ irrisolta questione territoriale del Kashmir, il 13 dicembre 2015 si tenne la cerimonia di inizio dei lavori di costruzione, con l’ inaugurale colata di cemento deposta nel deserto del Karakum, a trecento chilometri da Ashgabat, alla presenza del Presidente del Turkmenistan, Gurbanguly Berdymukhammedov, di quello afghano Ashraf Ghani, del pakistano Nawaz Sharif e del Vicepresidente indiano Mohammad Hamid Ansari. Un messaggio rivolto dai quattro statisti venne avvolto in una capsula speciale e immerso nelle fondamenta, mentre uno schermo panoramico mostrava accadere ciò che finora si era rivelato soltanto una chimera. Il Ministro degli Esteri turkmeno lo definì il più ambizioso progetto energetico del XXI secolo, mentre il Presidente afghano disse che avrebbe ravvivato l’ importanza dell’ Afghanistan nella regione, alludendo alla realizzazione di una nuova Via della Seta in grado di creare almeno dodicimila posti di lavoro per la popolazione locale. Il direttore generale dell’ Asian Development Bank, sostenne che il gasdotto avrebbe segnato un nuovo capitolo nella cooperazione economica regionale: «Un vero e proprio punto di svolta, un impegno storico che viene incontro al fabbisogno energetico della regione e contribuisce a sua volta allo sviluppo, alla pace, alla sicurezza e alla prosperità.».

Gli Stati Uniti non mancheranno ovviamente di vegliare su tutto questo bel piano teso allo sviluppo economico e diplomatico locale, ben attenti a non perdere il controllo sulle risorse naturali di questa importante regione. Il loro impero, composto da oltre settecento basi militari sparse per centotrenta nazioni, altro non è che un servizio di protezione del petrolio, dipinto da una certa propaganda romantica come un esercito che cerca di esportare la democrazia, o almeno una sua particolare versione. Anziché per proteggere i confini nazionali, le forze armate furono utilizzate dai funzionari del governo per proteggere il sistema del petrodollaro, eppure, come ben si sa, nulla dura per sempre: ogni civiltà, all’ apice della sua magnificenza, si avvia verso la decadenza, e le fondamenta dell’ impero statunitense rischiano di sgretolarsi di fronte a quelle nazioni emergenti ormai non più disposte a trascorrere la propria vita e la trovata ricchezza servendo il consumatore statunitense, o a tollerare la belligeranza della sua macchina da guerra. I tentativi statunitensi per il dominio regionale dell’ Asia centrale porteranno ad ulteriori attriti con la Russia o con la Cina, con il rischio che questi forniscano la scintilla per lo scoppio di qualche altra nuova guerra…

2 commenti:

  1. Bel lavoro. condivido la tua lettura dei fatti.

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    1. Grazie infinite, sono molto contento che le sia piaciuto, e che condivida!

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