Il XIV Dalai Lama del Tibet; |
«‘Per la prima
volta,’ scrissi nel mio diario quella sera ‘ho avuto modo di cogliere la sua personalità,
al di là dell’ istituzione in cui è inserito. E’ un uomo semplice, ma
incredibilmente lucido. Sembra avere una mente lineare. La sua umiltà è
talmente irresistibile da renderlo carismatico. Era straordinario vederlo
passeggiare tra la gente senza essere attorniato da sfarzo e servilismo.’. Eppure,
per quanto lo ammirassi, il Dalai Lama restava per me più una figura iconica
che una persona con cui potessi avere uno scambio profondo.» tratto da «Confessione di un ateo buddhista» di Stephen Batchelor;
Dalla
seconda metà del Novecento, il XIV Dalai Lama è uno degli uomini più famosi e
stimati in tutto il mondo. Nato ed educato in Tibet, un lontano, remoto e misterioso
Paese che per secoli è rimasto quasi del tutto isolato tra montagne ciclopiche
e gole spaventose, cime sublimi e cieli di tempesta, passando alla storia come
una terra leggendaria popolata da nomadi, pellegrini e mistici, colma di monasteri
appollaiati su monti apparentemente inaccessibili, alternati dalle grotte
abitate dagli eremiti, raccolti nella più assoluta e terrificante solitudine, egli
è la decima e ultima guida suprema di un sistema religioso e politico sfarzoso
e suggestivo, rimasto rigorosamente immutato e uguale a sé stesso per trecento
anni, in un periodo compreso tra il 1642 e il 1959, nel quale l’ insegnamento del
Buddha Śākyamuni rappresentava la cosa più importante di tutte e i lama, ammantati
in un alone di santo risveglio e infallibile illuminazione, detenevano un’ autorità
di cui nessuno avrebbe mai osato dubitare.
Rifugiato
politico in India dal 1959, ove vive con il generoso sostegno del governo di
Nuova Delhi, e non solo, insieme a migliaia di tibetani di ogni classe sociale
ed età a seguito dell’ occupazione politica e miliare da parte della Cina,
avvenuta progressivamente in un periodo compreso tra il 1950 e il 1959, dopo un
primo periodo di anonimato divenne un personaggio noto a livello mondiale,
soprattutto a partire dal 1967, anno in cui intraprese una serie di viaggi che nei
decenni successivi lo avrebbero portato in oltre quarantasei nazioni.
Profondamente stimato per la rivendicazione del diritto dei tibetani alla libertà
e all’ autonomia con soli mezzi pacifici nonché per la ferma critica al regime di
Pechino, definendolo nocivo innanzitutto per lo stesso popolo cinese, contro
cui non ha mai mai aizzato l’ opinione pubblica, nel 1989 ricevette il Premio
Nobel per la Pace, che, come il Presidente del Comitato affermò, volle essere anche
un tributo alla memoria del Mahatma Gandhi, grande personaggio di cui lo stesso
Dalai Lama è ammiratore, nominato senza successo per ben cinque volte tra il
1937 e il 1948. Attualmente considerato una delle personalità più influenti del
mondo, il celebre maestro buddhista viene definito in modi diversi da gente
diversa, come lui stesso afferma nell’ introduzione alla propria autobiografia,
«La libertà nell’ esilio»: per i tibetani è il quattordicesimo e divino re del
Tibet; per i buddhisti di scuola tibetana è la reincarnazione di Avalokiteśvara,
il Bodhisattva della Compassione; per i cinesi è un monarca feudale dal quale hanno
liberato il Tibet, antica regione occidentale della Cina; per l’ Occidente è
invece il Premio Nobel per la Pace. Lui, invece, ama definire sé stesso un semplice
essere umano, incidentalmente tibetano, che ha voluto essere un monaco buddhista.
Personaggio camaleontico, egli è ormai universalmente riconosciuto come la personificazione
del cammino pacifico verso due liberazioni: quella spirituale, indicata duemilacinquecento
anni fa dal Buddha Śākyamuni, e quella politica del Tibet, venuta meno negli
Anni Cinquanta. Dal 1959 in poi, il XIV Dalai Lama, che a differenza dei suoi
predecessori ha vissuto ed esercitato la propria autorità quasi completamente in
esilio, vedendo sfumare per sempre durante il proprio regno l’ indipendenza del
Tibet, oggi adibito a regione cinese, è divenuto il simbolo vivente della saggezza,
della moralità e della disciplina mentale insegnate dal Buddha, nonché del Madhyamāpratipad, ossia «Via di Mezzo»
in sanscrito, termine indicante la retta condotta di vita che evita gli eccessi
e gli assolutismi, quanto il lassismo e l’ individualismo, e soprattutto dell’ ahiṃsā, l’ ideale nonviolento basato su
di una serie di concetti morali quali compassione, amicizia e gentilezza, che
uniformano e ispirano non solo la pratica spirituale ma anche la convivenza
civile.
Il Dalai Lama con i membri del suo governo nel 2016; |
Occorre
tuttavia precisare che esistono determinati aspetti poco considerati e quindi
discussi dell’ istituzione del Dalai Lama, come quelli relativi alla sua autorità
politica, analoghi a quelli del papa della Chiesa cattolica, il quale nei
secoli divenne sovrano assoluto dello Stato Pontificio, una figura di notevole
influenza e prestigio sulla scena dell’ Europa sia medievale che moderna: nella
sfera più strettamente temporale della carica di cui è insignito, l’ attuale
Dalai Lama ha personalmente preso decisioni oppure appoggiato quelle del proprio
governo, il Kashag, pur nella consapevolezza che alcune di esse fossero in un
certo modo distanti dai valori spirituali fermamente in vigore in Tibet e di
cui lui stesso è depositario, dando origine a svariati paradossi tipici di
tutti i sistemi teocratici avvicendatisi nella storia del mondo,
indipendentemente dalla religione da cui sono stati generati.
Per
quanto il Dalai Lama sia una persona intelligente e lungimirante, sinceramente
impegnato a beneficio del proprio popolo e assolutamente meritevole di
rispetto, occorre analizzare la sua figura nel quadro più ampio possibile, in
tutte le sue sfaccettature, onde evitare di cadere nella trappola dei giudizi
soggetti alle convenzioni del momento, spesso e volentieri caldeggiati da mezzi
di comunicazione di parte, alcuni a lui favorevoli, dai quali emerge l’ immagine
forte di un santo illuminato, semplice e benevolo, ai limiti di un candore perduto,
e altri ben più ostili, secondo cui sarebbe un astuto manipolatore di masse mirante
al potere, mosso da un movente avido ed egoistico.
Il Potala di Lhasa, residenza tradizionale del Dalai Lama; |
Il
Buddhismo tibetano è caratterizzato da quattro scuole nettamente distinte tra
loro, dotate ciascuna di propri testi e metodi di meditazione e sorte in
periodi differenti della diffusione della religione del Buddha nel Regno delle
Montagne. Intorno al VII secolo, il re Songtsen Gampo, della dinastia di
Yarlung, unificò tutti i territori dell’ altopiano himalayano e fondò l’ Impero
tibetano, favorendo per primo la diffusione del Buddhismo dall’ India,
introducendo la scrittura, trasferendo la capitale a Lhasa e facendo costruire
il Jokhang, il primo tempio buddhista sul suolo tibetano, sebbene buona parte
dell’ aristocrazia e della popolazione restassero fedeli al Bön, la religione tradizionale
locale. Un secolo dopo, con l’ ascesa al trono di Trhisong Detsen, devoto buddhista,
la resistenza al Buddhismo si accentuò forse per il l’ approccio troppo filosofico
ed elitario, e non volendo creare contrasti insanabili con il popolo invitò il rispettato
Padmasambhava, un grande maestro proveniente dal Kashmir, che fece fiorire in
Tibet il Buddhismo tantrico, basato su numerose e complesse dottrine mistiche trasmesse
in via diretta e segreta da maestro a discepolo. Venne fondata la scuola Nyingma,
alla cui tradizione dedicato il Monastero di Samye. Nell’ 836, il re Ralpacan,
a sua volta protettore del Buddhismo e firmatario di un trattato di pace con la
Cina, che segnava i confini storici fra i due regni, venne assassinato dal
fratello Langdarma, sobillato dalla nobiltà Bön ancora molto influente, che una
volta salito al trono compì persecuzioni contro il Buddhismo, allontanando
tutti i monaci da Lhasa. Più tardi, nell’ 842, con l’ assassinio dello stesso
Langdarma ad opera di un lama travestito, l’ Impero si divise in tanti piccoli
regni perennemente in lotta tra loro dando inizio ad un periodo buio per il
Tibet, con Lhasa che perse il suo ruolo di capitale politica e spirituale.
Poco
dopo il Mille, su invito del sovrano di Ngari, il grande maestro indiano Atiśa
giunse in Tibet con una serie di maestri e monaci che diffusero di nuovo il Buddhismo
sull’ altopiano, dando inizio ad una rinascita spirituale che si diffuse in molte
sue aree, stimolando un fermento nel campo delle arti, specialmente nella
letteratura con la traduzione e lo sviluppo dei concetti espressi nei testi
sacri del Buddhismo indiano. Ad Atiśa viene attribuita la fondazione della
scuola Kadam, destinata ad acquisire una grande importanza nei secoli avvenire.
Un centinaio di anni dopo, per opera di Drogmi e Tilopa, nacquero due altre
scuole, ossia la Sakya e la dei Kagyu, i cui insegnamenti e lignaggi diedero
inizio ad una nuova trasmissione, destinata a giocare un ruolo importante nella
vita politica tibetana, contribuendo a stabilire un legame indissolubile tra il
potere religioso e quello politico in Tibet. Nel Trecento, invece, il rispettato
e autorevole lama tibetano Tzong Khapa riformò la scuola Kadam, a cui
apparteneva, tramutandola nella scuola Gelug.
Il Dalai Lama e Mao Tse-tung durante la visita in Cina; |
Durante
il Seicento, con il Bön ormai in netta minoranza, i monaci buddhisti vantavano
ormai un immenso potere politico, sociale e culturale in Tibet, soprattutto per
mezzo di due fenomeni divenuti tipici del Buddhismo tibetano: la dottrina del
tulku e la diffusione del Buddhismo tra i khan mongoli. Il tulku, ossia il lama
reincarnato, è forse l’ aspetto più noto e suggestivo del Buddhismo tibetano.
Se per i praticanti comuni la reincarnazione è un’ esperienza sgradevole,
rischiosa e imprevedibile a cui si cerca di sfuggire con l’ illuminazione
spirituale della Bodhi, a cui segue la cessazione finale del soffio
rappresentata dal Nirvana, per un lama è invece un avvenimento volontario
dettato da motivi altruistici: pur essendosi illuminato pienamente, maturando
le condizioni adatte a dissolversi nella luce finale, sceglie di rinascere per
continuare a insegnare la dottrina del Buddha e guidare tutti gli altri esseri
al di fuori della sofferenza. La pratica di identificare in un bambino la reincarnazione
di un lama defunto si impose in Tibet nel Trecento, e nei
secoli successivi si contarono oltre mille lignaggi di lama reincarnati, quasi
tutti uomini, con pochissime donne, in quanto per tradizione si ritiene che la buddhità
sia possibile in forma maschile.
Durante
il Seicento, epoca di espansione da parte degli imperi mongolo e cinese, i
monasteri tibetani erano ormai talmente importanti da rappresentare una notevole
risorsa diplomatica. I conflitti interni fra i vari regni e le scuole di
pensiero ad essi associate fecero ritornare il Tibet nella sfera d’ influenza
dell’ Impero mongolo, che già nel Duecento ne aveva fatto un protettorato. Altan
Khan, potente governatore mongolo discendente di Kublai Khan, invitò il famoso lama
Sönam Gyatso, di scuola Gelug, che al suo arrivo nel campo chiamò Dalai Lama, che in mongolo significa «Oceano
di Saggezza». Il maestro adottò ufficialmente tale titolo, ed essendo riconosciuto
come la reincarnazione di due famosi insegnanti lo attribuì anche ad essi, passando
alla storia come il III Dalai Lama. Tra i Gelug tibetani e i guerrieri mongoli ebbe
inizio un intenso legame spirituale che da una parte fornì appoggio materiale
ai monaci di tale scuola in Tibet, la quale divenne gradualmente la più
potente, e dall’ altra favorì la diffusione del Buddhismo in Mongolia.
Nel
1640, in un periodo di forti lotte con i Kagyu, insediatisi a Shigatse, nello
Tsang, la parte occidentale della valle dello Yarlung, portarono ad un nuovo
frazionamento del Tibet, permettendo ai Gelug di prendere il controllo di
Lhasa. Nel 1642, il V Dalai Lama, abate del Monastero
di Drepung a Lhasa riconosciuto come la reincarnazione dei suoi quattro
predecessori, si appellò agli alleati mongoli, che intervennero distruggendo l’
esercito dello Tsang e consegnandogli di fatto un Paese nuovamente unito: il
Dalai Lama assunse quindi i pieni poteri politici, divenendo un sovrano vero e
proprio, promuovendo l’ idea che vedeva lui e le sue precedenti incarnazioni
come reincarnazioni dei primi tre sovrani del Tibet che sostennero la
diffusione del Buddhismo, nonché la manifestazione terrena di Avalokiteśvara,
il Buddha della Compassione, ora indicato come leggendario progenitore del
popolo tibetano e protettore del Tibet. La nuova aura di sacralità e inviolabilità
che avvolse il «Grande Quinto», come il Dalai Lama venne soprannominato, si consolidò
con l’ avvio nel 1645 della costruzione del Potala, l’ immenso palazzo adibito
a reggia, monastero e quartier generale del governo, eretto sul monte omonimo di
Lhasa, già al centro delle leggende buddhiste locali il cui nome deriva dal
palazzo di Avalokiteśvara, e destinato a divenire il simbolo eloquente della
nascente teocrazia. Statista capace e solida guida religiosa, il V Dalai Lama
fece del Tibet una nazione religiosa e dimostrò grandi abilità nel mantenere
intense e proficue relazioni con i mongoli, destreggiandosi efficacemente tra loro
e i cinesi, salvaguardando l’ indipendenza nazionale. Il suo regno garantì un’
era di pace, benessere e stabilità. Nel 1652 si recò alla corte dell’ imperatore
cinese Shunqi, vivendo tuttavia una situazione equivoca destinata a durare a
lungo nel tempo, in quanto i cinesi lo consideravano un proprio vassallo, al
pari dei mongoli, mentre lui intendeva essere il sovrano di un regno
indipendente.
Il
Dalai Lama divenne presto il centro della vita sia politica, svolgendo le
funzioni tipiche di un sovrano e di un capo di governo, che religiosa, pur non
essendo la massima autorità di nessuna delle quattro scuole buddhiste tibetane,
nemmeno quella dei Gelug, che riconoscono tuttora come propria guida il Ganden Tripa, «Detentore del Trono di
Ganden» in tibetano, un lama scelto tramite elezione tra gli abati dei loro più
autorevoli monasteri. In entrambi i casi, agiva e prendeva decisioni tenendo
conto di premonizioni, oracoli e segni divini. Volendo consolidare la propria autorità,
pur promuovendo con vigore e convinzione la scuola Gelug a cui apparteneva,
favorendone la posizione con diritti e privilegi che nessun’ altra scuola
ottenne mai, si aprì convenientemente alle altre tre scuole buddhiste,
soprattutto la Nyingma, accettando di ricevere iniziazioni e insegnamenti,
trasmettendone poi a sua volta: la popolazione di tutto il Tibet,
indipendentemente dall’ orientamento dottrinario, prese gradualmente a vederlo
come il supremo protettore spirituale. Tuttavia, all’ ala più conservatrice dei
Gelug l’ impegno politico e tale apertura alle altre dottrine non piacquero
affatto, ragion per cui diede vita ad una resistenza a cui prese parte Tulku
Dragpa Gyaltsen, coreggente del Monastero di Drepung insieme al Dalai Lama,
convinto a sua volta che le faccende terrene e le aperture dottrinali avrebbero
inevitabilmente contaminato la pura dottrina di lama Tzong Khapa.
Il Dalai Lama e Nehru a Mussoorie; |
Con
la morte del V Dalai Lama, avvenuta nel 1682 e tenuta segreta per i successivi
quindici anni per sua espressa volontà affinché il Reggente, che ricorse ad un
monaco che somigliava molto al lama-sovrano, potesse consolidarne l’ operato
politico e portare a termine i grandiosi lavori di costruzione del Potala, terminato
nel 1693, l’ istituzione del Dalai Lama si indebolì, dapprima a causa della
condotta libertina e ribelle del suo immediato successore, il famoso VI Dalai
Lama che rinunciò ai voti monastici per dedicarsi alla poesia e alle donne, pur
senza perdere mai la devozione del suo popolo, convinto che le strade scelte da
un Buddha vivente non sempre fossero comprensibili alle persone comuni. Con la
morte del VII Dalai Lama, che non partecipò mai alla gestione degli affari
politici, lasciando la piena gestione del potere temporale ad un Reggente
laico, investito del potere dai cinesi, la figura dei Dalai Lama entrò
definitivamente in declino, in quanto le successive incarnazioni, dall’ ottava
alla dodicesima, morirono in giovane età e in circostanze sospette, dopo essere
vissuti manovrati dai Reggenti, molti dei quali filocinesi, che li relegavano
in una condizione puramente simbolica, e che forse li uccisero. Solo il XIII
Dalai Lama, nato nel 1876, poté vivere abbastanza a lungo, morendo all’ età di
cinquantasette anni, denotando forza di carattere e autonomia di pensiero intraprendendo
una politica di modernizzazione e riforma atta a fare del Tibet una nazione più
odierna, munita di agi e servizi resi possibili dalle innovazioni dell’ Occidente,
soprattutto l’ elettricità, il telefono e l’ automobile, e politicamente più
efficace, riducendo il vastissimo potere dei monaci-funzionari in favore della nobiltà
pur mantenendo il Paese in un contesto teocratico, e alleggerendo lo strapotere
che i governanti vantavano sulla popolazione senza però introdurre un sistema
propriamente democratico, per il semplice motivo che il «Grande Tredicesimo» non
conosceva il concetto di democrazia. Buona parte delle sue iniziative vennero contrastate
o addirittura ignorate dalla maggioranza dei suoi dignitari sia politici che
religiosi, desiderosi di conservare l’ autorità e i privilegi che il sistema
tradizionale concedeva loro, facendo rimanere il Tibet una nazione feudale, in
cui nonostante i dettami di saggezza e compassione insegnati dal Buddha Śākyamuni
erano in vigore una rigida divisione tra classi sociali, la servitù della gleba
e la schiavitù, nonché le punizioni corporali, soprattutto fustigazione e mutilazioni,
che in mancanza ufficiale della pena di morte risultavano spesso letali. In questo
particolare sistema non solo i nobili, ma anche i lama spesso godevano di immense
ricchezze, comportandosi spesso da padroni arbitrari e ingiusti, beneficiando
coscientemente delle prerogative che la propria posizione comportava, mantenendo
le distanze con il popolo e ignorando i più bisognosi, salendo la gerarchia
grazie ad amicizie e scambi di favori più che per meriti personali. Perfino
molte reincarnazioni venivano scelte all’ interno di determinate famiglie
privilegiate, che avevano influenti legami o che beneficiavano generosamente i
monasteri, traendo ulteriore prestigio per aver dato i natali ad un nuovo lama.
Alla corte di diversi Dalai Lama trovarono spazio moltissimi impiegati corrotti
e monaci infidi, intenti a favorire i propri interessi personali a scapito
delle reali necessità della gente, e di cui spesso gli stessi Dalai Lama subivano
l’ influenza. Vari lama furono individui ambiziosi e avidi coinvolti in
faccende mondane e spesso poco limpide, che imponevano il proprio volere
ricorrendo ai Dob Dob, i celebri monaci soldato armati di manganelli e fruste che
componevano la polizia religiosa del Tibet, ricordati come persone brutali e
arroganti, fortemente rissose e temute per l’ atteggiamento provocatorio e
perennemente assetato di zuffe, che tuttavia non vennero mai condannati dal
popolo, da cui anzi erano stimati per gli aiuti ai bisognosi.
Il Dalai Lama in atteggiamento suggestivamente affabile; |
Il
XIV e attuale Dalai Lama, Jetsun Jampel Ngagwang Losang Yeshe Tenzin Gyatso, ovvero
«Sacro Signore, Gloria gentile, Eloquente, Compassionevole, Difensore della
fede», nato nel 1935 e riconosciuto come reincarnazione del Grande Tredicesimo
ad appena due anni, si ritrovò a capo del Tibet nel periodo più tragico e
penoso della sua storia. Mentre veniva condotto a Lhasa nel 1939, ove venne
consacrato come monaco novizio e insediato come nuovo Dalai Lama, avviando un
anno dopo l’ educazione religiosa tra le mura del Potala, in completo
isolamento dal resto del mondo esterno, avendo contatti solo con i precettori,
gli abati dei più grandi monasteri della capitale e la servitù, la vicina Cina
precipitava nei conflitti interni tra i nazionalisti del partito del Kuomintang
e i militanti del Partito Comunista Cinese, mentre sulla scena internazionale
era alle prese con i giapponesi, che nel nordest avevano montato uno Stato
fantoccio, il Manciukuò. Nel 1949, Mao Tse-tung e i comunisti presero il potere
su tutta la Cina, proclamando la nascita della Repubblica Popolare Cinese: appena
un anno dopo il governo di Pechino decretò l’ occupazione del Tibet, sostenendo
ufficialmente che per secoli era stato una regione occidentale della Cina finché
gli imperialisti angloamericani lo avevano sottratto a tradimento insediandovi
un oppressivo regime feudale con a capo il Dalai Lama.
Tra
il 1950 e il 1959, l’ Esercito Popolare di Liberazione occupò gradualmente il Regno
delle Montagne, trasformandolo in una regione della Cina, favorendo in seguito abbondanti
migrazioni di cittadini cinesi. L’ esercito tibetano era composto da settemila
soldati, tra tibetani e volontari nepalesi e bhutanesi, primitivamente armati
ed equipaggiati, che prevedibilmente non seppero contenere un’ armata di circa quarantacinquemila
soldati che compirono ripetutamente violenze e abusi contro la popolazione, spogliando
aristocratici, religiosi e gente più modesta delle loro proprietà per ridistribuirle
alla collettività secondo i principi comunisti, eseguendo arresti e uccisioni
contro chiunque protestasse o semplicemente manifestasse il proprio dissenso
contro l’ invasione e il drastico cambio di sistema, giustificato dalla
propaganda come una «riunificazione pacifica alla madrepatria», piuttosto che
come una «liberazione da un regime oppressivo fomentato dagli imperialisti
stranieri». Contrariamente a quanto si pensa, buona parte del pacifico ma
orgoglioso popolo tibetano non accettò passivamente l’ occupazione straniera,
ma vi rispose imbracciando le armi in quanto non si sentiva per nulla parte
della Cina. Per oltre vent’ anni, sul Tetto del Mondo si combatté una
sanguinosa resistenza che rese difficile a Pechino l’ occupazione. I partigiani
tibetani si organizzarono in piccoli gruppi, soprattutto nelle campagne e nelle
zone montane, effettuando con alterne fortune vari attacchi contro i presidi
cinesi più isolati. Nel 1950, appena quindicenne, il XIV Dalai Lama venne
sospinto ad assumere i pieni poteri politici sollevando il Reggente dall’
incarico, contrariamente alla consuetudine rispettata dai predecessori, che
avevano assunto il potere una volta maggiorenni. Il nuovo lama-sovrano e il suo
governo rivolsero appelli ai governi dell’ India, del Nepal, degli Stati Uniti,
della Gran Bretagna e della Cina, nonché all’ Organizzazione delle Nazioni
Unite: l’ India, appena divenuta indipendente dall’ Impero britannico e retta
dal Primo ministro Jawaharlal Nehru, erede del Mahatma Gandhi, rispose di non potersi
schierare per ragioni diplomatiche contro la Cina, con cui aveva già rapporti delicati;
il Nepal fece altrettanto, come la Gran Bretagna; le Nazioni Unite non prestarono
particolare attenzione alla situazione in Tibet, in quanto il mondo temeva una guerra
atomica con Unione Sovietica e Corea come epicentro, e il solo Stato membro a
lanciare un appello fu El Salvador.
Il
solo aiuto venne dagli Stati Uniti, che dopo aver formalmente dichiarato la propria
neutralità nel timore di aggravare i rapporti con l’ Unione Sovietica,
incaricarono la Central Intelligence Agency, meglio nota come CIA, di andare in
aiuto del Tibet contro la Cina comunista.
Il Dalai Lama, seduto al centro, tra i partigiani tibetani; |
Riverito
come sovrano divino, in una posizione analoga a quella dei faraoni nell’ antico
Egitto, il giovane e ancora inesperto Dalai Lama era costantemente affiancato e
consigliato dai membri del Kashag e da un alto consiglio di nobili e abati
anziani, i quali lo informavano costantemente sulla situazione e rispettavano la
sua indole risoluta, nonché la sua curiosità e intelligenza, e che in quei
giorni lo informarono del piano di aiuti previsto da Washington: ossia il
finanziamento, l’ addestramento alla guerriglia e l’ equipaggiamento occulti
della ribellione tibetana contro la Cina. All’ indomani della Seconda Guerra Mondiale,
infatti, di fronte alle minacce ai loro alleati democratici e senza alcun
meccanismo per incanalare l’ assistenza politica, i governanti statunitensi
ricorrevano a mezzi segreti, mandando nascostamente consiglieri, attrezzature e
fondi per sostenere la lotta al comunismo, anche a soggetti quali giornali e
partiti sotto assedio. Tali passaggi avvenivano soprattutto attraverso il
National Endowment for Democracy e altri canali più sicuri e meno visibili
rispetto alla CIA.
I
primi contatti tra il governo tibetano e gli agenti della CIA ebbero luogo nel
1951, a un anno dalle prime aggressioni cinesi, attraverso l’ ambasciata statunitense
a Nuova Delhi e il consolato a Calcutta: il Pentagono assicurò al Dalai Lama in
persona armi leggere e aiuti finanziari al movimento di resistenza. Nell’ estate
1956, fu lanciata l’ operazione «ST Circus», che in codice stava per «Circo
Tibet», atta ad assicurare l’ autonomia del Tibet e a impedire la nascita di
simpatie per il comunismo tra la popolazione. I servizi segreti statunitensi si
impegnarono a rifornire i tibetani di tonnellate di armi e costanti cifre di
denaro, versando annualmente centottantamila dollari come aiuti finanziari al
Dalai Lama, i cui due fratelli maggiori, Thubten Jigme Norbu, riconosciuto come
XXIV Taktser Rinpoche, e Gyalo Thondup, erano in contatto diretto con la CIA:
il primo raccoglieva fondi e dirigeva la propaganda, l’ altro organizzava la
resistenza materiale e faceva da interprete tra gli agenti segreti e i
guerriglieri tibetani. Gli istruttori dell’ agenzia statunitense prelevarono per
anni i partigiani tibetani e li mandarono in un campo situato dapprima sulle
isole dei mari meridionali, e in seguito in uno sulle Montagne Rocciose del
Colorado, in una zona a tremila metri di altezza e coperta di neve, molto
simile alla loro patria, ove li addestrarono alla guerriglia e all’ uso delle
armi moderne da usare contro il nemico comune, trasformando quei miliziani
appartenenti ad un esercito preistorico e disorganizzato ad affrontare la
guerra moderna sparando, minando, usando la radio e costruendo bombe.
Quando
nel 1957 i primi battaglioni furono pronti, un bombardiere B-17 senza segni di
riconoscimento, guidato da un pilota polacco e con un tecnico ceco lanciò con
il paracadute i combattenti sul Tibet: si trattava in tutto di
ottantacinquemila combattenti fanatici che portavano al collo un amuleto con l’
immagine del Dalai Lama e una capsula di cianuro con cui suicidarsi nel caso in
cui fossero stati catturati dai cinesi. Una volta stabilito un contatto con le
altre formazioni partigiane, concordarono una strategia comune, e insieme
riportarono le prime grandi vittorie. Se i soldati cinesi si rendevano
colpevoli di atti eccessivi e brutali, i guerriglieri tibetani non furono certamente
da meno, come confermato da un veterano: «Uccidevamo volentieri quanti più
cinesi possibile, e a differenza di quando macellavamo bestie per cibarci, non
ci veniva di dire preghiere per la loro morte.». Soddisfatta dai primi
successi, la CIA decise di continuare ad addestrare la guerriglia e a sostenerla,
rivolgendo la propria attenzione anche ai gruppi ribelli cinesi di religione musulmana,
oltre il confine.
Ma
la situazione tibetana prese presto a degenerare. La ribellione e la guerriglia
si facevano sempre più intense, e Mao Tse-tung decise di ripulire il Paese dagli
ultimi retaggi della cultura tradizionale e della religione buddhista, anche a
costo di imprigionare il Dalai Lama, al quale era stato concesso di continuare a
esercitare il proprio ruolo di guida spirituale, sebbene questo fosse stato relegato
a funzioni più onorifiche e simboliche che sostanziali. I soprusi e le violenze
nei confronti della popolazione nel contesto dell’ imposizione del modello maoista
sulla società tibetana aumentò vertiginosamente, tanto che il 10 marzo 1959, il
movimento di resistenza tibetano scatenò una grande sollevazione a Lhasa, che
fu duramente repressa dall’ Esercito Popolare di Liberazione, in un massacro
che mieté centinaia di vittime, tra uomini, donne e bambini, sia nelle strade
della capitale che in altri luoghi. Il successivo 17 marzo una squadra partigiana,
penetrata nottetempo a Lhasa, riuscì a far fuggire il Dalai Lama e un gruppo di
suoi alti dignitari verso il sud del Paese, controllato in buona parte dal
movimento di resistenza. Due settimane dopo, scortato da una pattuglia di
guerriglieri addestrati dalla CIA, con cui erano in costante collegamento
radio, il giovane lama-sovrano arrivò in India, ove venne accolto dal governo
come rifugiato politico. Venuti a sapere della fuga, i cinesi si vendicarono sulla
popolazione civile: nella sola Lhasa massacrarono almeno tremilacinquecento persone,
arrestandone molte altre.
L’
appoggio diretto della CIA proseguì fino al 1965, nonostante le difficoltà iniziali
legate al fatto che un aereo spia statunitense U-2 fosse stato abbattuto in
spazio aereo sovietico il 1 maggio 1960, inducendo Washington a sospendere
momentaneamente qualsiasi operazione di appoggio ai guerriglieri anticomunisti,
mentre in Tibet l’ esercito cinese aveva individuato tramite alcune spie determinate
basi partigiane, ammassando lungo i confini numerosi reparti che tennero imboscate
e respinsero con relativa facilità le forze ribelli che, volendo penetrare dal
Nepal, si ritrovarono ad affrontare mesi terribili di abbandono, isolamento e
fame.
Frattanto,
Nuova Delhi e Katmandu espressero in maniera sempre più forte la propria ostilità
nei confronti della guerriglia, mentre la CIA subiva pesanti attacchi dagli
oppositori in patria, e svariati uomini d’ affari si dimostravano interessati a
riaprire rapporti economici con i cinesi. L’ ambasciatore statunitense un
India, John Kenneth Galbraith, arrivò addirittura a definire le operazioni a
supporto dei patrioti tibetani «un’ insana impresa». Messi alle strette, i
servizi segreti posero fine al proprio piano, effettuando nel maggio 1965 l’ ultima
operazione di aviolancio di armi e rifornimenti ai partigiani del Tibet
meridionale, ridotti allo stremo e praticamente circondati dalle superiori
forze cinesi.
Il
Dalai Lama implicato nella lotta armata contro la Cina rappresenta di fatto una
grossa sorpresa, un argomento che solo di recente è stato dibattuto con toni
sommessi, generando un clima di sdegno incoraggiato prevalentemente dai suoi
oppositori, non soltanto cinesi. E’ assolutamente comprensibile che come
sovrano e patriota abbia accettato l’ aiuto della CIA per difendere il proprio
Paese dall’ aggressione straniera, peraltro colpevole di svariati soprusi e
violenze, ma l’ errore compiuto da lui e dagli ambienti che lo circondano è
stato senz’ altro l’ omissione di questo importante dettaglio al pubblico. Solo
in anni recenti, a seguito di continue indiscrezioni e precise domande in
proposito, il Dalai Lama ha riconosciuto l’ aiuto ricevuto dalla resistenza,
senza tuttavia ammettere il proprio personale coinvolgimento: anzi, ha
addirittura risposto con una nota piccata che gli Stati Uniti erano intervenuti,
per altro di nascosto, soltanto per usare strategicamente il Tibet contro la
Cina, allora nemico di entrambi.
Per
un monaco buddhista, la violenza rappresenta certamente un male da evitare, è
contraria ai suoi voti di nonviolenza, ma il Dalai Lama ha spesso affermato che
diventa accettabile soltanto come ultima risorsa, quando tutte le altre soluzioni
hanno fallito, e se viene usata nell’ interesse del maggior numero possibile di
persone da una grave minaccia. Talvolta le esigenze strategiche del sovrano urtano
con quelle morali del monaco, senz’ altro, ma di fatto la censura di buona
parte delle informazioni relative al supporto della CIA alla rivolta tibetana con
la previa approvazione del governo capeggiato dal Dalai Lama rappresenta un’
abile scelta pubblicitaria, il primo atto di un’ operazione atta a costruire un
personaggio legato indissolubilmente a specifici valori morali in modo tale da riscuotere
consenso in tutto il mondo. Omettendo su determinati dettagli, peraltro senza necessariamente
mentire, si è potuto presentare in scena una guida spirituale candida e senza
macchia, eppure, come è risaputo, prima o poi le notizie finiscono per emergere,
ponendo seri dubbi di credibilità.
Occorre
tuttavia tener conto che il Dalai Lama e il suo governo ricevettero aiuti non
soltanto sul fronte interno, ma anche sul piano internazionale. Dopo essersi
stabilito in India, dapprima a Mussoorie e poi a Dharamsala, ricevendo un
grande supporto da parte del governo di Nehru, il Dalai Lama continuò a
ricevere aiuti da parte degli Stati Uniti, che intendevano fare di lui un
simbolo della lotta contro il comunismo: tra il 1959 e il 1972, oltre ai
centottantamila dollari ricevuti personalmente dalla CIA, cosa che ha negato
fino al 1980, ha ricevuto un milione e settecentomila dollari annui per l’
attuazione della propria rete internazionale, tramite la dotazione del NED,
organizzazione non governativa statunitense il cui bilancio è nutrito dal
Congresso.
A
partire dal 1967 intraprese una serie di viaggi in giro per il mondo, quando si
recò per la prima volta in Giappone e Thailandia, cogliendo l’ occasione per porsi
in evidenza, mentre nel 1973 compì il suo primo itinerario in Europa, tra
Italia, Svizzera, Olanda, Belgio, Irlanda, Norvegia, Svezia, Danimarca, Gran
Bretagna, Germania Ovest e Austria, incontrando per la prima volta l’ Occidente,
in cui da qualche tempo si stavano aprendo molti centri di Buddhismo tibetano,
legati a tutte e quattro le scuole, soprattutto la Gelug, che ancora una volta confermò
la propria supremazia, da vari discepoli di lama che avevano avuto un certo
seguito tra gli occidentali, soprattutto gli hippie, che dopo un periodo trascorso
in India o nei Paesi circostanti ove il Buddhismo tibetano si era imposto nei secoli
erano tornati in patria conservando un certo legame con i vecchi maestri, che
dietro loro invito si trasferirono gradualmente nel Vecchio Continente, oltre
che negli Stati Uniti e in Oceania: sebbene nessun governo occidentale riconosca
più il Dalai Lama come autorità politica, intrattenendo per contro legami diplomatici
e commerciali sempre più importanti con la Cina, che aumentava la propria
importanza sulla scena internazionale, la diffusione del Buddhismo tibetano in
Occidente, la creazione di istituzioni religiose e umanitarie di supporto alla
causa del Tibet, nonché le visite del Dalai Lama nei vari centri contribuirono
moltissimo a combattere la dittatura cinese e il comunismo in generale. Il
Dalai Lama in particolare scelse coscientemente di assumere l’ immagine di un
personaggio costantemente affabile e socievole, sorridente e spiritoso, sempre
aperto alla modernità e alle altre tradizioni religiose, culturali e
scientifiche nonché a coniugare le antiche tradizioni del suo popolo con l’
innovazione del mondo moderno, guadagnandosi generali consensi.
Gli
aiuti statunitensi alla causa tibetana e del Dalai Lama cessarono d’ un tratto
nel 1972, con la storica visita in Cina del Presidente Richard Nixon, preparata
grazie agli incontri segreti di Henry Kissinger effettuati tra il 9 e l’ 11
luglio del 1971, e che portò alla distensione e al miglioramento dei rapporti
tra Stati Uniti e Cina: l’ indipendenza del Tibet venne sacrificata sull’ altare
delle ambizioni politiche, diplomatiche e commerciali delle due potenze, che
isolarono l’ Unione Sovietica. Il Dalai Lama vide sfumare d’ un tratto il
proprio ruolo di simbolo anticomunista tanto caro all’ alleato statunitense, che
lo abbandonò al suo destino, per non parlare dei molti guerriglieri tibetani che,
rimasti sconvolti da questo clamoroso voltafaccia, si spararono in bocca o si
tagliarono la gola o le vene piuttosto che cadere in mano al Guabuo, la Gestapo
cinese, e di coloro che invece sfuggirono in India per arruolarsi nei corpi
speciali indiani, con la benedizione dello stesso Dalai Lama, fotografato
mentre passava in rassegna un loro reparto.
Ma
il ruolo politico del Dalai Lama era tutt’ altro che esaurito, dovendosi concentrare
insieme ai suoi funzionari politici e religiosi sulle costanti e particolari
esigenze delle migliaia di profughi che ogni anno sfidavano le autorità cinesi
e i monti per trovare asilo politico in India, Nepal e Bhutan, sottraendosi ad
un regime sempre più ferreo e brutale, che tra il 1966 e il 1976 sfociò nella
barbara follia della famigerata Grande rivoluzione culturale. Dopo il suo
predecessore, egli era di fatto il primo Dalai Lama a godere di una vita lunga
e ad esercitare attivamente il proprio ruolo politico, ma la sua istituzione
era ancora lontana dal godere di una soluzione adeguata, o della minima saldezza
e stabilità, senza tener conto di ciò che rappresentava la vita in esilio. Dopo
aver istituito un governo in esilio con sede a Dharamsala, nonché una serie di istituzioni
culturali e umanitarie con cui preservare la civiltà e la religione del Tibet
all’ estero, i tibetani avevano più che mai bisogno di una guida dietro a cui schierarsi
andando oltre le vecchie divisioni politiche, sociali e addirittura religiose
che un tempo li avevano divisi con forza e tanto a lungo. Ebbero quindi luogo
alcune importanti aperture e concessioni, che permisero non solo ai Gelug, che
incarnavano tuttora il centro del potere, ma anche alle altre scuole di
emergere per mezzo dei propri più importanti maestri e la diffusione dei
relativi insegnamenti, nonché tramite la diffusione di testi che prima venivano
tenuti segreti. Di fronte a tanta liberalità, i tradizionalisti Gelug risposero
promuovendo il predominio dell’ istituzione dello stesso Dalai Lama, promotore
di una politica non settaria e una certa libertà di pensiero, sugli affari
tibetani e in un certo modo sulle altre scuole. Egli stesso seguì la via già
intrapresa dal Grande Quinto e dal Grande Tredicesimo, aprendosi molto alle
pratiche e agli insegnamenti Nyingma, stringendo poi
legami importanti con i maestri Kagyu e Sakya. A tal proposito si sostiene gli
venne esplicitamente richiesto dalle massime guide di tutte le scuole di
abbandonare il culto di Dorje Shugden, una controversia entità spirituale di
cui il suo precettore più giovane, Trijang Rinpoche, era stato un grande praticante
e diffusore analogamente al proprio insegnante, Pabongka Rinpoche, uno dei più
influenti maestri Gelug di fine Ottocento e inizio Novecento: oggetto di un culto
sorto durante il Seicento, e ritenuto reincarnazione di Tulku Dragpa Gyaltsen,
l’ influente lama reincarnato contemporaneo del V Dalai Lama e morto in circostanze
sospette, forse per malattia oppure assassinato, dopo aver manifestato la
propria opposizione all’ idea che i Gelug si occupassero di politica e
praticassero anche gli insegnamenti delle altre scuole, Dorje Shugden viene
considerato dai praticanti un dharmapāla,
ossia uno spirito illuminato che avrebbe assunto il ruolo di protettore della
scuola Gelug, custode della dottrina più pura ed efficace, intento a favorire
anche a livello temporale tutti quei praticanti dediti alla sola dottrina di Atiśa
e lama Tzong Khapa, senza mai mischiarla con quella delle altre scuole. In
passato, i seguaci più fanatici di questo culto costituirono l’ ala più rigida
dell’ ortodossia Gelug, di cui incarnavano la pratica più rigorosa e chiusa,
meno ligia ai cambiamenti, e furono spesso protagonisti di iniziative settarie sfociate
in azioni persecutorie e violente nei confronti delle altre scuole, soprattutto
la Nyingma, ritenuta erede di determinate dottrine buddhiste cinesi e
addirittura induiste, pericolosamente lontane dall’ ortodossia e quindi pericolose
per il tradizionale ordine delle cose.
Nel
1975 il Dalai Lama, lui stesso praticante da ben venticinque anni, affermò pubblicamente
di aver personalmente interrotto la pratica di tale entità spirituale, ufficialmente
a seguito di frequenti sogni infausti, presto supportati da presagi
inquietanti, premonizioni e profezie che anticipavano gravi sciagure,
definendola uno spirito demoniaco e nocivo, sorto per effetto di preghiere e
invocazioni distorte e capace di distruggere gli insegnamenti buddhisti e di
danneggiare gli esseri senzienti. Aggiunse peraltro che la sua pratica era degenerata
al punto da assumere la connotazione di un vero e proprio culto con marcate
caratteristiche settarie, consigliando ai praticanti di interromperla e richiedendo
a coloro che invece volessero continuarla di non partecipare ai suoi
insegnamenti, iniziazioni e conferimenti di voti, non volendo metterebbe in
pericolo sia il maestro che i suoi studenti a causa di una relazione perturbata.
Da
allora, il governo tibetano in esilio ordinò la rimozione delle immagini di
Dorje Shugden dai monasteri e dai templi. Ai monaci e ai funzionari del governo
fu richiesto di sottoscrivere un atto di abiura: da quel momento iniziò una
grave divisione nella comunità tibetana, con i devoti al Dalai Lama e i seguaci
del culto della controversa entità coinvolti in violenti scontri e scambi di
accuse, pestaggi, incendi di case ed emarginazione. La protesta dei lama,
monaci e discepoli Gelug rimasti legati al culto si levò prontamente, e negli
anni culminò con le accuse rivolte al Dalai Lama di sopprimere la libertà
religiosa. Le loro abitazioni vennero conseguentemente perquisite, forse dai
loro avversari religiosi, e alcuni di loro furono assaliti, mentre le immagini
e gli altari di Dorje Shugden subirono atti di distruzione. In risposta, i seguaci
accusarono il Dalai Lama di sopprimere la libertà di religione, e sia all’
interno della Regione Autonoma Cinese che all’ estero si avvicinarono alle autorità
cinesi, ricevendo numerosi sostegni economici e agevolazioni politiche.
Il
4 febbraio 1997, ghesce Lobsang Gyatso,
un rispettato ed eminente lama amico del Dalai Lama e fiero oppositore del
culto di Shugden, direttore dell’ Istituto di Dialettica, venne brutalmente
assassinato insieme ai sue due attendenti tra le mura del suo alloggio, ad
appena poche centinaia di metri dalla residenza del Dalai Lama. Il suo
assassinio scosse profondamente la comunità tibetana in esilio, e inasprì la
controversia riguardante Dorje Shugden. Soprattutto, come sostenuto dalla
polizia indiana e dall’ Interpol, pare che nella vicenda fossero coinvolti
anche agenti segreti infiltrati, con l’ intenzione di seminare discordia tra la
gente vicina al Dalai Lama.
Sebbene
la CIA avesse interrotto dal giorno alla notte il proprio intervento a beneficio
del governo del Dalai Lama in nome di Tibet autonomo e anticomunista, l’
immagine di paladino dei diritti umani impegnato nella lotta nonviolenta contro
un regime oppressivo che il Dalai Lama incarnava piaceva molto al pubblico
occidentale, e i centri buddhisti tibetani che spuntavano uno per uno in giro
per il mondo si rivelarono una preziosa opportunità. Finanziati in parte dal
governo tibetano, a sua volta beneficiario del contributo statunitense e
indiano, nonché dai numerosi discepoli occidentali, essi diffusero ad alto livello
il Buddhismo in una vera e propria opera missionaria, gettando peraltro le basi
di aiuti umanitari e filantropici con cui beneficiare i tibetani sia in Tibet
che in esilio, tra donazioni per gli insediamenti e adozioni a distanza. Di
fatto, la scuola tibetana è oggi la forma più conosciuta di Buddhismo in
Occidente, mentre le altre, come il Buddhismo Theravāda, considerato molto più
vicino all’ insegnamento predicato dal Buddha, avendo più di tutti evitato ogni
innovazione teorica, nonché buona parte delle scuole cinesi, giapponesi e
coreane, ancora oggi sono soggette ad una diffusione piuttosto lenta e
difficile, ben poco reclamizzata.
La
Fondazione per la Preservazione della Tradizione Mahayana, fondata nel 1975 da
lama Yeshe e dal suo discepolo lama Zopa, maestri Gelug che avevano un largo seguito
di discepoli occidentali, è da sempre la principale istituzione impegnata a coordinare
e valorizzare le attività dei centri occidentali, nonché la pubblicazione di
libri a tema e la commercializzazione dell’ artigianato religioso. Il Dalai Lama
sostiene da sempre di essere un semplice monaco e di non aver mai voluto fare
proseliti in alcun modo: «Noi crediamo che, finché qualcuno non ci chiede di spiegare
il Buddismo, non dobbiamo farlo. Io non voglio convertire la gente al Buddhismo,
perché tutte le grandi religioni, se interpretate correttamente, hanno lo
stesso potenziale di bene. Peraltro, ognuna ha i suoi specifici dogmi e
concetti, quindi cambiare fede non è facile, crea difficoltà nella mente. Ho
notato come, dopo aver cambiato fede, arrivi una grande confusione mentale.».
Eppure, non si può negare l’ utilità che la diffusione del Buddhismo tibetano
in Occidente abbia tuttora per la causa tibetana, soprattutto tenendo conto del
gran numero di conversioni e addirittura ordinazioni monastiche tra gli
occidentali. L’ incontro tra il Tibet e l’ Occidente fu come una collisione in volo
fra due gruppi dai contrastanti desideri: il primo era in fuga dal comunismo
cinese, l’ altro dalla crisi dei valori tradizionali, dalla Guerra fredda, dal
militarismo e dal capitalismo. Nessuna delle due parti comprendeva appieno i bisogni
dell’ altra: i tibetani chiedevano aiuto per sopravvivere in esilio in un mondo
alieno ed ostile, mentre gli occidentali speravano che le sublimi intuizioni
del Buddhismo risolvessero le loro crescenti ansie esistenziali. A tale
proposito occorre notare che questa nuova religione è molto amata dall’ ateismo
occidentale e da molti laici: vari centri sono frequentati da fieri oppositori
alla Chiesa cattolica, se non all’ intero Cristianesimo, in cui vedono lotte di
potere e avidità di ricchezza. Negli anni, peraltro, il fenomeno dei lama
reincarnati assunse un notevole valore strategico, essendo un tema di grande fascino
in Occidente, già alla base di una certa produzione letteratura e cinematografica,
come confermato dal celebre film «Il bambino d’ oro», del 1986, con Eddie
Murphy. Alcuni monaci occidentali sono stati addirittura riconosciuti come lama
reincarnati, suggestionando particolarmente l’ immaginario collettivo occidentale,
come avvenuto dal caso emblematico di Tenzin Ösel Hita Torres, meglio noto come
lama Ösel, ossia «Chiara Luce»
in tibetano, uno spagnolo nato nel 1985 i cui genitori erano stati discepoli di
lama Yeshe, del quale ad appena un anno e due mesi venne riconosciuto come la reincarnazione.
Il suo riconoscimento, confermato dagli oracoli più importanti e persino dal
Dalai Lama, che si era personalmente interessato al caso, destò molta
sensazione in Europa. Salutato come un’ opportunità unica nel suo genere per l’
avvicinamento tra Tibet e Occidente, come un’ avanguardia di immenso valore, venne
immediatamente portato all’ importante Monastero di Sera, riedificato in India
dai tibetani, dove venne sottoposto alle antiche e immutate regole monastiche
tibetane, nonché ad una rigidissima educazione accompagnata da forti attenzioni
e pressioni data l’ unicità della sua situazione. Appena diciottenne, il reincarnato
spagnolo abbandonò la vita monastica, per lui sempre più intollerabile, e in
svariate interviste espose ricordi drammatici: «Ho fatto rientro in Spagna
perché sono arrivato al punto di non sentirmi più adatto per una tale vita. Non
potevo trovare me stesso perché per me era una bugia stare là per vivere
qualcosa che era imposto dal di fuori. Mi hanno tolto alla mia famiglia, mi
hanno gettato in un mondo medievale dove ho sofferto come un cane.». La madre
di Ösel, Maria Torres Crespo, che dopo il divorzio aveva intrapreso una lunga
battaglia contro i monaci per riavere il figlio, disse più volte che essi
stavano modellando una specie di mostro: «Non m’ interessa che sia un lama
importante, ha ancora bisogno di sua madre! Lo viziano a dismisura, lo
trasformano in un piccolo tiranno, invece che in un piccolo Buddha. Ero
attratta dal Buddhismo per la sua tolleranza. Ma adesso sto scoprendo che
questi monaci non sono per nulla tolleranti. Il ragazzo deve conoscere il suo
Paese, la sua cultura.». Ösel visse in due mondi distinti, ormai dolorosamente in
collisione, e dopo la rinuncia ai voti intraprese gli studi di cinematografia
con il desiderio di fare il regista e produttore, pur senza recidere del tutto
i legami con il Buddhismo tibetano e il Dalai Lama.
Le
istituzioni religiose di cui fanno parte la Fondazione per la Preservazione
della Tradizione Mahayana, ma non soltanto questa, contribuirono peraltro a diffondere
un’ idea romantica ma poco veritiera del Tibet, spesso descritto come una
nazione povera e arretrata sul piano materiale ma spiritualmente e
culturalmente molto ricca, con una meravigliosa storia alle proprie spalle, abitato
da saggi e profondi lama e da una popolazione felice, altruista e pacifica nonostante
le forti ristrettezze e l’ ostilità dell’ ambiente. Una nazione che non
necessitava forze di polizia perché il suo popolo osservava spontaneamente le
leggi di causa ed effetto espresse nella dottrina del karma. Lo stesso Dalai
Lama ha dato adito a tali immagini idealizzate sul Tibet, mediante affermazioni
come: «La civiltà tibetana ha una ricca e lunga storia. L’ influenza persuasiva
del Buddhismo e le asperità di una vita fra gli ampi spazi aperti di un
ambiente incorrotto, ha avuto come risultato una società dedicata alla pace e
all’ armonia. Provavamo diletto nella libertà e nella contentezza, nell’ essere
paghi.». In realtà, nel Regno delle Montagne avevano luogo corruzione, scambi
di favore, abusi di potere, soprusi, rigide divisioni tra classi sociali e schiavitù.
Solo durante l’ esilio in India il Dalai Lama iniziò a parlare di democrazia,
diritti umani, costituzione e libertà religiosa, concetti rimasti sconosciuti
in Tibet e appresi solo di recente, durante gli scambi con l’ Occidente. La Repubblica
Popolare Cinese è effettivamente un regime totalitario spesso biasimato a
livello internazionale, essendo colpevole di oppressione e violazioni a danno
prima si tutto dello stesso popolo cinese, detentore del più elevato numero di
condanne a morte al mondo, con sentenza certa nel novantacinque percento dei
casi. Oltre al Tibet, ha annesso al proprio territorio anche la Manciuria, la
Mongolia Interna e il Turkestan orientale, ampi territori tramutati in regioni
cinesi sfruttandone ampiamente le risorse strategiche. Tuttavia, neppure il
Tibet fu mai un paradiso terrestre. Il monastero, spesso dotato di una prigione,
era un centro di potere non solo religioso, ma anche politico e finanziario, in
cui talvolta avvenivano abusi sessuali sui novizi da parte dei monaci anziani.
La maggior parte della terra arabile era ancora organizzata attorno a proprietà
religiose o feudali lavorate da servi della gleba, eccessivamente tassati e, mentre
molte donne erano costrette a subire i capricci dei padroni e dei loro figli
maggiori. Lama e monaci, molti dei quali opportunamente coinvolti in faccende
mondane, riuscirono ad accumulare individualmente notevoli ricchezze tramite la
partecipazione attiva negli affari, nel commercio e nell’ usura. Il Tibet era
dotato di un esercito professionale, sebbene di piccole dimensioni, e una
gendarmeria al servizio dei proprietari terrieri, con l’ incarico di mantenere
l’ ordine e catturare i servi della gleba fuggitivi. La legge prevedeva la
tortura e la mutilazione, comprese l’ asportazione di occhi e lingua, l’ azzoppamento
e l’ amputazione di braccia e gambe: erano le punizioni principali inflitte ai
ladri, ai servi fuggiaschi, e ad altri criminali. Dal Seicento fino al Settecento,
le varie scuole erano impegnate in ostilità armate ed esecuzioni sommarie.
I
mezzi di comunicazione occidentali, soprattutto giornali e case editrici, promossero
invece romanzi, saggi e guide turistiche in cui si dipinse il Paese come una
sorta di Shangri-La, retto da santi e beati, mentre Richard Gere parlava del
Dalai Lama definendolo il più grande essere umano vivente.
Quando
i cinesi occuparono il Tibet rivendicandone la propria sovranità, in un primo tempo
attuarono una politica moderata, in una chiara strategia persuasiva atta a
convincere i tibetani dell’ efficacia e utilità del sistema comunista, permettendo
ai vecchi sistemi monastico e feudali di continuare immutati, limitandosi a
perseguire con esemplare durezza e severità coloro che condannavano
pubblicamente come reazionari e sostenitori dell’ imperialismo. In seguito,
pretesero più apertamente il controllo militare e il diritto esclusivo di gestire
le relazioni estere, esigendo che Lhasa promuovesse le riforme sociali. Tra le
prime riforme varate ci fu quella che riduceva i tassi d’ interesse da usuraio
in caso di prestiti, e la costruzione di alcuni ospedali e strade. Mao Tse-tung
desiderava la cooperazione del Dalai Lama nell’ abbandonare il sistema feudale dell’
economia tibetana in favore di quelli socialisti, ma quando le prime terre
vennero espropriate a nobili e monaci per ridistribuirle le ostilità si
aggravarono enormemente.
Tuttavia,
occorre tenere presente che se il Tibet è stato santificato dalla propaganda,
la Cina è stata invece demonizzata: agli aristocratici e ai monaci non infastidiva
il fatto che gli intrusi fossero cinesi, con cui avevano già avuto a che fare
nei secoli, ma comunisti, ossia gente che credeva in un sistema ostile alla
religione, che avrebbe portato ad un sistema collettivista che avrebbe
smantellato definitivamente la teocrazia con i suoi privilegi in nome della
lotta di classe, fomentando i malumori delle classi più basse che ne avevano
lungamente sopportato il peso. Pechino provocò senz’ altro migliaia di vittime
innocenti durante le varie repressioni, oltre che arresti indiscriminati e
persino esemplari, sparizioni, condanne a morte, detenzioni decennali e brutali
nelle quali le torture e i maltrattamenti a danno dei prigionieri erano la
norma, senza contare i thamzing, le famigerate sedute di accusa nelle piazze di
comportamenti controrivoluzionari e ostili alla «madrepatria socialista». Negli
anni favorì peraltro immensi flussi migratori di cittadini da varie regioni
della Cina, favorendo le loro condizioni a scapito della popolazione tibetana. A
Lhasa e nelle principali città la polizia è dappertutto, anche in incognito,
mentre nei monasteri il programma di studi religiosi dei monaci, retti da
funzionari cinesi, è stato impoverito in qualità, con l’ ordine di dedicare
tempo allo studio dell’ ideologia comunista. I crimini e le semplici infrazioni
contro i diritti umani perdurano, tanto che perfino una delegazione dell’ Organizzazione
delle Nazioni Unite si è vista rifiutare dalle autorità cinesi l’ accesso al
carcere dove erano rinchiusi e torturati alcuni lama e monaci. Eppure va
ricordato che lo stesso governo cinese abolì la schiavitù ed il sistema di
servi della gleba, le punizioni corporali e l’ utilizzo di prestazioni non pagate,
per poi creare piani di lavoro, riducendo in gran parte la disoccupazione e la
miseria. Realizzò i primi ospedali e un nuovo sistema educativo, rompendo il
monopolio dei monasteri, costruì i sistemi d’ irrigazione per fini agricoli e portò
l’ energia elettrica a Lhasa.
La
costruzione del mito del Tibet come una sorta di paradiso in terra e del Dalai
Lama come guida unicamente spirituale, non coinvolta in alcun modo nella
politica nonostante la veste di monarca assoluto, e mossa unicamente da elevati
ideali ultraterreni trovò un valido contributo anche nel mondo cinematografico:
molte celebrità di Hollywood, in particolare Richard Gere, Harrison Ford, Barbra
Streisand, Steven Seagal, Goldie Hawn e Meg Ryan, hanno espresso pubblicamente
il loro sostegno, e nel 1997 vennero prodotti due film sul lama-sovrano, ossia «Sette anni in Tibet»,
tratto dal libro autobiografico «Sette anni nel Tibet» dell’ alpinista ed esploratore
austriaco Heinrich Harrer, e «Kundun», ispirato alla prima autobiografia dello stesso
Dalai Lama, «La libertà nell’ esilio».
Entrambi i film presentano
alcune inesattezze, e tendono a mostrare i tibetani completamente buoni e i
cinesi completamente cattivi. In «Sette anni in Tibet», per esempio, i monaci tibetani
vengono mostrati intenti a raccogliere delicatamente i vermi dalla terra
durante la costruzione al Potala del cinema del Dalai Lama, in accordo con il voto
buddhista di non recare danno ad alcun essere vivente, mentre durante la visita
a Lhasa dei delegati cinesi alle controparti tibetane avviene la profanazione
del maṇḍala di sabbia pronunciando la battuta secondo cui la religione è veleno:
se la prima scena suscita ammirazione verso i tibetani, l’ altra provoca sdegno
verso i cinesi, eppure l’ episodio dell’ oltraggio cinese venne rappresentato
solo nel film, il libro infatti non lo cita, analogamente alle numerose storie
scritte sull’ argomento. Appena uscito, il film ricevette pesanti condanne dal
governo della Repubblica Popolare Cinese, secondo cui i militari cinesi vennero
tendenziosamente rappresentati in comportamenti brutali contro la popolazione
locale, mentre i tibetani, al contrario, furono rappresentati unicamente in
modo positivo, con l’ eccezione di Ngawang Jigme, un giovane aristocratico
usato dai cinesi per facilitare la propria presa di potere sul Tibet, e che
storicamente fece una lunga carriera come membro del Partito Comunista Cinese,
impegnandosi nell’ amministrazione del Tibet cinese, venendo definito traditore
dagli indipendentisti della causa tibetana in esilio e troppo moderato dai
cinesi, finendo con il divenire un simbolo della presenza cinese in Tibet, un
mito negativo da contrapporre a quello positivo del Dalai Lama e della sua
resistenza al potere cinese. In conseguenza di ciò, il regista Jean-Jacques Annaud
e gli interpreti principali della pellicola, Brad Pitt e David Thewlis, vennero
banditi per sempre dal territorio cinese.
In «Kundun», analogamente,
molti eventi nel film non sono completamente fedeli agli eventi così come avvennero
storicamente o come descritti nell’ autobiografia del Dalai Lama, omettendo alcuni
personaggi come Heinrich Harrer e, soprattutto, il X Panchen Lama, seconda autorità
religiosa dopo il Dalai Lama e abate del monastero di Tashilhunpo, approvato
come nuova incarnazione sotto la regia dei funzionari e ufficiali cinesi che
già erano stati vicini al precedente Panchen Lama, ma che il XIV Dalai Lama e
il governo tibetano confermarono solo con i negoziati del 1951. Soggetto fin
dall’ inizio all’ influenza della Cina, che ne regolò l’ educazione così da sfruttarne
un giorno l’ autorità per fini politici, il Panchen Lama rimase in Tibet a
differenza del Dalai Lama, e durante la Grande Rivoluzione Culturale cadde in
disgrazia agli occhi dei cinesi, che lo incarcerarono e torturarono per lunghi
anni come nemico dello Stato, avendo chiaramente denunciato la condotta cinese,
morendo infine in circostanze sospette. Analogamente a Ngawang Jigme, divenne una
figura piuttosto malvista dagli indipendentisti tibetani in quanto tibetano
filocinese. Specialmente, il film ignora l’ iniziazione del giovane Dalai
Lama al culto di Dorje Shugden, avvenuta nel 1950, in occasione del trasferimento
della sua corte al Monastero di Dunkhar, al confine con l’ India, ove si
praticava il culto dell’ entità spirituale, con tanto di consultazioni oracolari:
rimasto soddisfatto dai responsi dell’ oracolo connesso a tale figura, il Dalai
Lama decise di elevarlo a secondo oracolo di Stato, insieme a quello
tradizionalmente consultato dal governo, ossia Nechung, connesso a Pehar,
spirito sottomesso secondo la tradizione da Padmasambhava e adottato dal V
Dalai Lama. Peraltro, persino la deposizione del Reggente, Reting Rinpoche, in
favore di Taktra Rinpoche, viene privata di molti dettagli, in quanto l’
oracolo che suggerisce a Reting di ritirarsi per dedicarsi alla preghiera,
facendo penitenza per non aver tenuto fede ad alcuni voti, è proprio quello di
Dorje Shugden, scontento del fatto che praticasse il sesso tantrico e che indulgesse
al piacere degli alcolici, in tono con le dottrine Nyingma. Taktra prende il
suo posto come Reggente, ma non viene detto che storicamente esercitò il potere
in modo dispotico e nepotistico, se non addirittura corrotto, e che anni dopo violò
il patto iniziale con Reting, secondo cui gli avrebbe restituito la carica di Reggente
una volta terminato il ritiro di purificazione. L’ ex Reggente tenta con una
rivolta e un attentato, sostenuti entrambi dai monaci del Monastero di Sera, di
riprendersi la carica, venendo infine arrestato, ma il film ignora il fatto che
tale azione fu storicamente sostenuta dai cinesi, nel desiderio di avere un loro
collaboratore in una posizione tanto importante. In questo film il Dalai Lama
assume il potere a quindici anni, principalmente per l’ incombere della minaccia
cinese, mentre in realtà oltre a questo vi furono molte proteste popolari che accusavano
Taktra Rinpoche di molteplici e reiterati abusi, nonché di estrema rigidità.
In
entrambi i film viene citato molto a malapena il tema dei tibetani filocinesi, collaborazionisti
che hanno trovato vantaggi nella sottomissione a Pechino. Tra le classi più
basse era molto diffuso un sentimento ostile a Lhasa, che criticavano per l’
eccessivo autoritarismo e la pressione tributaria, mentre nel Tibet orientale, la
zona più prossima alla Cina, il fenomeno acquisiva proporzioni assai maggiori,
in quanto il Panchen Lama e i suoi dignitari, che dal 1924 avevano rapporti
difficili con il Dalai Lama e il suo governo per via di una questione di tasse
e privilegi, tanto che il IX Panchen Lama lasciò il Tibet alla volta della
Mongolia interna, ove si avvicinò ai cinesi. Il XIII Dalai Lama vietò ai lama e
ai monaci a lui fedeli di ricoprire qualsiasi incarico al di fuori di Lhasa, ed
essi aderirono ai concetti di «liberazione» cinese. Molti monaci e laici sostenevano
apertamente l’ Esercito Popolare, simpatizzando con la Cina già dai tempi della
Lunga marcia, la gigantesca ritirata militare intrapresa dall’ Armata Rossa
Cinese avvenuta nel 1934 per ritirarsi dagli accerchiamenti da parte delle truppe
del Kuomintang. Insieme alla totale mancanza di sostegno internazionale nella
lotta dell’ indipendenza del Tibet, la presenza di un Tibet filocinese aiuta a
spiegare la moderazione assunta negli ultimi decenni dal Dalai Lama, nonché la
sua rinuncia ad ogni slogan indipendentista in favore dell’ autonomia interna e
i suoi omaggi ripetuti ai benefici terreni assicurati dalla Cina: «Il mio Tibet
è arretrato, siamo un grande paese ricco di risorse naturali ma del tutto
sprovvisto di tecnologie o conoscenze per sfruttarle. Perciò se restiamo dentro
la Cina potremmo ottenere benefici più grandi, a patto che rispetti la nostra
cultura e il nostro ambiente naturale. La nuova ferrovia costruita dai cinesi,
per esempio, è un’ ottima cosa, utile allo sviluppo, purché non la usino
politicamente.». I tibetani filocinesi aiutano a capire il pragmatismo del
Dalai Lama e a tingere una rappresentazione più realistica della situazione,
anche a costo di deludere i sostenitori più romantici della causa tibetana in
Occidente. Per i tibetani filocinesi gli antagonismi con i cinesi etnici non
sono un grosso problema, avendo trovato un accettabile modus vivendi, e la
cultura del Tibet non sarà mai dimenticata neppure da loro. Se si guardano i
giovani ha l’ impressione che stia cambiando tutto, che loro siano diversi:
quello che mangiano, come si vestono, nulla è come nelle generazioni meno recenti.
Ma nel loro animo sono tuttora affezionati alle tradizioni, perfino al Buddhismo:
può sembrare una contraddizione, ma alcune contraddizioni sono più antiche del
dominio cinese. Visitando i monasteri, ad esempio, oltre alla forza della
religione come base dell’ identità nazionale è impossibile non vedere l’ altra
faccia del Buddhismo tibetano, quella più arcaica e retrograda: i contadini
magri, affamati e analfabeti che investivano nei pellegrinaggi il raccolto di
un anno o forse più, arricchendo l’ orlo traboccante dei forzieri dei lama; i
templi tappezzati ovunque di banconote, sopra e sotto le statue, negli altari, date
in elemosina alla sua casta sacerdotale. Nel vecchio Tibet i servi della gleba
erano oppressi, e contro lo sfruttamento da parte dei religiosi il Maoismo ebbe
un ruolo liberatorio, fino a quando non manifestò l’ intenzione di estirpare la
religione stessa, inducendo i tibetani a capire che l’ anima della loro nazione
non sarebbe sopravvissuta a tale eliminazione.
Altro
ambito in cui il Dalai Lama ha agito secondo esigenze più politiche che
spirituali, è stato il caso del riconoscimento del XVII Karmapa, massima guida
spirituale della scuola Kagyu e primo lignaggio di lama reincarnati apparso
nella storia del Tibet, iniziato nel XII secolo con Dusum Kyenpa, i cui
appartenenti, analogamente ai Dalai Lama, sono considerati manifestazioni
terrene di Avalokiteśvara.
Per
tradizione, l’ identificazione di un lama reincarnato avviene tramite la
valutazione di sogni e presagi, nonché delle tracce premonitrici lasciate dallo
stesso lama prima di morire, e la consultazione degli oracoli, coinvolgendo i lama
e monaci al seguito del defunto e le guide più importanti della sua scuola, che
una volta riconosciuta la reincarnazione, solitamente identificata in un bambino
piccolo, provvedono ad ordinare e istruire, dando vita a veri e propri lignaggi
di trasmissione. L’ identificazione dei lama reincarnati delle scuole Nyingma, Kagyu
e Sakya è sempre avvenuta autonomamente, senza mai consultare il Dalai Lama, eccezion
fatta nei casi in cui egli aveva avuto diretti rapporti spirituali con il lama
defunto, occasioni nelle quali gli si richiedeva un parere. Durante gli Anni Venti, tuttavia, ebbe luogo un tentativo da parte del governo del
XIII Dalai Lama di imporre un candidato, figlio di Lungshawa, il Ministro delle
Finanze, quale reincarnazione del XV Karmapa, morto nel 1922. Tuttavia, questo
riconoscimento non venne accettato dai dignitari del Karmapa, e il bambino morì
poco dopo in circostanze non molto chiare, cosa che permise al Monastero di
Tsurphu di riconoscere in autonomia la reincarnazione secondo i consueti sistemi. Secondo la
tradizione della scuola Kagyu, prima di morire ogni Karmapa lascia una lettera
con i dettagli relativi alla ricerca della propria reincarnazione. Il XVI
Karmapa, Rangjung Rigpe Dorje, rifugiatosi in Bhutan nel 1959 e in seguito
stabilitosi al Monastero di Rumtek, in Sikkim, morì nel 1981 ad appena cinquantasette
anni a Zion, negli Stati Uniti. Nel 1992 venne resa pubblica dal XII Situ Rinpoche, il terzo lama più importante della scuola
Kagyu, la sua lettera di predizione, che contribuì a identificare la sua
reincarnazione in un bambino di otto anni, figlio di una coppia di pastori
nomadi nel Tibet orientale, che venne riconosciuto ufficialmente in una
cerimonia che si tenne il 27 settembre di quell’ anno al monastero di Tsurphu,
la tradizionale sede dei Karmapa, con il nome di Ogyen Trinley Dorje. Per la
prima volta, il bambino vene riconosciuto quanto dal seguito del suo
predecessore, quanto dal Dalai Lama e persino dal governo cinese, oltre che da diversi
autorevoli maestri delle varie scuole tibetane. Le autorità cinesi diedero
ampio risalto all’ avvenimento, salutando il nuovo Karmapa come «fulgido
esempio di lama patriottico, fedele allo Stato, al Partito e alla Madrepatria».
Il Dalai Lama e Ogyen Trinley Dorje; |
Il
XVII Karmapa venne tuttavia contestato dai lama del Monastero di Rumtek, dai
membri dell’ influente organizzazione Karmapa Charitable Trust e dai
rappresentanti dei maggiori centri Kagyu dell’ Occidente, che non parteciparono
al suo insediamento. L’ opposizione, secondo cui la Cina voleva fare del nuovo
candidato una credibile alternativa al Dalai Lama, una pedina da usare a
piacimento come massima autorità spirituale di tutto il Tibet una volta che questi
fosse morto, legittimando l’ occupazione del Regno delle Montagne, si coagulò attorno
al XIV Shamarpa, nipote del Karmapa defunto, dal quale era peraltro stato
identificato a sua volta come lama reincarnato. Dopo essersi a sua volta
rifiutato di presenziare cerimonia di Tsurphu nella convinzione che il bambino
non fosse la vera reincarnazione, proclamò la falsità della lettera di
predizione esibita dal XII Situ Rinpoche, di cui pretese una perizia legale che
però non venne mai concessa. Lo Shamarpa denunciò di conseguenza un inganno
perpetrato dai più alti dignitari tibetani al fine di ingraziarsi la Cina, sostenendo
che questa appoggiasse Ogyen Trinley Dorje non solo
per indurlo a legittimare l’ occupazione del Tibet ma anche per seminare
zizzania tra i tibetani in esilio: in assenza di una lettera di predizione riconosciuta
da tutti e tenendo conto delle segnalazioni di alcuni lama di Lhasa, il 17
marzo 1994, nel corso di una cerimonia che si svolse a Nuova Delhi, conferì il
titolo di XVII Karmapa a Trinley Thaye Dorje, nato a Lhasa nel 1983 e figlio di
Mipham Rinpoche, autorevole lama Nyingma. I sostenitori di Ogyen Trinley Dorje
risposero prontamente accusando il XIV Shamarpa di avere agito mosso da avidità
e ambizione personale, nel desiderio di ereditare le fortune accumulate dallo
zio Karmapa al Monastero di Rumtek, ammontanti a circa un miliardo e duecento
milioni di dollari. Per oltre vent’ anni si tenne una controversia che provocò
grandi tensioni tra le diverse componenti del Buddhismo tibetano, generando
gravi episodi di violenza e addirittura accuse di responsabilità delle parti in
causa in vicende di sospetto omicidio. Oltre alle due fazioni contrapposte vi furono
alcuni eminenti lama che cercarono di mediare tra le parti, sostenendo che
entrambi i giovani potessero essere riconosciuti come la reincarnazione del XVI
Karmapa in quanto manifestazioni separate della sua essenza, coesistendo in
maniera pacifica e costruttiva.
La
vicenda di Ogyen Trinley Dorje balzò agli onori della cronaca internazionale il
5 gennaio 2000, quando il giovane, appena quattordicenne, giunse a Dharamsala
con i propri attendenti dopo essere sfuggito il 28 dicembre 1999 dal Monastero
di Tsurphu, attraversando buona parte del Tibet e il Nepal. Ottenuto l’ asilo
politico, si stabilì al monastero di Gyuto, a Sidhbari, non lontano da
Dharamsala, ove il XIV Dalai Lama si prodigò molto attivamente fin dal primo
giorno perché fosse adeguatamente istruito in tono con la sua tradizione. Secondo
i beninformati, la fuga del giovane Karmapa, definita «rocambolesca» e un colpo
durissimo da accettare per Pechino, sarebbe stata una sorta di messinscena
permessa fin dall’ inizio dagli stessi cinesi. I mezzi di comunicazione di
massa riferirono che il governo cinese cercò dapprima di negare l’ evidenza
affermando che Ogyen Trinley Dorje si era recato in India per recuperare alcuni
testi religiosi, accusando poi «i soliti ambienti reazionari e imperialistici»
di aver preparato la fuga, per poi concedere un dialogo diplomatico al Dalai
Lama avendo compreso quanto fosse divenuto imbarazzante il caso del Tibet,
mentre secondo determinate indiscrezioni le vicende del giovane e la sua fuga in
India rientrerebbero in un piano politico di lungo termine, che vedrebbe il
Dalai Lama e la Cina concordi: dopo essere stati dello stesso parere circa la
nomina di Ogyen Trinley Dorje quale nuovo Karmapa, sia
Dharamsala che Pechino vedrebbero in lui la chiave di volta della soluzione della
questione del Tibet, l’ erede dell’ autorità terrena e spirituale del Dalai Lama,
a cui è molto vicino, quando questi verrà a mancare. Quest’ ipotesi troverebbe
peraltro conferma nell’ abdicazione del Dalai Lama al proprio ruolo politico
nel 2011 in favore del Primo ministro del governo in esilio nel contesto di un
progetto di riforme del governo tibetano iniziato già nel 1963, con l’ adozione
di una bozza di costituzione basata su un sistema di governo democratico a cui
si aggiunsero dal 2001 le elezioni del governo tibetano, e nelle sue recenti
affermazioni a proposito del fatto che potrebbe essere l’ ultimo esponente del
proprio lignaggio di reincarnazione: «Lo scopo ultimo di una reincarnazione è
quello di portare a termine i compiti che quella precedente non è riuscita ad
ultimare, ma se l’ istituzione del Dalai Lama continuerà ad esistere oppure no
dipende esclusivamente dalla volontà del popolo tibetano. Spetta a loro
decidere. Oggi come oggi, l’ istituzione del Dalai Lama è utile alla
preservazione della cultura tibetana e alla tutela del popolo tibetano e quindi
penso che se io dovessi morire oggi i tibetani sceglierebbero di avere un nuovo
Dalai Lama. In futuro, se l’ istituzione del Dalai Lama dovesse rivelarsi
irrilevante o inutile e la nostra attuale situazione dovesse cambiare, allora
questa istituzione potrebbe cessare di esistere. Personalmente ritengo che l’ istituzione
del Dalai Lama abbia raggiunto i suoi scopi: abbiamo avuto il Dalai Lama per
cinque secoli, e il Buddhismo tibetano non dipende da un solo individuo, abbiamo
un’ ottima struttura organizzata, i nostri studiosi e i nostri monaci sono
formati al meglio.».
La
controversia sulla reincarnazione del XVI Karmapa attraversò nuovamente una
tappa fondamentale all’ inizio del 2017, quando l’ altro candidato, Trinley
Thaye Dorje, annunciò ufficialmente di voler rinunciare ai voti per sposarsi a
Nuova Delhi con una donna bhutanese, sua amica d’ infanzia: «Ho una forte sensazione, nel profondo del mio cuore,
che la mia decisione di sposarmi avrà un impatto positivo non solo per me, ma
anche per la scuola. Qualcosa di bello, qualcosa di benefico emergerà per tutti
noi.». Sebbene gli ambienti a lui favorevoli
confermarono che avrebbe conservato per sé il ruolo di Karmapa e continuato ad
offrire insegnamenti ai seguaci in tutto il mondo, appare evidente quanto
questo avvenimento favorisca la figura di Ogyen Trinley Dorje, con cui si incontrò
per la prima volta in Francia nell’ ottobre 2018.
Quella
degli abusi sessuali in ambito religioso fu una serie di gravi scandali che scosse
non soltanto la cristianità e la Chiesa, soprattutto quella cattolica, ma anche
gli ambienti del Buddhismo, incluso quello tibetano. Molti casi ebbero luogo già
durante gli Anni Ottanta, davanti ai quali la massima guida tibetana rimase per
molti anni in silenzio, evitando persino di rispondere alle lettere che gli
venivano inviate da tutto il mondo per richiedere spiegazioni. Tra le vicende
che destarono maggior clamore e sdegno vi furono quelle videro protagonista Sogyal
Rinpoche, lama reincarnato di rilievo della scuola Nyingma e fondatore dell’ associazione
Rigpa, dedita all’ insegnamento in Occidente, autore del celebre testo «Il Libro
tibetano del vivere e del morire» e noto per aver interpretato la parte di Khenpo
Tenzin nel film «Piccolo Buddha», di Bernardo
Bertolucci: accusato nel 1994 da una donna statunitense per abusi sessuali,
fisici e mentali, non venne chiamato in giudizio grazie ad un patteggiamento in
cambio di risarcimento economico. Sogyal Rinpoche respinse sempre tutte le
accuse, conservando la propria posizione di rilevanza, seconda solo a quella
del Dalai Lama, essendo considerato la reincarnazione di un grande maestro
Nyingma che ebbe notevole influenza sul XIII Dalai Lama, sebbene le voci sui
suoi abusi sessuali continuarono a circolare numerosi per molti anni, venendo
raccolte in un documentario canadese del 2012, in cui si racconta tramite la
testimonianza diretta di alcune donne che subirono le attenzioni intime del maestro,
tutte facenti parte del cosiddetto circolo interno, un gruppo molto ristretto
di donne, tutte giovani e belle, a cui si accedeva per chiamata diretta come
privilegio dovuto ad un buon karma accumulato nelle vite precedenti, in quanto
nel Buddhismo tibetano la vicinanza stretta con il maestro è reputata fonte di
grandi benedizioni per un discepolo. Tuttavia, ben presto chi ne faceva parte
comprendeva di dovere in cambio alcuni favori speciali, cosa che non veniva
contestata dalle più perché un lama viene visto di gran lunga superiore in
confronto ad un uomo normale, dunque qualsiasi cosa egli richieda va fatta senza
opporsi, nella convinzione della sua bontà e dell’ impossibilità da parte di
capire le motivazioni profonde di tale richiesta. Peraltro, in genere le
vittime erano riluttanti a denunciare le molestie sessuali subite perché Sogyal
Rinpoche, analogamente ad altri lama dalla condotta sessuale scorretta, temevano
una vendetta o altre conseguenze negative quali la dannazione, la possessione
da parte di spiriti maligni e l’ attacco di forze negative. Il mondo esterno
era peraltro demonizzato dalle stesse guide spirituali, inducendo le vittime a
non fidarsi di nessuno. In ambito buddhista, peraltro, due regole fondamentali
vengono opportunamente distorte: l’ astensione dalle maldicenze, al fine di
raggiungere la calma mentale, ma anche per bloccare commenti critici, e il
samaya, la sacra promessa volta a conservare la purezza del comportamento del
praticante in un legame di lealtà al maestro, che può anche esser presentato
come una minaccia di gravi danni per sé e la famiglia qualora venga infranto. I
profughi tibetani sono da lungo tempo in lotta contro ogni forma di avversità,
e vedendo nei lama la speranza di preservare la loro civiltà e tradizione dall’
estinzione, nella loro società si è rinforzata la già grande venerazione nei
loro riguardi, indipendentemente dai dubbi, cosa che insieme alle sue attività
filantropiche e divulgative per lungo tempo ha favorito Sogyal Rinpoche.
Queste
donne, tuttavia, negli anni si ribellarono alle evidenti contraddizioni tra l’
insegnamento di Sogyal Rinpoche e le richieste di scambi di natura sessuale, denunciando
l’ accaduto. Venne inviata una lettera anche al Dalai Lama con richiesta di
spiegazioni riguardo al comportamento di questo insegnante, ma da Dharamsala
non giunse alcuna. Nel luglio 2017 emersero ulteriori scandali relativi ad
abusi sessuali, violenze psicologiche e fisiche dovute al fatto che il lama avrebbe
problemi di gestione della rabbia, avendo insultato e maltrattato fisicamente
diversi studenti, monaci e monache, ad esempio tirando loro addosso vari
oggetti. Questi comportamenti avrebbero superato anche la «folle saggezza»,
ovvero comportamenti eccentrici e fuori dalla righe tipici di alcuni maestri
della scuola Nyingma, volti a scardinare le convenzioni mentali, sconfinando in
veri e propri abusi e comportamenti sessuali scorretti. Finora nessun nuovo
procedimento legale è stato intentato contro il lama, che comunque all’
indomani del nuovo scandalo annunciò tramite i portavoce della Rigpa di voler
entrare in un periodo di ritiro e riflessione, pur non ammettendo gli abusi. In
seguito si dimise dalla direzione del suo movimento, rendendo noto di soffrire
di tumore. Il Dalai Lama, che secondo una delle vittime degli abusi, Oane
Bijlsma, vivrebbe «ignaro di ciò che sta accadendo intorno a lui», riferendosi
ai suoi seguaci che, «circondati dal lusso, si sono approfittati della loro
posizione di monaci rispettabili per abusare delle persone che cercano solo
risposte a domande esistenziali», solo a molti anni dai fatti ammise di esserne
a conoscenza fin dall’ inizio, enunciando una lista di episodi che vedevano
vari maestri in Occidente responsabili di lavaggi del cervello, minacce,
arricchimenti e persino relazioni con ragazze minorenni, citando una profezia
attribuita a Padmasambhava, che parlerebbe di monaci «che fanno l’ amore
allegramente bevendo del vino, abbandonando i monasteri e danneggiando il
Dharma». Tale dichiarazione venne accolta in maniera mista dal pubblico soprattutto
in Occidente, diviso tra chi sostiene che abbia adottato un atteggiamento prudente
di fronte ad un grave problema in attesa di adottare una soluzione adeguata
senza danneggiare il volto pubblico del Buddhismo e chi invece afferma che
abbia opportunamente voluto rimanerne fuori per mettere più facilmente a tacere
una serie di scandali che avrebbero seriamente compromesso la causa del
Buddhismo e del Tibet nonché la posizione dei lama.
Stephen
Batchelor, ex monaco britannico di scuola Gelug e Zen, affronta la questione nel
suo libro autobiografico «Confessione di un ateo buddhista», affermando che nel
marzo 1993 si era recato a Dharamsala con un gruppo di ventidue maestri occidentali,
alcuni monaci e altri laici, di varie scuole buddhiste per discutere con il
Dalai Lama l’ adattamento del Buddhismo alla civiltà occidentale, il conflitto
tra cultura e tradizione, il settarismo, la psicoterapia, i rapporti tra monaci
e laici e le relazioni sessuali tra maestri e discepoli: in tale sede il Dalai Lama
disse di aver ricevuto molte lettere di donne occidentali che lamentavano di
essere state costrette a cedere alle pressioni dei rispettivi maestri, con la
scusa che avrebbero migliorato il loro karma, e, preoccupato per l’ attenzione
mediatica alla vicenda, suggerì di scrivere una lettera aperta in cui riassumere
le conclusioni emerse da quel ciclo di incontri, e Batchelor fu scelto come autore
di tale documento: nel libro, egli racconta che dopo aver rielaborato svariate
bozze, lesse quella finale al Dalai Lama, che ascoltò con attenzione suggerendo
spesso modifiche di linguaggio e di enfasi, e per la prima volta vide all’
opera la sua «raffinata intelligenza politica». In tale scritto, il Dalai Lama incoraggiava
gli studenti a prendere provvedimenti responsabili contro gli insegnanti che si
comportavano in modo non etico, rendendone pubblici gli errori soprattutto in
presenza di prove e mancanza di ravvedimento: «Sperava che una denuncia
pubblica permettesse alle vittime di farsi ascoltare e ai malfattori di essere
svergognati, spezzando il circolo dell’ abuso.». Tuttavia, prosegue l’ autore anglosassone,
quando l’ ufficio privato del Dalai Lama restituì il documento approvato, notò
che la frase in cui il monaco-sovrano approvava personalmente il contenuto era
stata omessa, dando l’ impressione che una ventina di insegnanti occidentali si
fossero presi la briga di emanare proclami a tutto il mondo buddhista, dandogli
l’ impressione di essere stato usato: «Il Dalai Lama era riuscito a comunicare
le sue preoccupazioni e a proporre una soluzione, ma togliendo il suo avallo al
documento il suo personale si era premurato che non si assumesse la responsabilità
dei contenuti espressi. Ancora una volta presi coscienza che quel che in
superficie appariva come una causa comune di occidentali e tibetani in realtà
nascondesse intenti e aspettative contrastanti.».
Nato
ed educato in un lontano Paese rimasto isolato per secoli tra colossali monti e
culla di una religiosità sfarzosa e colorata, di cui è stato educato ad essere
sia custode che signore, oggi il XIV Dalai Lama è uno degli uomini più noti al
mondo, ma purtroppo non adeguatamente compreso e valutato in quanto circondato da
un forte alone non solo mistico, ma anche di tipo propagandistico e pubblicitario.
Pur non volendo additarlo a priori come un personaggio negativo, appare evidente
che come autorità politica, legata a questioni terrene, si sia ritrovato
coinvolto in faccende complesse e sfaccettate in cui bene e male vengono spesso
ad assumere confini incerti, prendendo decisioni mosse principalmente dal senso
di opportunità, senza disdegnare atti di revisione delle informazioni, proselitismo
in ambienti ignari o scelte arbitrarie. Nel caso particolare di una teocrazia,
peraltro, politica e religione sono costantemente tutt’ uno, e chi assume nelle
proprie mani il potere sia terreno che spirituale finisce spesso e volentieri
per influire su entrambe indistintamente, nel contesto di particolari criteri metafisici,
oltre la consueta realtà umana. Il Dalai Lama era a capo di una società le cui
leggi derivavano da una fonte etica e valoriale indubitabile, oggettiva,
immutabile ed eterna, ossia quella del Buddha, oltre la quale non esisteva nulla
che valesse la pena di essere considerato. Una società il cui governo prendeva
decisioni solo dopo aver valutato i presagi e consultato gli oracoli, nella
certezza di considerare il parere delle divinità tutelari.
Tuttora
costretto ad un penoso esilio che coinvolge diverse migliaia tibetani, molti
dei quali nati e vissuti in India o in altri Paesi e chiamati da una parte a
preservare la propria cultura e dall’ altra a confrontarsi con un mondo molto
diverso da quello lasciato dietro di sé, il Dalai Lama rappresenta ovviamente
un simbolo in cui sono riposte le speranze di molti, nonché la massima autorità
di una particolare tradizione religiosa, effettivamente impegnata nella
salvaguardia della civiltà e della religione tibetane, tanto da aver ricevuto
nel 1989 il Premio Nobel per la Pace in virtù della strategia della Via di
Mezzo, presentata per la prima volta il 21 settembre 1987 tramite l’ esposizione
del celebre Piano di Pace in cinque punti, in seguito adattato e presentato il 15
giugno 1988, che riconosce la sovranità della Cina sul Tibet per la sicurezza e
i rapporti con l’ estero, prevedendo l’ autonomia interna. Occorre tuttavia
riconoscere che anche il Dalai Lama è un uomo, un politico oltre che un
religioso, il centro di ogni autorità, detentore di un’ istituzione che, comprensibilmente,
non controlla del tutto da solo ma insieme ad una serie di dignitari dotati di
precise competenze e funzioni, cosa che lo rende influenzato da precisi
interessi in vari campi notevolmente diversi, spesso in contraddizione reciproca,
e che la sua immagine è stata utilmente beatificata per attirare consensi,
senza tener obiettivamente conto delle vicende che ha vissuto, a favore di un
pubblico ignaro della storia passata del Tibet e della Cina, nonché dei loro complessi
rapporti.
Bellissimo articolo molto accurato, grazie. Se ti va leggi nel mio blog la sintesi che ho fatto quando il Dalai Lama parlò a Livorno :)
RispondiEliminaLa ringrazio molto per il suo apprezzamento, leggerò con infinito piacere il pezzo che mi suggerisce. Lei si trova anche sulle reti sociali, come Facebook?
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