«Egli
ebbe ingegno, equilibrio, memoria, cultura, attività, prontezza, diligenza. In
guerra aveva compiuto gesta grandi, anche se fatali per lo Stato. Non aveva
avuto per molti anni altra ambizione che il potere, e con grandi fatiche e
pericoli l’ aveva realizzata. La moltitudine ignorante se l’ era conquistata
coi doni, le costruzioni, le elargizioni di viveri e banchetti. I suoi li aveva
acquistati con premi, gli avversari con manifestazioni di clemenza, insomma
aveva dato ad una città, ch’ era stata libera, l’ abitudine di servire, in
parte per timore, in parte per rassegnazione.» Marco Tullio Cicerone;
Nell’
antica Grecia, il termine immortalità non si riferiva alla vita eterna, libera
dall’ esperienza della morte, ma alla possibilità di restare segnati nella
storia, venendo ricordati per sempre dalle generazioni future, nel corso di
incalcolabili secoli. Questo concetto diede molto conforto agli uomini,
spingendoli a compiere imprese eroiche in guerra come soldati, a sviluppare la
scienza e la conoscenza come medici, filosofi e letterati, e a dare il proprio
contributo alla prosperità della polis come politici prima che il cupo
traghettatore Caronte venisse ad imbarcare sulla propria barca le anime dei
defunti per trasportarle fino all’ Ade, dove sarebbero divenute ombre. Consci
che nella vita futura non vi sarebbe stata alcuna apparente distinzione tra
ombre buone e malvagie, e nemmeno un’ assegnazione di un premio o una pena in
base ai meriti terreni, uomini e donne fecero del proprio meglio per essere
ricordati da chi sarebbe venuto dopo di loro. La storia divenne leggenda, e la
leggenda divenne mito.
La
storia di un’ esistenza umana non può che avvincerci. Da tempo immemorabile, la
gente ascolta i racconti di ciò che altri hanno fatto, riconoscendo che tali
storie possono rappresentare un esempio di vita esplorando le proprie capacità
e limiti. Vogliamo sapere fin dove può spingersi la nostra vita, che cosa
possiamo farne, quanto lontano può arrivare e la sua sfera di azione. Anche se
possiamo sembrare fermi, stiamo verificando le nostre vette e i nostri limiti
oppure ci stiamo ritirando dopo averlo fatto. La convenzione e la vita
ordinaria offrono una definizione illusoria e un paradiso falsamente sicuro, ma
i muri sono molto sottili: se li attraversiamo quale sarà l’ ampiezza dell’
esistenza che vi si trova dentro? Tutto questo fu sicuramente vero per un uomo
il cui nome oggi è senz’ altro ancora molto ricordato, e che quando era ancora
vivo fu ammirato quanto avversato: Caio Giulio Cesare, uno dei personaggi più
importanti della storia, che agì in numerosi ambiti come uomo di Stato,
comandante militare e scrittore, gettando le basi del periodo più alto,
glorioso e civile di Roma, ossia l’ Impero, che vide la propria realizzazione
concreta durante il principato del suo erede, Gaio Ottaviano Turino, passato
alla storia come Cesare Augusto. Uomo estremamente intelligente e ambizioso,
dai numerosi ed elevati talenti, Cesare da un lato fu capace di straordinarie
imprese che beneficiarono ampiamente Roma e l’ Italia, ma dall’ altro dimostrò
un amore per il potere così grande da essere disposto a tutto pur di diventare
l’ uomo più potente della Città eterna, e quindi del mondo. Nel corso della sua
straordinaria avventura umana, politica e militare, la capitale del mondo si
ritrovò paradossalmente tanto stimolata quanto dipendente da lui, rimanendo pur
sempre un luogo costantemente intento a guardare avanti, e mai indietro.
Ritratto giovanile di Cesare; |
Nel
509 prima di Cristo, con la cacciata di Tarquinio il Superbo, settimo e ultimo
re, oppressore violento e ingiusto, fomentata dal figlio di sua sorella, Lucio
Giunio Bruto, Roma instaurò la Repubblica, un governo ispirato saldamente al
principio di governo collettivo, saggio ed egualitario. Volendo evitare altri
abusi da parte di un uomo solo, i fondatori del nuovo ordine suddivisero i poteri
appartenuti in forma assoluta al re tra la carica di console, il collegio del
Senato, i tribuni e il pontefice massimo, e decisero che ogni carica sarebbe
stata collegiale, come quella di console, che avrebbe visto due candidati
contemporaneamente, temporanea, dalla durata di un anno, e non esercitabile per
più di un mandato. La nuova Urbe sarebbe stata un luogo civile, retto da un
governo illuminato ed esemplare capace di assicurarne costantemente il bene e
il progresso ed evitare derive autoritarie.
Tuttavia,
qualche tempo dopo, nel secondo secolo prima di Cristo, la Repubblica costituiva
già un impero dalle forti tendenze espansionistiche e una politica accorta nel
tenere divise e sottomesse le popolazioni conquistate: non a caso, infatti,
divenne famoso il motto divide et impera,
ossia «dividi e comanda».
La sua politica, tuttavia, rimaneva quella della città-Stato, che si era
rivelata valida durante tutte le guerre di difesa quanto in quelle di
conquista, avendo fornito una classe politica e militare ben organizzata e
addestrata, in grado di fornire un ricambio continuo di uomini capaci di
affrontare le più diverse circostanze. Eppure, l’ influsso di nuovi costumi, l’
enorme aumento dei poteri dei patrizi, ossia l’ aristocrazia le cui famiglie
discendevano da quei cento patres che
avevano formato il primo Senato al tempo di Romolo, e dello stesso Senato,
oltre che la possibilità di facile arricchimento offerta dagli incarichi nelle
province portarono ben presto a lotte furiose per la conquista del potere.
Roma
e il Senato si divisero in due distinti schieramenti: gli ottimati, gli «ottimi»,
ossia i patrizi, e i popolari, ovvero la plebe. I primi difendevano gli
interessi dell’ aristocrazia, a cui si apparteneva esclusivamente per via
ereditaria, e dei grandi proprietari terrieri, mentre gli altri sostenevano le
rivendicazioni dei piccoli proprietari terrieri, dei cavalieri e delle classi
urbane meno abbienti.
La Suburra, quartiere natio di Cesare; |
In
questo ventre di discordie e reciproci intrighi e attacchi, Cesare vide la luce
il 13 luglio del 100 prima di Cristo, figlio di un senatore e pretore romano
dal quale prese l’ intero nome, appartenente alla gens Iulia e sostenitore e
cognato di Caio Mario, il potente militare e console della Repubblica che ne
aveva sposato la sorella, e di Aurelia Cotta, affascinante e ammirata matrona esponente
alla gens Aurelia, divenuta particolarmente influente nell’ era della
Repubblica. La gens Iulia era un’ antichissima stirpe patrizia di cui nei
secoli avevano fatto parte alcuni tra i personaggi più influenti dello Stato, e
che secondo il mito discendeva dal principe troiano Enea, figlio della dea
Venere e del mortale Anchise, da suo figlio Ascanio, chiamato Iulo dai latini e
progenitore dei re di Alba Longa, quindi da Romolo e Remo, figli di Rea Silvia
e il dio Marte. Nonostante le origini aristocratiche e l’ ottima reputazione,
mai venuta meno, attualmente la famiglia non era ricca secondo i canoni della
nobiltà romana, né particolarmente influente. La Suburra, il quartiere in cui
viveva e nella quale nacque lo stesso Cesare, era infatti la parte peggiore
della città, un vasto e popoloso quartiere situato sulle pendici dei colli
Quirinale e Viminale fino alle propaggini dell’ Esquilino, la cui popolazione
era costituita dai livelli più bassi e spregevoli della società e viveva in
condizioni miserabili benché affacciata su di un’ area monumentale e munita di
servizi pubblici. Ancora oggi, nel linguaggio comune, il suo nome è sinonimo di
luogo malfamato, di malaffare, crimini e immoralità di ogni tipo.
Ultimo
di tre figli, di cui era l’ unico maschio, Cesare crebbe sotto l’ attento
occhio della madre Aurelia, ritenuta ad unanime giudizio saggia e attenta,
intelligente, indipendente, molto bella e dotata di senso pratico, e degli
Aurelii, che vedevano in lui un futuro statista. Di alta statura, magro ma
forte, assai elegante, occhi scuri, fronte spaziosa, guance pallide, zigomi
sporgenti, naso diritto e lungo, bocca grande e capelli neri, aveva un aspetto
nobile e voce vibrante. Lo sguardo era mutevole, dolce e severo, folgorante come
quello di uno sparviero. Ebbe come precettore l’ illustre grammatico gallo
Marco Antonio Gnifone, cresciuto come schiavo presso gli Antonii, dai quali in
seguito sarebbe stato liberato, e divenuto poi allievo di Dionisio
Scitobrachione, di cui divenne il migliore studente, dotato com’ era di memoria
e capacità di espressione. Imparò facilmente il greco, che divenne una seconda
lingua per lui, e amò i classici, la poesia e la storia. Fu eccellente nel
dibattito, particolare disciplina a cui ogni politico era soggetto data l’
importanza dell’ abilità nell’ argomentare, meglio ancora se a spese dell’
avversario, di cui si doveva contestare ogni affermazione con intelligenza e
persino ironia. Si appassionò anche all’ astronomia, alla matematica e alle
scienze naturali, e compì lunghe e intense esercitazioni in Campo Marzio,
poiché il mestiere delle armi garantiva ad ogni buon romano maggior successo
nell’ oratoria e nel poetare, oltre che una buona opportunità di carriera
politica e ascesa sociale.
Anchise e il figlio Enea, antenati di Cesare secondo il mito; |
Fiero
della propria discendenza divina, reale e patrizia, e sofferente di epilessia,
il «morbo sacro» ritenuto dai greci la massima maledizione divina a cui si
poneva fine solo se si cercava il favore degli dei, mentre alla Città eterna
era nota come «morbus comitialis», dal
momento che l’ eventuale presenza di convulsioni epilettiche di un partecipante
a un comizio era ritenuta di malaugurio e provocava lo scioglimento dell’
adunanza, il giovane trascorse il proprio periodo di formazione in un’ epoca
tormentata da gravi disordini: tra i problemi da lungo tempo rimasti in
sospeso, vi era quello delle concessione della cittadinanza romana alle
popolazioni italiche. Nonostante le promesse fatte quando venivano chiesti agli
alleati sacrifici straordinari in caso di pericolo, nessuno tra ottimati e
popolari era mai stato disposto a condividere diritti e privilegi, e all’
ennesimo rifiuto ufficiale espresso dal Senato, nel 91 prima di Cristo gli
italici insorsero dando inizio alla Guerra sociale. Proprio in quegli anni i
due consoli della Repubblica erano il popolare Caio Mario e l’ ottimato Lucio
Cornelio Silla. Mario era un celebre e valente generale che nel 107 aveva
sconfitto Giugurta, re di Numidia, che si era ribellato a Roma, mentre nel 102
aveva vinto i teutoni e l’ anno dopo i cimbri, due popolazioni germaniche che
avevano sbaragliato le legioni romane nell’ Italia settentrionale. La morte dei
fratelli Gracchi, grandi riformatori e paladini del popolo, aveva profondamente
scosso e indebolito i popolari, che videro in Mario l’ uomo che avrebbe ripreso
la loro opera e ridato vigore al partito a danno degli ottimati, anche con la
forza dell’ esercito che riorganizzò in maniera geniale aprendolo a tutti i cittadini
e stabilendo che ai soldati venisse data una paga: ora l’ esercito era potente
come non mai, composto prevalentemente da proletari arruolatisi in massa al
richiamo di un più facile guadagno. Silla era invece un giovane rampollo del
patriziato, che in Numidia si era segnalato come valido ufficiale agli ordini
di Mario. Le brillanti vittorie fecero di Mario l’ idolo dei romani, che lo
rielessero console per cinque anni consecutivi, benché la legge lo vietasse
rigorosamente. Il nuovo esercito romano, peraltro, combatteva più per la paga
che per l’ Urbe, ed era fedelissimo al comandante che spartiva il bottino: la
Repubblica aveva perso il controllo delle forze armate, e i generali si erano
fatti più potenti. Il sanguinoso conflitto terminò nell’ 88, quando il Senato
estese la cittadinanza alle popolazioni italiche che non si erano sollevate e a
coloro che entro due mesi avessero deposto le armi. L’ esercito guidato da
Silla riuscì a prevalere, ma i veri vincitori furono gli italici, che ottenendo
la cittadinanza romana crearono l’ unità romano-italica, che quasi duemila anni
dopo sarebbe equivalsa al fondamento dello Stato nazionale italiano.
Nato
nella città scelta dagli dei come centro del mondo in una stirpe di sangue
divino e reale ma vissuto nella sua parte più umile, a contatto diretto con il
popolo, Cesare maturò ben presto una sconfinata ambizione: in quegli anni la
città era visibilmente sprofondata nel caos e nella paura, e il popolo intorno
a lui brancolava nella confusione senza una guida forte e illuminata. Serviva
pertanto un uomo risoluto e saggio, alle volte anche severo, che la guidasse
verso la civiltà e le vette della potenza: quell’ uomo, naturalmente, doveva
essere lui. Dotato di un’ intelligenza molto acuta, maturò un atteggiamento
fine e amabile, forte e carismatico che molto lo avrebbe agevolato lungo il suo
cammino in politica. Sebbene patrizio, si schierò fin dal principio dalla parte
dei popolari, sicuramente condizionato dalle convinzioni dello zio Mario. Ciò
rappresentò un grande ostacolo all’ inizio della sua carriera politica e
militare, e dovette contrarre ingenti debiti per ottenere le sue prime cariche
politiche. Frattanto, nell’ 88, Mitridate VI, re del Ponto, si mise a capo di
tutti i popoli orientali ostili a Roma e minacciò le province orientali. Il
Senato reagì dichiarandogli guerra e affidò a Silla il comando della
spedizione. Mentre questi partiva per la Grecia con le sue legioni, Mario
costrinse il Senato a togliergli il comando a proprio vantaggio, quindi Silla scelse
le sei legioni a lui più fedeli e, alla loro testa, marciò su Roma: nessun
comandante, in precedenza, aveva mai osato violare con l’ esercito il perimetro
della città, il cosiddetto pomerio. La cosa era talmente contraria alle
tradizioni che Silla esentò gli ufficiali dal parteciparvi. Spaventati da tanta
risolutezza, Mario e i suoi seguaci fuggirono dalla città, pertanto il patrizio
partì nuovamente contro Mitridate. Con il rivale lontano, Mario tornò a Roma e
fece una strage di nemici, facendosi eleggere console per la settima volta, ma
poco dopo morì di polmonite, ormai settantunenne. Allarmato dalle notizie che
giungevano da Roma, Silla negoziò un compromesso con Mitridate, garantendo al Ponto
l’ indipendenza entro i tradizionali confini, e nella primavera dell’ 83 prima
di Cristo sbarcò a Brindisi e si impose nell’ Italia meridionale, sbaragliando
i mariani una volta per tutte a Porta Collina l’ anno dopo. Ormai padrone della
Repubblica, Silla compilò le liste di proscrizione che fece affiggere al Foro:
in esse comparivano i nomi dei suoi oppositori che, dichiarati nemici dello
Stato, potevano essere denunciati e uccisi da chiunque. Mentre migliaia di
persone venivano uccise, molte delle quali semplicemente per essere espropriate
dei propri beni, Silla assunse la carica di dittatore a vita, carica
straordinaria che veniva concessa in tempi di emergenza e garantiva poteri
assoluti ma che fino ad allora aveva avuto sempre una scadenza entro sei mesi,
e ne approfittò per rafforzare il suolo del Senato e limitando il potere di
consoli e tribuni, che persero il diritto di veto sulle deliberazioni dei senatori
e dei magistrati.
Con
la morte dello zio Mario e del padre quando aveva rispettivamente quattordici e
quindi anni, la vita e la carriera di Cesare si fecero assai più precarie: ripudiò
Cossuzia, giovane donna di famiglia molto ricca e appartenente all’ ordine
equestre che aveva sposato per volere del padre, per maritare nell’ 83 la
tredicenne Cornelia, figlia di Lucio Cornelio Cinna, patrizio e influente
esponente dei popolari, console per quattro volte consecutive e prezioso
alleato di Mario nella guerra civile, ucciso da un gruppo di militari presso
Ancona. Già malvisto e temuto da Silla per la sua parentela con Mario e le sue
emergenti qualità, il nuovo legame con una famiglia notoriamente schierata con
i popolari lo misero ulteriormente in cattiva luce agli occhi del dittatore, perché
avrebbe costituito un nuovo comando politico unendo i discendenti dei due
celeberrimi capi popolari defunti. Cercò di ostacolarne in tutti i modi le
ambizioni, bloccando la sua nomina a Flamen Dialis, sacerdote preposto al culto
di Giove Capitolino, e gli ordinò di divorziare da Cornelia, ma il ragazzo
rifiutò. Silla meditò allora di farlo uccidere, ma fece un passo indietro dopo
i numerosi appelli rivoltigli dalle vestali, sacerdotesse consacrate alla dea
Vesta, e da Gaio Aurelio Cotta, zio dello stesso Cesare: si limitò ad esiliarlo,
affermando che presto il giovane sarebbe stato potente quanto dieci Mario e
fatale per gli ottimati che aveva passato la vita a difendere.
Temendo
per la propria vita, Cesare partì ritirandosi prima in Sabina e poi per il
servizio militare in Asia, come legato del pretore Marco Minucio Termo, che lo
volle a Nicomedia, presso la corte di Nicomede IV, re di Bitinia, regno
ellenistico fondato nel 297 prima di Cristo in Asia Minore. Come delegato della
Repubblica romana, il giovane si trovò immediatamente a proprio agio tra gli
agi della corte bitìnica, e ottenne da subito le simpatie del sovrano, che
sollecitò a inviare la promessa flotta destinata ad aiutare i romani nell’
assedio del porto di Mitilene. Da parte sua, re Nicomede mostrò fin dal primo
momento un debole per il giovane ufficiale e gli concesse senza discutere la
flotta. Una volta consegnate le navi bitìniche a Minucio Termo, Cesare ritornò a
Nicomedia, ufficialmente per riscuotere certi denari in nome di un liberto suo
cliente: la notizia del ritorno alla reggia di Nicomede fece nascere a Roma i
pettegolezzi più vivi, in quanto si vociferò che avesse ottenuto così
facilmente le navi essendosi donato a lui in un rapporto pederastico. I primi
avversari lo definirono «regina di Bitinia», e, più malignamente, «marito di
ogni moglie e moglie di ogni marito». Tali nomignoli continuarono ad essergli
costantemente appioppati per il resto della sua carriera.
Come
legato di Minucio durante l’ assedio di Mitilene, Cesare partecipò per la prima
volta a uno scontro armato distinguendosi per il suo coraggio, tanto che gli fu
conferita la corona civica, che veniva concessa a chi, in combattimento, avesse
salvato la vita a un cittadino. In seguito alle riforme promulgate da Silla, a
chi fosse stata conferita una corona militare sarebbe stato garantito un seggo
in Senato. Non seguì Minicio nel suo ritorno a Roma, rimanendo invece om
Cilicia, ove partecipò a diverse operazioni militari che si svolsero in quella
zona, come l’ azione contro i pirati, che avevano il loro punto di forza in
quei luoghi, sotto il comando di Servilio Isaurico. In quanto patrizio, fu
associato con alcuni incarichi a vari comandanti.
Dopo
due anni di potere assoluto e aver attuato svariate riforme atte a ristabilire
il primato degli aristocratici sulla Repubblica, Silla stupì tutta la Città
eterna abbandonando completamente ogni carica, a cominciare da quella di
dittatore a vita, e ritirandosi a vita privata nella convinzione di aver
assicurato l’ ordine e la pace per lungo tempo. Il consueto sistema governativo
era tornato in vigore, ma Cesare ritenne più saggio tornare a Roma solo alla
morte di Silla, che avvenne nel 78 prima di Cristo, quando era ormai sessantenne,
probabilmente a causa del cancro oppure per problemi al fegato derivanti dal
troppo vino. Nel 76, ormai ventiquattrenne, ebbe dalla moglie Cornelia l’ unica
figlia, Giulia, che un giorno avrebbe potuto usare come strumento diplomatico
tramite un utile matrimonio con un uomo importante. Grazie ai voti acquistati
con il denaro prestatogli da Marco Licinio Crasso, un ricchissimo e potente
patrizio che tempo addietro aveva sostenuto Silla riuscendo poi a sfuggire alle
persecuzioni di Mario e Cinna, nel 72 fu eletto tribuno militare e con questa
carica si impegnò nel ripristino dei poteri dei tribuni della plebe che Silla
aveva ridimensionato durante il suo governo. Non mancò mai di attaccare gli
ottimati, ergendosi a fiero e importante rappresentante dei popolari. Nel 69 fu
eletto questore e nello stesso anno, grazie a potenti appoggi, fu nominato
governatore della Spagna, dove sgominò gli ultimi seguaci di Quinto Sertorio,
un politico e militare seguace di Mario che aveva fomentato la ribellione
spagnola dopo essersi guadagnato l’ appoggio della popolazione locale con un’
onesta amministrazione, e pacificò la popolazione con un’ amministrazione
saggia. Si racconta che mentre era a Cadice, il giovane Cesare osservò una
statua di Alessandro Magno, suo grande idolo, e si commosse fino alle lacrime: «Non sembra che ci sia motivo di addolorarsi se alla mia
età Alessandro regnava già su tante persone, mentre io ancora non ho fatto
nulla di notevole?».
Tornato
all’ Urbe ricco e potente ma escluso dalla candidatura a console dal Senato con
uno stratagemma, ossia il conferimento di un trionfo i cui festeggiamenti l’
avevano trattenuto in Spagna, dopo la morte della moglie Cornelia nel 68 sposò
Pompea, nipote di Silla, e fu eletto edile curule nel 65. Divenuto nuovo capo
del partito popolare, conquistandosi le simpatie di tutta la popolazione romana,
due anni dopo, complice un enorme prestito ottenuto da Crasso, ottenne un
grandissimo trionfo con l’ elezione a pontefice massimo, capo del collegio di
sacerdoti che presiedevano alla sorveglianza e al governo del culto religioso,
comprendendo perfettamente quale aspetto avrebbe avuto la sua figura se
insignita della carica di tutore del diritto e della religione romana. Partecipò
alla prima congiura organizzata da Lucio Sergio Catilina, un nobile decaduto
che gli promise un ruolo importante: la cospirazione, che avrebbe portato all’
elezione di Crasso come dittatore e di Cesare a suo magister equitum, fallì per
l’ improvviso abbandono del progetto da parte di Crasso, o forse perché Cesare
si rifiutò di dare il segnale convenuto che avrebbe dovuto dare inizio ad un
assalto al Senato. Quando il piano fu scoperto pur senza prove certe da Marco
Tullio Cicerone, console in quell’ anno, Lucio Vezio, amico di Catilina, fece i
nomi di alcuni congiurati, come quello di Cesare, che venne scagionato grazie
al tempestivo intervento di Cicerone.
L’
anno dopo, nel 62, Publio Clodio Pulcro, amante di Pompea, si introdusse in
casa di Cesare, dove la stessa moglie di Cesare stava preparando le
celebrazioni per la festa di Bona Dea, aperta alle sole donne: scoperto mentre
era travestito da ancella, fu da subito al centro di un enorme scandalo che lo
portò ad essere processato per sacrilegio, mentre Cesare, in una posizione
assai delicata, ripudiava la moglie pur senza accusarla di adulterio con la
scusa secondo cui lei doveva rimanere al di sopra di ogni sospetto, rifiutandosi
di testimoniare contro Clodio al processo perché consapevole di aver bisogno di
lui sul piano politico. Il dissoluto venne completamente assolto dagli
inquirenti, che evitarono tanto l’ ira del popolo in caso di colpevolezza
quanto quella dell’ aristocrazia.
Pompeo Magno in una raffigurazione odierna; |
Desideroso
di ascendere alla carica di console, Cesare si avvicinò a Gneo Pompeo Magno, un
generale che si era distinto durante la guerra civile dell’ 83-82 prima di
Cristo come principale luogotenente di Silla, oltre che contro Sertorio, gli
schiavi di Spartaco, i pirati del Mediterraneo e Mitridate VI del Ponto, a cui
il Senato aveva respinto la richiesta di distribuire terre ai soldati come
premio per l’ impegno in guerra, e a Crasso, che era stato a capo della
spedizione contro la rivolta di Spartaco. I tre si incontrarono a Lucca nel 60,
e strinsero un accordo noto come «primo triumvirato», nel quale si impegnarono
ad aiutarsi l’ un l’ altro contro l’ aristocrazia senatoria e contro Cicerone,
scomodi a tutti e tre: Cesare ottenne il consolato per il 59, e fece in modo
che ai veterani di Pompeo e ai cittadini più poveri venissero distribuite le
terre, e che il Senato ratificasse i provvedimenti presi da Pompeo in Oriente,
favorendo peraltro la classe dei cavalieri che appoggiava Crasso. Pompeo ebbe
il governatorato della Spagna e Crasso quello della Siria. Per vincolare l’
alleanza con il potente Pompeo, Cesare gli offrì in moglie la giovane figlia
Giulia, ormai diciassettenne. Nello stesso periodo, l’ erede della gens Iulia
sposò la sua ultima moglie, Calpurnia, figlia del senatore Lucio Calpurnio
Pisone.
Marco Antonio; |
Il
potere e il successo raggiunti ancora non bastavano a Cesare, in quanto gli
mancava ancora la grande gloria derivante da una particolare impresa militare.
Quanto aveva fatto in Oriente e in Spagna era poca cosa, quindi in previsione
della fine del proprio mandato consolare, grazie al supporto di Pompeo e Crasso
ottenne il governatorato della Gallia Cisalpina e di quella Transalpina per i
successivi cinque anni: poiché la situazione in quei territori era confusa per
la tradizionale e cruenta rivalità tra le varie tribù celtiche, l’ erede della
gens Iulia intuì che una conquista atta a portarvi la pace romana gli avrebbe
valso una reputazione ed un prestigio a dir poco immensi. Prima di lasciare Roma,
nel marzo del 58 incaricò Publio Clodio Pulcro, ora tribuno della plebe e che
teneva sotto scacco dai giorni dello scandalo della Bona Dea, di fare in modo
che Cicerone fosse costretto a lasciare la città: Clodio fece approvare una
legge con valore retroattivo che puniva tutti coloro che avevano condannato a
morte uno o più cittadini romani senza concedere loro la possibilità di una
commutazione in altra pena se così stabilito da un giudizio popolare. Cicerone
fu quindi condannato per il suo comportamento in occasione della congiura di
Catilina, al termine della quale aveva promosso alcune condanne a morte, e
venne esiliato dalla Città eterna e allontanato la vita politica: in tal modo
Cesare volle accertarsi che in sua assenza il Senato non prendesse decisioni
che compromettessero la realizzazione dei suoi piani. Allo stesso scopo, si
liberò anche di un altro potente e illustre ottimato proverbialmente ostile a
tutti e tre i triumviri, Marco Porcio Catone, che venne allontanato da Roma come
propretore a Cipro. Detto «Minor» per distinguerlo dal suo celebre avo Marco Porcio
Catone, questi era peraltro fratello di Servilia Cepione, celebre amante di
Cesare e madre del giovane Marco Giunio Bruto. Una volta copertesi le spalle
dagli individui più pericolosi, per evitare di divenire oggetto di accuse
legali dai suoi avversari, Cesare si appellò con astuzia alla lex Memmia,
secondo cui nessun uomo che si trovava oltre i confini italici con incarichi
per conto della Repubblica potesse subire alcun processo giuridico.
Cesare durante la guerra gallica; |
Raggiunta
nel 58 prima di Cristo la Gallia Cisalpina, la stessa frontiera settentrionale
da cui, secoli prima, erano transitati quei Galli giunti quasi alla conquista
del Campidoglio, e abitata da tribù assai turbolente, il novello condottiero avviò
una campagna di conquista dal fiume Reno fino alle coste atlantiche, che gli
diede finalmente l’ occasione di mettere in luce le sue capacità di condottiero
militare. Coltivò uno splendido rapporto con i suoi legionari, tanto da
divenire il perfetto esempio di autorità sul personale e di arte del comando.
Diede primaria importanza alla forma e all’ esempio, curando in modo
particolare l’ abbigliamento militare in quanto considerava l’ eleganza come un
vessillo ed un chiaro messaggio di potere. Anche alle legioni imponeva armature
finemente cesellate, in un formalismo esaltato anche dal valore dell’ esempio, come
quando rinunciò ad utilizzare il cavallo nelle situazioni pericolose ed imponendo
altrettanto ai suoi tribuni, convinto che soldati e ufficiali dovessero essere
eguali nell’ affrontare i rischi. Sua preoccupazione costante fu poi l’
addestramento: il legionario romano doveva essere un formidabile camminatore ed
un eccezionale zappatore, solo così sarebbero stati possibili movimenti a
velocità doppia rispetto all’ avversario e lavori di fortificazione campale somiglianti
ad opere di ingegneria militare.
Dapprima
fronteggiò gli Elvezi, principalmente nelle battaglie presso Genava, con
parziale vittoria, poi lungo il fiume Arar, dove riportò un buon successo, e
infine a Bibracte, ove riuscì a battere un esercito nettamente superiore al suo.
Terminata la guerra con gli Elvezi, quasi tutti i popoli della Gallia mandarono
ambasciatori a Cesare per congratularsi della vittoria e chiesero di poter
indire, per un giorno stabilito, un’ assemblea di tutta la Gallia. Il
condottiero diede il proprio assenso, e procedette con la campagna senza
perdere tempo. Divenuto ben presto un idolo per le sue legioni, in quanto
parlava sempre con i soldati prima di una battaglia o di un evento importante
per esaltarne lo spirito e per spiegare dettagliatamente lo svolgimento dell’
imminente lotta, rivolse la propria attenzione contro i Germani, comandati dal
condottiero Ariovisto, che si era stabilito in Gallia per fondare un proprio
dominio. Il capo germanico riuscì a circondare i romani e a impedire loro i rifornimenti,
ma Cesare rovesciò la tattica contro di lui, tenendo con sé quattro legioni e
inviandone altre due ad accerchiare gli assalitori. Ariovisto continuò a dare
filo da torcere all’ esercito romano finché Cesare non gli lanciò contro la
cavalleria: i germani fuggirono con difficoltà oltre il Reno, che il condottiero
romano trasformò in quella che sarebbe stata la barriera naturale dei domini
romani per i successivi cinque secoli.
Forte
dei suoi successi, sorprendenti se non addirittura miracolosi data la quasi
costante inferiorità numerica davanti al nemico, l’ erede degli Iuli continuò
ad essere generoso con i suoi uomini, pur pretendendo molto e raccogliendone la
fedeltà e la devozione in lunghi anni di serrato impegno. La vita dei suoi
uomini gli fu sempre cara, pur trascinandoli in imprese eroiche, disperate e
rischiose: «E’ dovere di un capo vincere non meno con il senno che con la
spada.». Dotato di intuito e colpo d’ occhio particolari nell’ individuare il
punto focale per l’ azione, di velocità di pensiero e di azione assolutamente
sorprendenti, unitamente alla costante ricerca della sorpresa, seppe
disorientare ogni suo avversario, e in un periodo in cui le guerre si
svolgevano prevalentemente di giorno e nella bella stagione, si mosse più volte
in pieno inverno per attraversare i teatri di battaglia. Diede molta importanza
all’ individuazione dell’ obiettivo strategico nella distruzione delle forze
avversarie piuttosto che con la conquista del territorio, conveniente specialmente
nel caso di azioni a finalità dimostrative. Fu poi moderno anche per l’ estrema
importanza che attribuiva alla propaganda e all’ immagine: durante le sue
campagne, nelle brevi e convulse soste, riusciva a scrivere e a dettare ad un
suo liberto il resoconto delle operazioni che poi faceva giungere rapidamente a
Roma: nacque il «De bello Gallico», che costituì una vera e propria cronaca in
diretta e in limpidissima prosa degli eventi e fece di lui il primo
corrispondente di guerra.
Poco
dopo, mentre procedeva con l’ occupazione di nuovi territori, Cesare dovette
fare i conti con Vercingetorige, condottiero degli arverni, una numerosa,
influente e agguerrita e popolazione della Gallia centrale. Figlio del nobile
Celtillo, questi riuscì a coalizzare la maggioranza dei popoli gallici e dei
loro comandanti, a dispetto delle radicate rivalità reciproche, cominciando ad
attaccare le truppe romane con operazioni di guerriglia e terra bruciata sempre
più insidiose. Il grande condottiero fronteggiò la rivolta con decisione,
saccheggiando e distruggendo Avarico e Cenabum, ma venne duramente sconfitto a
Gergovia nel 52 prima di Cristo, a causa dell’ indisciplina di una legione che,
anziché rientrare, avanzò fino alle mura della città, mettendosi in serio
pericolo. Tale sconfitta creò seri rischi per l’ esito della guerra gallica, ma
la scelta di abbandonare l’ assedio dopo gli inutili assalti alla città
consentirono a Cesare di inseguire i galli fino ad Alesia, massima roccaforte
dei Mandubi, ove li sospinse astutamente a trincerarsi per poi assediare la
città con due valli, fossati pieni d’ acqua, trappole, palizzate, quasi un
migliaio di torri di guardia a tre piani, ventitré fortini, quattro grandi
campi per le legioni e quattro campi per
la cavalleria, posti in luoghi idonei.
Per
quattro giorni le legioni romane resistettero agli attacchi combinati dei Galli
di Alesia e dell’ esercito accorrente, che il quarto giorno riuscì ad aprire
una breccia nell’ anello esterno, ma fu respinto grazie all’ accorrere prima
del legato Labieno, poi dello stesso Cesare, che riuscì a rintuzzare l’ attacco
nemico al comando della cavalleria germanica e delle truppe di riserva raccolte
lungo il percorso. Il nemico gallico fu accerchiato, con un’ abile manovra
esterna. Era la fine del sogno di unità e indipendenza della Gallia, e Vercingetorige
si consegnò spontaneamente al proconsole romano. I guerrieri di Alesia, così
come i sopravvissuti dell’ esercito di soccorso, furono fatti prigionieri e in
parte venduti come schiavi e in parte ceduti come bottino di guerra ai
legionari di Cesare, ad eccezione dei membri delle tribù degli edui e degli arverni
che furono liberati e perdonati per salvaguardare l’ alleanza di queste
importanti tribù con Roma. Ridotta a provincia, la Gallia entrò a far parte del
mondo romano, dovendo alla Città eterna e a Cesare non solo l’ ingresso nell’ orbita
della civiltà mediterranea, ma anche la salvezza e la conservazione di quegli
elementi celtici che l’ Urbe rispettò costantemente, in una grande opera che avrebbe
dato all’ Europa occidentale l’ indelebile impronta latina e determinarne per
secoli il pensiero e l’ azione.
La resa di Vercingetorige di fronte a Cesare; |
Nel
50 prima di Cristo, dopo aver sedato le ultime rivolte galliche, soprattutto
quelle i biturigi e i bellovaci, la guerra gallica poté definirsi finalmente
conclusa, e Cesare decise di tornare a Roma, dove però erano cambiate molte
cose. La morte di parto di Giulia, figlia di Cesare e moglie di Pompeo, aveva
allentato il legame tra i due triumviri, mentre Crasso era caduto a Carre, in
Mesopotamia, nella guerra contro i Parti. La gloria conquistata da Cesare in
Gallia divenne motivo di viva preoccupazione per il Senato, che ne temeva il
ritorno in patria, caduta nel disordine politico a causa degli scontri tra
bande armate fomentate dal tribuno della plebe Publio Clodio e dal patrizio
Annio Milone.
Il
rispettato consesso dei patres si
affidò pertanto a Pompeo, nominandolo in via straordinaria console senza
collega, e Cesare si candidò prontamente al consolato. I senatori gli fecero
sapere che la candidatura sarebbe stata accettata a patto che congedasse le
legioni e rientrasse a Roma come privato cittadino: il condottiero intuì il
pericolo che ne sarebbe derivata per la propria vita e rispose che avrebbe
acconsentito se anche Pompeo avesse sciolto le legioni in Italia e rinunciato a
quelle che comandava in Spagna. Il Senato rispose con un decreto con cui Cesare
venne considerato nemico dello Stato, da combattere affinché cessasse di
mettere in pericolo la Repubblica. Tre giorni dopo, il 10 gennaio del 49,
Cesare si rivolse ai soldati che avevano combattuto con lui in Gallia e al
comando di una legione non esitò a varcare il Rubicone, fiume che segnava il
confine tra Gallia e Italia, violando la legge che impediva ai generali di
entrare in Italia con l’ esercito come a suo tempo aveva fatto Silla,
pronunciando la celebre frase: «Il dado è tratto!». A Roma era scoppiata la
seconda guerra civile.
Cesare si prepara a varcare il Rubicone; |
Scossi
dalla notizia della nuova marcia su Roma e dalla fulminea avanzata di Cesare, a
cui andarono incontro vecchi e nuovi sostenitori, Pompeo fuggì dalla Città
eterna insieme ad un gran numero di senatori, tra cui Gaio Cassio Longino e lo
stimato Bruto, e si stabilì in Grecia per preparare una risposta militare
adeguata. Una volta presa l’ Itala, Cesare andò in Spagna, e dopo un breve ma
durissimo scontro sbaragliò le forze locali dell’ avversario. Poi, un anno
dopo, si recò a Farsalo, in Tessaglia, dove ottenne una grandiosa vittoria
contro le legioni del genero. Perdonò i prigionieri, tra i quali vi erano
Cassio e Bruto, e li liberò, e una volta saputo che Pompeo si era diretto in
Egitto per ottenere l’ aiuto del giovane faraone Tolomeo XIV, appena
tredicenne, lo inseguì rapidamente.
Sbarcato
in Egitto, tuttavia, il grande condottiero ebbe una brutta sorpresa: i
dignitari del sovrano lo accolsero con tutti gli onori e gli presentarono la
testa mozzata di Pompeo, sperando di ingraziarsi il vincitore. Fu un calcolo
sbagliato, perché invece Cesare rimase profondamente colpito e contrariato
dalla tragica fine del grande avversario, e montò su tutte le furie: si disse
che avrebbe voluto perdonarlo pur ridimensionandone il potere e tenendolo
sempre d’ occhio, ricordando quanto in passato si fossero aiutati, e che lo
rimpianse amaramente chiamandolo concittadino e genero. Tuttavia, in molti
sospettarono che la corte egizia avesse semplicemente fatto il lavoro sporco al
posto suo, permettendogli di passare per il vincitore clemente a cui era stata negata l’ opportunità di favorire la pace per il bene supremo della
patria. Proprio in quel momento, però, fece un incontro destinato a mutare per
sempre la sua vita: un servitore egizio chiese di essere ricevuto per potergli
offrire un dono, un tappeto raffinato che srotolò ai suoi piedi svelando una
giovane e bella donna, Cleopatra VII, sorella e consorte di Tolomeo, in lotta
con lui per il controllo definitivo del trono dei faraoni. Il potente romano ne
rimase folgorato, e se ne innamorò perdutamente: lei aveva vent’ anni, lui era
sulla cinquantina. Fu così che decise di inserirsi nelle tortuose vicende
dinastiche egizie, favorendo la caduta di Tolomeo e consolidando la posizione
di Cleopatra, con cui intraprese una relazione intensa da cui nacque un figlio,
Tolomeo Filopatore Filometore Cesare, meglio noto come Cesarione, ossia «piccolo Cesare».
L’ incontro con Cleopatra; |
Dopo
lunghi mesi trascorsi a godere delle meraviglie storiche e architettoniche
nonché dei numerosi e sconfinati sfarzi d’ Egitto e persino di una crociera
lungo il Nilo insieme alla potente e affascinante amante, discendente in linea diretta di Tolomeo, uno dei più stretti luogotenenti di Alessandro Magno, alla cui morte si era preso il regno d’ Egitto divenendone ufficialmente faraone, nell’ estate del 47 prima di Cristo Cesare partì per l’ Asia
Minore, dove sconfisse Farnace, figlio di Mitridate, colpevole di essersi
sollevato contro Roma, mentre in autunno, con la battaglia di Tapso, sconfisse
i resti delle forze pompeiane sopravvissute a Farsalo. Nella primavera del 46,
infine, rientrò alla Città eterna come trionfatore: la città lo accolse
tributandogli ovazioni, acclamandolo come un grande eroe che aveva beneficiato
il caput mundi più di ogni altro uomo venuto prima di lui. Impegnato in
numerose opere di riforma, appena un anno dopo partì nuovamente alla volta di
Munda, in Spagna, ove sconfisse una volta per tutte i figli di Pompeo, che
avevano raccolto attorno a sé gli ultimi seguaci rimasti e scampati a Tapso.
Ormai
padrone assoluto dello Stato, Cesare sorprese l’ intera Urbe in quanto non si
vendicò dei propri nemici come invece avevano fatto Mario e Silla. Un’ ansia di
realizzare le sue iniziative prese a divorarlo come un presentimento. Perdonò
gli avversari, richiamò in patria gli esuli politici, premiò con terre e denaro
i legionari, distribuì beni di prima necessità ai poveri, ridusse l’ impiego
degli schiavi per aumentare le possibilità di impiego ai disoccupati, organizzò
grandiosi spettacoli pubblici e colossali banchetti per il popolo. Abbellì la
città, bonificò le Paludi Pontine e fondò nuove colonie in cui molti cittadini
si trasferirono accentuando la romanizzazione di molti territori della
Repubblica. Estese la cittadinanza a insegnanti e medici stranieri, favorendo
l’ afflusso di intellettuali in città, e aumentò il numero dei funzionari dello
Stato per migliorarne l’ amministrazione. La grande distribuzione delle terre
permise la rinascita del ceto dei coltivatori, tanto prezioso per lo sviluppo
delle campagne. Non abolì le magistrature, ma fece in modo che venissero
attribuite a lui, divenendo di fatto un sovrano assoluto: coprì nuovamente il
ruolo di console, preservò quello di comandante militare, e pur non essendo tribuno
della plebe assunse alcune prerogative della carica come l’ inviolabilità e il
diritto di veto. La sua posizione quale Pontefice massimo dava peraltro alla
sua autorità un valore sacro. Posizionò i propri uomini nei posti principali
della Repubblica, in modo tale da consolidare la propria posizione e
assicurarsi che la sua grande visione politica divenisse realtà. Frenò la
bramosia dei governatori delle provincie controllandone i poteri e diminuendo
la durata dell’ incarico, promosse l’ incremento delle nascite premiando le
famiglie numerose e favorì interventi a vantaggio dei lavoratori agricoli,
riducendo il numero degli schiavi e fondando colonie ove avviò numerose opere
pubbliche. Varò anche una riforma del calendario, che considerava un
particolare simbolo del potere: tale miglioramento ebbe un solido fondamento
scientifico perché raccordava i cicli lunari e solari. Il precedente calendario
risaliva a Numa Pompilio, e prevedeva trecentocinquantacinque giorni e l’
inserimento non regolato da norme precise di un mese intercalare. Cesare
introdusse l’ attuale anno di trecentosessantacinque giorni e ne impose l’
adozione in tutti i possedimenti romani, in sostituzione dei tanti e bizzarri metri
locali. Il calendario giuliano, nella sua genialità, sarebbe rimasto invariato
fino al successivo aggiustamento del 1582 con papa Gregorio XIII. Pur senza mai
tralasciare gli ideali di democrazia che lo sospingevano fin dalla giovinezza,
ormai ebbro di potere e gloria prese a comportarsi sempre più spesso da sovrano
assoluto, denotando sempre più spesso sentimenti di durezza che sfociavano in
avvenimenti quotidiani spiacevoli e mortificanti: irritabilità, presunzione e
scortesia si sostituirono rapidamente alla proverbiale generosità e signorilità
che negli anni la gente aveva imparato ad amare in lui. Forse le tare epilettiche
si erano fatte più gravi. Invitò e accolse con tutti gli onori Cleopatra e
Cesarione, tra il risentimento della popolazione per nulla attratta dai fasti
orientali e l’ umiliazione della moglie Calpurnia, che incontrando
personalmente la grande rivale rimase mortificata soprattutto per il fatto di
non aver dato figli al legittimo consorte.
Alto,
prestante e atletico, l’ età non aveva compromesso la vitalità e l’ avvenenza
del grande discendente di Enea e Romolo, se non con la calvizie, un fatto che
non riuscì mai ad accettare e che mascherò con vistose corone di alloro,
tradizionale simbolo di vittoria e potere.
Marco Giunio Bruto; |
Tra
gli ottimati, frattanto, serpeggiava il malcontento. Cesare era divenuto di
fatto un oppressore che aveva accentrato tutto il potere nelle proprie mani,
approfittando delle divisioni interne e delle guerre civili. La Repubblica era
stata concepita come un’ assicurazione di libertà data da un governo
collegiale, come un sistema equo in cui il potere fosse detenuto entro certi
limiti e per un periodo temporaneo: Cesare ne aveva smascherati i limiti e li
aveva sfruttati per la propria ascesa. Da sempre fiero di essere discendente di
dei e re, non faceva mistero sul fatto di ritenere la Repubblica il sistema
ideale per Roma quando ancora era una tranquilla città-Stato: ora le cose erano
cambiate, bisognava tornare al potere di uno solo. Il ritorno della monarchia,
tuttora inammissibile agli occhi dei romani, era un pericolo più che mai
inquietante.
Il
14 febbraio del 44 prima di Cristo, il Senato votò a maggioranza la nomina di
Cesare a dittatore a vita, carica che di fatto legittimò i pieni poteri fino
alla morte. Ma il senatore Cassio, ardente repubblicano, cominciò a muoversi
contro di lui, e convinse alcuni senatori a unirsi nella lotta contro l’ uomo
che voleva essere re. Si diffuse presto la voce che l’ oppressore volesse
essere incoronato ufficialmente come nuovo sovrano, ma potevano essere soltanto
dicerie opportunamente diffuse dai congiurati al fine di giustificare la
propria causa. Di certo, Marco Antonio gli aveva già offerto la corona in
pubblico, in parte per omaggiarlo e in parte nel desiderio di divenire suo
erede al trono, ma Cesare aveva rifiutato. Il gruppo di senatori dissidenti, che
di giorno in giorno aumentava, ebbe l’ appoggio entusiastico di Cicerone, e
ottenne grande lustro con la partecipazione di Bruto, cittadino molto ammirato
per la sua virtù e assai amato da Cesare, da cui era stato adottato come
figlio, al punto che in molti mormoravano che fosse suo figlio naturale.
Ironicamente, il giovane e ammirato aristocratico era discendente diretto di
quel Lucio Giunio Bruto che aveva fondato la Repubblica dopo aver scacciato il
disonorevole zio Tarquinio il Superbo: per le strade della città si sarebbe
senz’ altro detto che con la partecipazione di un così ammirevole uomo la causa
contro Cesare non poteva altro che essere buona e giusta. Dopo intense
discussioni, si decise di uccidere il dittatore a vita, e si scelse di agire durante
la seduta del Senato prevista il 15 marzo presso la Curia di Pompeo, uno dei
tanti luoghi dove il consesso si radunava. Sarebbe stato il momento migliore
per colpirlo, in quanto presto sarebbe partito alla volta di una nuova impresa
bellica, un progetto grandioso e superiore ad ogni immaginazione con cui
avrebbe oscurato anche la fertile fantasia del suo grande idolo, Alessandro
Magno: la conquista della Partia, con cui avrebbe vendicato la sconfitta di
Carre e la morte Crasso. Vinti i Parti, attraverso il Caucaso avrebbe raggiunto
da Oriente i territori dei Germani per sottometterli definitivamente, in una
manovra grandiosa e così ampia da oscurare le gesta di Alessandro. Pur vedendo
determinati segnali nel corso delle settimane, il grande signore della Città
eterna non riconobbe il nuovo grande nemico che stava attualmente prendendo
corpo, ossia quello spirito repubblicano che si era consolidato nelle difficili
situazioni dei cinque secoli precedenti della storia romana. Abbagliato com’
era dallo splendore della gloria e dei trionfi in battaglia, stordito dalle
adulazioni e dalle piaggerie, Cesare non ebbe sentore della minaccia che si
stava lanciando contro di lui, ma secondo alcuni vi si sarebbe abbandonato
coscientemente mosso da una crescente vena fatalista.
Il
mattino del 15 marzo, dopo aver confidato nei giorni precedenti a un caro amico
di desiderare una morte rapida e improvvisa, era assai turbato: sua moglie
Calpurnia aveva avuto un sogno premonitore e lo scongiurava di non uscire di
casa, mentre gli indovini avevano fatto sapere di aver compiuto alcuni
sacrifici il cui esito era nefasto. Il saggio Spurinna, uno dei loro più
autorevoli esponenti, gli aveva detto chiaramente di guardarsi dalle Idi di
marzo. Sulle prime, pensò di mandare Marco Antonio, il suo migliore amico e
fidato luogotenente durante la guerra gallica, ad annullare la seduta prevista,
ma i congiurati inviarono a casa sua Decimo Bruto per convincerlo a presentarsi
in Senato, dal momento che i delegati lo stavano già aspettando: non si poteva
annullare la seduta senza mancare loro di rispetto. Il condottiero diede
ascolto a Decimo, che reputava un fedele amico, tanto da averlo nominato suo
secondo erede nel testamento, e alle undici del mattino si mise in cammino fino
alla Curia, senza la scorta di soldati ispanici che aveva sciolto poco tempo
prima: solo i senatori e i suoi dignitari erano la sua «guardia».
Appena
sedette, i congiurati lo circondarono come per rendergli onore, e uno di loro
lo afferrò per la toga dando il segnale convenuto: la prima pugnalata lo colpì
alla gola. Tentando di alzarsi in piedi, Cesare reagì afferrando il braccio
dell’ assalitore e trapassandolo con l’ arma, ma venne presto colpito da tutte
le parti, e volendo morire con dignità si coprì la testa con la toga,
distendendola fino ai piedi e sopportando ogni colpo in silenzio, cadendo a
terra agonizzante, ai piedi della statua di Pompeo. Mentre i senatori fuggivano
spaventati e i congiurati ancora armati si riversarono nel Foro inneggiando
alla libertà, Bruto gli diede il colpo fatale, all’ inguine, guardando la sua
vittima morire dicendo:
«Anche
tu, Bruto, figlio mio…».
L’ uccisione di Cesare; |
I
congiurati lasciarono il luogo del delitto convinti di aver salvato la
Repubblica e ristabilito appieno le sue funzioni. La notizia dell’ assassinio
si sparse rapidamente per l’ Urbe, e tre schiavi deposero pietosamente il
cadavere su di una lettiga, riportandolo a casa. La capitale del mondo si fece
deserta, tra negozi chiusi, strade vuote e la gente trincerata in casa.
Nonostante i tentativi di Bruto, la calma non tornò e i congiurati scelsero di
ritirarsi in un luogo sicuro. Qualcuno decise addirittura di unirsi agli
assassini sperando di trarne vantaggio, pur non avendo partecipato ai fatti. Il
successivo 20 marzo si tennero i funerali di Cesare, che venne cremato nel
Foro. Gli assassini avevano inizialmente pensato di gettare il corpo nel Tevere
subito dopo l’ assassinio, ma molti senatori, spaventati da quanto accaduto,
erano immediatamente fuggiti. All’ estremo onore partecipò una folla commossa,
e Marco Antonio pronunciò una toccante orazione funebre. Il defunto venne
gloriosamente annoverato tra gli dei, e mentre il giovane Gaio Ottaviano, suo
pronipote, figlio adottivo e principale erede testamentario, celebrava i primi
giochi in suo onore, una cometa splendette per una settimana nei cieli: il suo
spirito era stato accolto in cielo.
Dopo
la morte di Cesare, la Repubblica fu sconvolta da tredici anni di guerra civile.
Nessuno dei suoi assassini sopravvisse più di tre anni, e nemmeno morì di cause
naturali: sconfitti da Antonio e Ottaviano a Filippi, Cassio si uccise con lo
stesso pugnale usato contro Cesare, mentre Bruto si gettò sulla propria spada.
Marco Antonio raccolse l’ eredità politica di Cesare e si innamorò di
Cleopatra: quando si mossero contro Roma per fare di Alessandria d’ Egitto il
nuovo centro del mondo, Ottaviano divenne il nuovo idolo del Senato e si mosse
contro di loro. Sconfitti in battaglia, i due amanti si uccisero, lui con un
colpo di spada e lei con il morso di un serpente. Cesarione venne ucciso per
ordine di Ottaviano, che a quel punto compì il sogno di Cesare di instaurare l’
Impero, un sistema monocratico di tipo monarchico ma mascherato da Repubblica,
assumendo il nome di Cesare Augusto.
Gaio Ottaviano, pronipote ed erede di Cesare; |
Dopo
oltre duemila anni dalla sua venuta, di Cesare si può tranquillamente affermare
che abbia raggiunto il proprio desiderio di gloria, potere e, soprattutto, di
immortalità. Ancora oggi, ognuno ha una propria immagine di questo personaggio
dal temperamento vasto e dal genio poliedrico: il suo stesso nome è tuttora
sinonimo di potestà imperiale, ad esso risalgono etimologicamente le
denominazioni come zar e kaiser, così come fu sempre indicata con il nome di «cesarismo»
qualunque monarchia non legittima sostenuta dalle armi e dal popolo, come
quella incarnata da Napoleone I e suo nipote Napoleone III, suoi grandi
ammiratori. Nemmeno il dittatore italiano Benito Mussolini seppe resistere al
suo fascino e al desiderio di imitarlo. C’ è chi lo vede come un conquistatore
o il fondatore di un nuovo ordine, un condottiero temerario, un elegante
scrittore, un capo di Stato clemente e generoso oppure il freddo e subdolo
artefice di un piano sottile e tortuoso per abbattere la Repubblica. Con una
certa sicurezza si può affermare che sia stato tutte queste cose insieme: fu un
prisma le cui molte facce presentarono ciascuna una realtà diversa dalle altre,
ognuna delle quali nascondeva il mistero di un uomo che giunse relativamente
tardi alla fama dopo aver trascorso anni in mezzo ai loschi traffici della
politica e che alla fine, ottenuto il potere dopo esaltanti vittorie a cocenti
sconfitte, proprio sul momento di instaurare una nuova monarchia universale si
lasciò dominare da un inspiegabile senso di fatalità che lo fece cadere per
mano degli avversari. Ma in mezzo a tutti questi interrogativi, quella che
emerge senza ombra di dubbio è la figura complessa di un uomo capace di
affascinare amici e nemici e di lasciare un’ impronta duratura nella storia,
dando vita ad una costruzione politica che ha travalicato i secoli. Come non
fare i conti con il Divo Giulio?
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