«Suggello infrangibile dell’ unità italiana.» Re Umberto
I d’ Italia riferendosi a Roma;
La
Rivoluzione italiana, meglio nota come Risorgimento, fu il vasto e articolato movimento
politico, culturale e sociale che promosse il ritorno dell’ Italia in un’ unica
nazione, sulla base di ideali politici e sociali ma anche romantici,
nazionalistici e patriottici in parte sorti nel Seicento e in parte era
napoleonica, influenzati dai valori fondamentali della Rivoluzione francese che,
seppur crudelmente e sanguinariamente, posero fine al vecchio e incipriato Ancien Régime retto da un’ aristocrazia
codina e imbellettata in favore di
una forma statale più ampia tanto cara ad un nuovo ceto in forte ascesa, la
borghesia, orientata ad un senso nazionale più moderno in ambito mercantile ma
anche culturale ed artistico.
Culminata
il 17 marzo 1861 con la proclamazione del Regno d’ Italia, la Riunificazione,
che in realtà si completò propriamente soltanto cinquantanove anni dopo, con l’
annessione del Trentino-Alto Adige e del Friuli-Venezia Giulia a seguito della
legge numero 1322 del 26 settembre 1920, che approvò il Trattato di pace di San
Germano del 10 settembre 1919 fra Italia e Austria, che aveva perduto la Grande
Guerra, conobbe da subito enormi difficoltà, soprattutto in ambito
amministrativo, politico, diplomatico ed economico, dalle numerose e non
semplici soluzioni possibili. Il governo del neonato Belpaese venne chiamato a
far collimare le profonde differenze tra gli italiani, che fino all’ avanzata
di Casa Savoia dagli originari domini subalpini erano vissuti in dieci Stati
direttamente o indirettamente legati alla Monarchia asburgica, complici il
fatto che erano divenuti parte integrante dei suoi domini ereditari, come il Regno
Lombardo-Veneto, e gli accordi diplomatici e militari come nel caso dello Stato
pontificio e del Regno delle Due Sicilie. Nel quarantennio dal 1861 in poi, amministrare
l’ Italia significava impegnarsi ad amalgamare una Penisola che dal 4 settembre
476 dopo Cristo, in seguito al crollo dell’ Impero romano d’ Occidente, era rimasta
divisa sotto tutti gli aspetti, tra usi e costumi, leggi e assetti politici,
dialetti e persino pregiudizi reciproci. Un’ impresa tutt’ altro che facile e
che spesso non trovò valide soluzioni, tanto che al marchese Massimo Taparelli d’
Azeglio venne attribuita la celebre frase: «L’ Italia è fatta, gli Italiani
sono da farsi.».
In
questo periodo di faticosi assestamenti ebbe luogo il regno di Umberto I, il «Re
Buono». Figlio e successore di Vittorio Emanuele II, primo Re d’ Italia, la sua
era fu caratterizzata da svariati eventi che generarono opinioni e sentimenti
opposti. Severo e misurato, dal profilo e dalla mentalità essenzialmente
militareschi, dopo il padre fu il secondo sovrano di Casa Savoia a non regnare
per diritto divino, riconoscendo il carattere parlamentare del sistema politico
italiano e non presiedendo il Consiglio dei ministri, limitandosi a riceverne
il Presidente e, sentitone il resoconto, a firmare i decreti. Ricordato
positivamente per l’ atteggiamento dimostrato dinnanzi a sciagure come l’ epidemia
di colera a Napoli del 1884, prodigandosi personalmente nei soccorsi, e per la
promulgazione del codice penale italiano del 1889, una tappa fondamentale che
apportò importanti innovazioni come l’ abolizione della pena di morte, fu
altrettanto duramente criticato per il rigido conservatorismo e autoritarismo, inaspritisi
negli ultimi anni del suo regno, l’ indiretto coinvolgimento nello scandalo della
Banca Romana e l’ avallo alle repressioni dei moti popolari del 1898 con la
conseguente onorificenza concessa al generale Fiorenzo Bava Beccaris per la
sanguinosa azione di soffocamento delle manifestazioni a Milano. Si sforzò per
tutta la vita di impersonare davanti al popolo l’ autorità e di rappresentare
il neonato Regno dando un’ immagine salda eppure garbata, formale e decorosa che
contribuisse all’ unità nazionale sul piano non solo istituzionale ma anche e
soprattutto simbolico, mentre la moglie, la popolare e distinta Regina
Margherita, seppe raccogliere intorno alla Corona le più alte personalità
culturali e artistiche del tempo, assicurando una mediazione con l’ «aristocrazia
nera», quella parte della nobiltà romana rimasta fedele al papato dopo la presa
di Roma, e con gli ambienti rimasti leali alle ormai decadute casate reali
dell’ Italia preunitaria, soprattutto i Borbone delle Due Sicilie.
Monarca
di un Paese appena unito, nel quale nulla era scontato e in ogni momento si
tentava faticosamente di consolidare una coesione politica, sociale e culturale,
regnò per ventidue anni turbolenti sulla base di concetti quali conformismo e
continuità, oltre che su virtù considerate classiche quali il valore
patriottico, civile e nazionale che trovarono ampia esaltazione ne «I promessi
sposi», magnum opus di Alessandro
Manzoni che proprio in quegli anni godette di tanta popolarità da divenire il
romanzo italiano per eccellenza.
Il piccolo Umberto con la madre;
Umberto
Rainerio Carlo Vittorio Emanuele Giovanni Maria Ferdinando Eugenio di Savoia nacque
il 14 marzo 1844 a Torino, figlio di Vittorio Emanuele, allora erede al trono subalpino
e che quello stesso giorno compiva ventiquattro anni, e da Maria Adelaide d’
Asburgo Lorena. I genitori erano cugini primi. Nonostante l’ amore che legava
Maria Adelaide a suo marito, e il sincero affetto che lui nutriva per lei,
Vittorio Emanuele ebbe infinite relazioni adulterine, una più spettegolata
dell’ altra. Nato sotto ottimi auspici in quanto la successione al trono era
garantita per un’ altra generazione, venne battezzato con il nome del fondatore
del casato sabaudo, Umberto Biancamano, Conte di Moriana vissuto a cavallo
dell’ anno 1000, che come lui in seguito sarebbero stati chiamati altri due
signori della stessa dinastia, mentre l’ ultimo, Eugenio, era a ricordo del più
illustre esponente del ramo cadetto dei Savoia Carignano cui apparteneva, Eugenio
di Savoia Carignano Soissons, condottiero e diplomatico al servizio degli
Asburgo d’ Austria. Ricevette il titolo di Principe di Piemonte, tipico dei principi
ereditari del Regno di Piemonte e Sardegna. Trascorse i primi anni al castello
di Moncalieri, affettuosamente vigilato dalla madre, e crescendo, insieme al
fratello Amedeo, primo Duca d’ Aosta e nato circa un anno dopo di lui, ebbe un’
educazione prevalentemente militare secondo le consuetudini di Casa Savoia. Il
giovanissimo Umberto era molto legato alla madre, una donna assai religiosa da
cui aveva ereditato i tratti somatici, specie le labbra spesse e cascanti.
Continuamente tradita dal marito, un allegro donnaiolo che generò una quantità
non calcolata ma piuttosto abbondante di figli illegittimi, quando era a
Moncalieri si faceva chiudere a chiave in uno stanzino di un paio di metri
quadrati con inginocchiatoio e crocifisso con l’ ordine di non aprire fino a
una determinata ora: dopo qualche minuto cominciava a singhiozzare e a urlare.
Respirando tale atmosfera infelice, il giovane Principe di Piemonte finì con il
maturare un carattere freddo e compassato, molto regale e profondamente diverso
da quello del padre, che era piuttosto passionale, cordiale ed espansivo, spavaldo
e brusco nei modi ai limiti della zotichezza. Un genitore che, come gli
esponenti delle passate generazioni di Savoia prima della sua, rispettava e nel
quale vedeva innanzitutto il signore della dinastia e il Re, ma che non amava e
ai cui occhi sapeva di rappresentare il successore prima che il figlio. Maria
Adelaide ad un certo punto cominciò a perdere dapprima i capelli e poi i denti,
sentendosi poi costantemente febbricitante, quasi incapace di reggersi sulle
gambe. Il suo volto, divenuto pallido e smunto, si riempì di precoci rughe
mentre la voce si arrochì e l’ espressione si spense. Ormai disinteressata a
quanto la circondava, smise di vestirsi, andando in giro in vestaglia e
bigodini finché non morì a seguito di una gastroenterite il 16 gennaio 1855,
mentre si trovava in carrozza, di ritorno alla reggia dopo aver assistito al
funerale della suocera Maria Teresa d’ Asburgo Toscana. L’ agonia fu atroce,
tanto che i suoi gemiti si udivano nella vicina piazza, e il marito Vittorio
Emanuele, a conferma della sua benevolenza, rimase inchiodato al capezzale tenendole
la mano fino all’ ultimo respiro. Pochi giorni prima, l’ 8 gennaio, al termine
della sua ottava e tormentatissima gravidanza, aveva partorito Vittorio
Emanuele Leopoldo, che a sua volta morì il successivo 16 maggio.
Vittorio Emanuele II e famiglia;
Il
principe Umberto, che aveva non ancora compiuto undici anni, rimase
profondamente segnato da questo lutto, ma in famiglia nessuno se ne curò in
tono con le tipiche relazioni famigliari all’ interno della famiglia reale,
condizionate da una severa formalità che non favoriva gli slanci affettuosi
specialmente nel caso dell’ erede al trono, che soleva avere precettori severi
chiamati a forgiare un futuro Re e comandante in capo delle forze armate e che
pertanto lo trattavano con inflessibilità affinché imparasse ad essere un
esempio per la sudditanza, pronto a fare egli stesso ciò che avrebbe richiesto
agli altri. La sua istruzione venne affidata al generale Giuseppe Rossi e altri
insegnanti tra cui altri militari, e fu completata da svariati viaggi all’ estero,
sempre sotto l’ occhio attento dei precettori. La rigorosa disciplina lo modellò
caratterialmente, e negli anni fece di lui un uomo definito leale, aperto,
gentile e cordiale, sebbene qualcuno lo descrisse come una persona arida e
dalle idee limitate. Si dedicò con passione alla caccia e ai viaggi presso le
corti del suo tempo, ove conobbe personalmente i suoi pari, iniziando a tessere
relazioni e sviluppando quelle doti diplomatiche che gli sarebbero sempre state
riconosciute.
In
quel tempo, il Regno di Piemonte e Sardegna era attivamente coinvolto nella
guerra contro l’ Impero austriaco al fine di unificare l’ Italia sotto la
propria Corona. Da una parte, Casa Savoia perseguiva un proprio interesse
espansivo, giocando sullo scacchiere internazionale legandosi ora a questo e
ora a quest’ altro potentato, superando i rischi derivanti dall’ essere signora
di un piccolo territorio di passaggio nel mezzo tra grandi forze politiche e
militari, ma dall’ altra intuì con acume quanto la borghesia fosse un ceto
ormai in ascesa a discapito dell’ ormai antiquata aristocrazia imparruccata e
incipriata, avanzando su precisi interessi politici ed economici che superavano
la condizione dello Stato patrimoniale, demanio delle dinastie regnanti per
diritto divino, dando vita ad un più ampio mercato nazionale in cui sviluppare
le attività produttive e commerciali, accedendo ad un ruolo di classe dirigente
politica e confermando il passaggio all’ assetto costituzionale e parlamentare:
occorreva quindi estendersi in uno Stato nazionale, come tutte le tendenze
europee del tempo ormai pensavano. Dopo la concessione dello Statuto Albertino
nel 1848, enorme passo avanti che aveva fatto del regno subalpino una Monarchia
costituzionale di stampo liberale, Re Carlo Alberto, padre di Vittorio
Emanuele, era disceso in campo contro gli austriaci che dominavano il Regno
Lombardo-Veneto, ma a seguito delle sconfitte nella battaglia di Custoza e di
Novara aveva abdicato nel 1849. Ora, una decina di anni dopo, pareva che le
cose si rendessero favorevoli ai Savoia. Il Presidente del Consiglio, il Conte
Camillo Benso di Cavour, che aveva ritenuto necessario rafforzare l’ alleanza
con il Secondo Impero francese, retto da Napoleone III, combattendo al suo
fianco nella guerra di Crimea, iniziata nel 1853 e terminata nel 1856 con la
vittoria della coalizione e il congresso di Parigi. La vicinanza alla Francia
consentì al Conte di Cavour di incontrare nella notte tra 20 e il 21 luglio
1858 l’ Imperatore dei Francesi per concordare il futuro assetto geopolitico
della penisola italiana in quelli che sarebbero stati chiamati gli accordi di
Plombières. In seguito a un possibile attacco da parte degli uastriaci, Casa
Savoia avrebbe ottenuto il Regno Lombardo-Veneto, i ducati dell’ Emilia e la
Romagna pontificia unificandoli sotto la propria Corona in un Regno che avrebbe
compreso l’ Italia settentrionale. La Francia avrebbe invece guadagnato la
Savoia e Nizza, domini tradizionale del casato sabaudo, creando uno Stato in
Italia centrale composto dal Granducato di Toscana e dalle restanti province
dello Stato Pontificio, ad eccezione di Roma che sarebbe rimasta al Santo Padre,
che sarebbe stato guidato almeno temporaneamente dalla Duchessa di Parma, Luisa
Maria di Borbone, un personaggio molto gradito a Napoleone III che aveva
bisogno a scopi di politica interna di dimostrarsi non avverso all’ antica famiglia
reale francese. Sorte analoga sarebbe toccata al Regno delle Due Sicilie, che sarebbe
rimasto sotto la guida del sovrano in carica, Ferdinando II: se costui si fosse
ritirato, l’ Imperatore avrebbe visto con piacere salire sul trono di Napoli il
proprio cugino, Luciano Murat, figlio di Gioacchino. Questi Stati italiani
avrebbero formato una confederazione sul modello della Confederazione germanica
della quale si sarebbe data la presidenza onoraria al papa.
Gli
austriaci attaccarono il 27 aprile 1859, al rifiuto del Regno di Piemonte e
Sardegna di smobilitare l’ esercito: iniziava la Seconda guerra d’ indipendenza
italiana. Umberto, che nel marzo di un anno prima, ad appena quattordici anni, aveva
intrapreso la carriera militare con il grado di capitano, fu coinvolto nel
nuovo conflitto. Fece il proprio dovere, arrivando a distinguersi nella
battaglia di Solferino e San Martino, il celebre scontro del 24 giugno 1859 che
vide una clamorosa sconfitta dell’ Austria che con essa perse la guerra e la
Lombardia. I progetti iniziali concordati a Plombières naufragarono però a
causa della decisione di Napoleone III di uscire dalla lotta armata, siglando
l’ armistizio di Villafranca con l’ Imperatore Francesco Giuseppe I d’ Austria,
volendo evitare il pericolo che la disputa si allargasse all’ Europa centrale.
I piemontesi acquisirono pertanto la sola Lombardia. In seguito scoppiarono
rivolte in Emilia, Romagna e Toscana, e il piano di un’ Italia confederale
venne meno anche a causa dell’ opposizione di Giuseppe Garibaldi, il famoso
condottiero e rivoluzionario mosso da ideali patriottici, dei mazziniani e
anche di quella di Francesco II delle Due Sicilie, che rifiutò una proposta di
alleanza del Regno di Piemonte e Sardegna non volendo partecipare a un comune
attacco allo Stato Pontificio, spartendo poi i territori appartenenti al papa.
Nel 1860 il Ducato di Parma e Piacenza, quello di Modena e Reggio e il
Granducato di Toscana e la Romagna pontificia votarono un plebiscito per l’
unione con il regno dei Savoia. Nello stesso anno, con la vittoria della
spedizione dei Mille capeggiata da Garibaldi, il Regno di Piemonte e Sardegna
annetté i territori del Regno delle Due Sicilie, e in seguito vi aggiunse le
Marche, l’ Umbria, Benevento e Pontecorvo, domini pontifici. Tutti questi
territori furono inglobati ufficialmente al Regno tramite plebisciti ratificati
dal Parlamento e pubblicati sulla gazzetta ufficiale del 26 dicembre 1860.
In
seguito, al culmine di questa vasta e intensa campagna militare e diplomatica
senza esclusione di colpi, il Parlamento Subalpino si riunì in seduta plenaria
il 17 marzo 1861 e proclamò la nascita del Regno d’ Italia con la Legge 4671,
presentata in Senato dal Conte Camillo Benso di Cavour, e che dal successivo 21
aprile divenne la prima del nuovo Stato: Re Vittorio Emanuele II assumeva
quindi per sé e per i propri discendenti e successori il titolo di Re d’
Italia. Dal punto di vista istituzionale e giuridico, l’ Italia assunse la
struttura e le norme del vecchio Regno di Piemonte e Sardegna, divenendo una
Monarchia costituzionale con lo Statuto Albertino come carta costituzionale. Il
Re nominava il governo, che sarebbe stato responsabile dinnanzi a lui e non al
Parlamento, e avrebbe custodito per sé prerogative in politica estera mentre,
per consuetudine, avrebbe scelto i ministri militari della Guerra e della
Marina. Il diritto di voto era attribuito, secondo la legge elettorale piemontese
del 1848, in base al censo: in questo modo gli aventi diritto al voto
costituivano appena il due percento della popolazione. Le basi del nuovo regime
erano quindi assai ristrette, conferendogli una certa fragilità.
Il Principe di Piemonte in giovane età;
Umberto
divenne quindi erede al trono di un Regno nuovo. Un giorno gli si sarebbero
prospettate numerose questioni assai delicate che avrebbero richiesto tutta la
sua attenzione e quella dei suoi futuri governi, ma per ora i suoi doveri erano
soprattutto come ufficiale dell’ esercito, lasciando le questioni politiche al
padre e ai suoi ministri in rispetto al principio secondo cui in Casa Savoia si
regnava uno alla volta, rigidamente osservato da tutte le generazioni di
principi ereditari prima di lui. Spesso in visita a Milano, nei cui salotti e
ambienti nobiliari si sentiva ampiamente a proprio agio a differenza del genitore
che prediligeva trattorie, cascinali contadini e casini di caccia, nel febbraio
1862, durante il carnevale milanese conobbe la duchessa Eugenia Attendolo
Bolognini, nobildonna e benefattrice milanese che negli anni sotto la
dominazione austriaca era stata attiva anche nella propaganda filorisorgimentale.
Nata in un casato di conti, era moglie dal 1857 del conte Giulio Litta Visconti
Arese, poi quarto Duca Litta. Sin da bambina era ammirata per la sua bellezza,
tanto da essere ben presto famosa a Milano e dintorni come «bella Bolognina».
Gli austriaci l’ avevano soprannominata «regina delle oche»: in Austria
venivano infatti chiamate «oche» le dame lombardo-venete che, agitandosi,
pretendevano di salvare l’ orgoglio e l’ italianità. Ricordata anche come la
musa ispiratrice di Arrigo Boito, assiduo frequentatore del suo circolo culturale
e mondano, era alta, di forme esuberanti e fisico sensuale, i serici capelli
neri spartiti in due bande, gli occhi di un profondo blu notturno, i gesti e il
sorriso di chi sapeva di avere ai propri piedi il mondo. La duchessa aveva
sette anni in più dell’ erede al trono. Di lei si erano innamorati i poeti
Emilio Praga e Arrigo Boito, e i migliori partiti dell’ aristocrazia milanese
avevano avuto modo di ammirarla. Secondo i maligni sarebbe stata corteggiata anche
da Re Vittorio Emanuele. Il Principe di Piemonte si innamorò di lei al primo
sguardo, colpito dalla sua classe e dalla finezza nei modi che accompagnava a
un temperamento forte che la faceva primeggiare. Lei ne ricambiò le attenzioni,
sollecitata dall’ idea di divenire l’ amante del futuro Re d’ Italia. La loro
relazione divenne presto abbastanza forte da durare per la vita: stabilirono un
rapporto di carattere coniugale, di passione, affetto e intesa psicologica
destinato a sopravvivere alle scappatelle del giovane Umberto, come quelle con
la contessa Cesarini Galli Hercolani e la marchesa Vincenza di Santafiore
Sforza, sue amanti chiacchierate a cui seguirono ballerine di teatro e giovani
dame che alle volte lo seguivano. Lei rimase sempre accanto a lui, e la villa
padronale di Vedano al Lambro, quasi adiacente al parco della villa reale di
Monza, fu il nido abituale dei loro incontri in occasione delle visite del principe
ereditario in Lombardia. Solo in pochi alti dignitari erano a conoscenza di
questa relazione, ma non ne parlarono mai per ragioni di discrezione e rispetto
per l’ istituzione monarchica e l’ immagine della famiglia reale.
Il
processo di unificazione nazionale non poteva considerarsi definitivo poiché il
Veneto, il Trentino-Alto Adige, il Friuli-Venezia Giulia appartenevano ancora
alla Monarchia asburgica e Roma, proclamata idealmente capitale del Regno, era
ancora sede del papato. La situazione delle terre mancanti costituiva una fonte
di tensione costante per la politica interna italiana e chiave di volta per la
sua politica estera. Il governo italiano si avvicinò pertanto alla Prussia per
ostacolare l’ Austria e acquisirne i territori. Quando i prussiani attaccarono
l’ Impero asburgico, l’ Italia a sua volta gli dichiarò guerra: aveva inizio la
Terza guerra d’ Indipendenza, tra il 20 giugno e il 12 agosto 1866. Si racconta
che il Principe di Piemonte, ventiduenne e tenente generale dal 1864, mentre
aspettava a Napoli di partire per il fronte insieme al fratello Amedeo di Aosta,
a una vecchina che piangeva per i due figli in guerra disse: «Anche noi siamo
due e non abbiamo più la mamma.». Raggiunto il fronte delle operazioni in Veneto,
assunse il comando della XVI divisione di fanteria e partecipò con valore allo
scontro di Villafranca del 24 giugno 1866, che seguì la disfatta di Custoza.
Ivi, fu protagonista del noto episodio detto Quadrato di Villafranca: la XVI divisione,
nel muovere da Custoza alla volta di Goito si ritrovò divisa dal grosso dell’ esercito.
Gli austriaci, ben sapendo cosa poteva valere un erede al trono nemico fatto
prigioniero, lanciarono la loro migliore cavalleria contro gli italiani che,
ben addestrati, si disposero in quadrato per proteggere il loro futuro Re, riuscendo
a resistere fino all’ arrivo degli squadroni di supporto che misero in fuga gli
austriaci. Durante la battaglia, Umberto si batté dando esempio di dedizione al
dovere e stoico coraggio, e tale condotta gli valse la medaglia d’ oro al valor
militare.
La
guerra si concluse con la vittoria dell’ Italia e la conseguente annessione del
Veneto, di Mantova e di parte del Friuli, le attuali province di Udine e Pordenone.
Terminato
il proprio ruolo nelle campagne risorgimentali, Umberto fu chiamato
maggiormente ad altre occupazioni legate al suo ruolo di principe ereditario
del neonato Regno d’ Italia, e soprattutto visse più intensamente, seppur con
riservatezza, le proprie vicende amorose. La bella Bolognina era costantemente
nei suoi pensieri, l’ amava davvero intensamente, eppure era ben cosciente di
dover accettare un matrimonio di interesse dinastico e politico, in
ottemperanza alle disposizioni del padre.
All’
indomani della fine del conflitto con l’ Austria, Re Vittorio Emanuele aveva
iniziato a pensare di riappacificarsi con Casa Asburgo per mezzo di un’ unione
matrimoniale. La candidata ideale venne identificata nell’ arciduchessa Matilde
d’ Asburgo Teschen, figlia dell’ arciduca Alberto, Duca di Teschen e generale
imperiale che aveva sconfitto l’ esercito italiano nella battaglia di Custoza,
nonché cugino di Francesco Carlo, padre dell’ Imperatore Francesco Giuseppe.
Ella però morì tragicamente appena diciottenne, ustionata dall’ incendio del proprio
abito da ballo, pronta a recarsi a una serata mondana, mentre tentava di nascondere
una sigaretta alla governante. Svanita quest’ importante possibilità, il
Presidente del Consiglio dei ministri, Luigi Federico Menabrea, propose al
sovrano l’ idea di far sposare Umberto con una sua cugina prima, la principessa
Margherita di Savoia, figlia diciassettenne di Ferdinando di Savoia Genova,
fratello di Vittorio Emanuele, e di Elisabetta di Sassonia. Bionda, alta,
abbastanza bella ma con le gambe piuttosto corte, colta e comunicativa,
sensibile e orgogliosa ma non dura, profondamente religiosa, piuttosto
conservatrice in politica, Margherita aveva avuto la tipica educazione che i
Savoia davano alle loro donne, sotto un’ istitutrice fredda e bigotta da piccola,
e in seguito portata avanti da un’ altra più affettuosa che aveva saputo farle
amare pittura e musica. La giovane Savoia Genova si circondava di intellettuali
ed aveva molti interessi. In un primo momento Vittorio Emanuele si mostrò
contrariato, sbottando in piemontese: «Ma
l’ è na masnà!», cioè «Ma è una bambina!». Pare che tale convinzione fosse
motivata dal fatto che non la vedeva da qualche tempo, ma di certo quando la
incontrò la trovò così bella e florida per la sua età da scrivere prontamente
al figlio: «Vieni a casa, ti ho trovato la sposa che fa per te.». In obbedienza
all’ ordine del padre e suo Re, il principe ereditario partì da Milano il 28
gennaio 1868 alla volta di Torino, recandosi a Palazzo Chiablese ove lei
abitava e con la massima indifferenza le fece la proposta di matrimonio. Legata
alla terra d’ origine, tanto da rifiutare le nozze con il principe Carlo di
Hohenzollern-Sigmaringen, futuro Re di Romania, la principessa fu contenta di
sposare un reale italiano: «Sai quanto sono orgogliosa di appartenere a Casa
Savoia, e lo sarei doppiamente come tua moglie!». Umberto accettò il matrimonio
senza entusiasmo. I giovani principi si sposarono tre mesi dopo a Torino, il 22
aprile 1868, in una cornice sfarzosa come si conveniva a futuri monarchi. La
cerimonia fu officiata nel duomo di San Giovanni, in una funzione svolta dall’
arcivescovo Alessandro Riccardi di Netro, assistito da Luigi Nazari di
Calabiana e Andrea Casasola, arcivescovi di Milano e Udine, e da Giovanni Conti
e Giovanni Battista Cerruti, vescovi di Mantova e Savona e Noli. Casa Savoia
volle che fossero presenti, accanto a nobili e personalità di spicco della
politica nazionale, anche le delegazioni operaie e semplici popolani. Per l’
occasione, Vittorio Emanuele istituì lo Squadrone Carabinieri Guardie del Re,
meglio noto come corpo dei corazzieri, come scorta al corteo reale, e l’ Ordine
della Corona d’ Italia per premiare tutti coloro che si sarebbero distinti al
servizio del Paese. Il viaggio di nozze degli sposi reali rispose a precise
esigenze politiche: il tragitto prevedeva di scendere lungo tutta la penisola
per far conoscere alla neonata Italia i futuri sovrani, nell’ intento di creare
una forte unità di sentimenti, dopo il raggiungimento di quella politica per
quanto mancasse l’ ultima conquista, ossia la città di Roma. I principi si
diressero quindi verso Firenze, capitale dal 1865. Altre città toccate furono
Alessandria, Piacenza, Parma, Modena e Bologna. Dopo un soggiorno nella Villa
reale di Monza, essi partirono per un viaggio ufficiale a Monaco di Baviera e a
Bruxelles, dove vennero accolti calorosamente. Poiché occorreva continuare a trasmettere
un messaggio unitario, si dispose che gli prendessero residenza a Napoli,
presso la reggia di Capodimonte, residenza storica dei Borbone, così come dei
Bonaparte e Murat: la città, ancora divisa tra la popolazione filoborbonica e
quella favorevole ai Savoia, doveva sapere come la nuova famiglia reale avesse
esteso i propri interessi, non limitandoli più al vecchio Piemonte.
Il
28 giugno 1869 fu dato l’ annuncio della gravidanza di Margherita, e i
preparativi per la nascita scattarono con un certo fervore poiché si trattava
del primo parto in seno alla Monarchia dopo l’ unificazione d’ Italia. Nel
periodo precedente la nascita del bambino, la principessa passeggiava
regolarmente lungo la Riviera di Chiaia, mostrandosi al popolo e vedendo
aumentare nettamente la propria popolarità. L’ 11 novembre ebbe luogo la
nascita di un figlio maschio, con parto cesareo. Nella stanza della reale
gestante ci fu un simbolico affollamento: la presenza dei generali Roberto de
Sauget e Enrico Cialdini, voluta dal Re, indicava come il nascituro
appartenesse a una stirpe di soldati, mentre quella del principe Eugenio di
Carignano, in rappresentanza di Vittorio Emanuele ancora convalescente che in
quel periodo si era gravemente ammalato a San Rossore, e per qualche tempo era
stato persino in pericolo di vita tanto che il 7 ottobre aveva creato
scompiglio e imbarazzo sposando con matrimonio morganatico l’ amante Rosa
Vercellana, reputata impresentabile per la sua provenienza popolana, del Presidente
del Senato Gabrio Casati e del sindaco di Napoli Guglielmo Capitelli omaggiava
la nascita del futuro capo dello Stato, dando rilevanza politica al momento. In
quegli anni, il parto cesareo quasi sempre provocava la sterilità nella
partoriente, e così fu per Margherita che accolse la notizia con serenità in
quanto aveva generato un maschio con cui la successione al trono era
assicurata. Una volta che lei si fu fisicamente ripresa, la famiglia si
trasferì a Monza nella primavera del 1870.
Il
neonato venne chiamato Vittorio Emanuele Ferdinando Maria Gennaro: un nome che
in parte si calava nella tradizione sabauda, in onore al nonno paterno e a
quello materno, così come nella tradizione cristiana e nel desiderio di
esprimere vicinanza a Napoli con un chiaro riferimento al suo santo patrono.
Perfino il titolo nobiliare che ricevette, ossia Principe di Napoli, volle
essere un segnale di novità e apertura, tanto che in seguito si sarebbe
alternato a quello di Principe di Piemonte abitualmente attribuito agli eredi
al trono sabaudo.
Margherita con il neonato Vittorio Emanuele;
Nonostante
l’ arrivo del figlio, il matrimonio tra Umberto e Margherita non si rafforzò. E’
possibile che in un primo momento lei non fosse al corrente della relazione di lui
con la duchessa Bolognini, che nel frattempo era stata nominata sua dama d’
onore così da facilitare i loro incontri. Di certo ne divenne cosciente poco
dopo le nozze, nell’ estate 1870, quando, entrando all’ improvviso negli
alloggiamenti del marito, li trovò insieme. Si narra che minacciò di tornare
dalla propria madre, e che si trattenne da un ordine dello zio suocero: «Solo per
questo vuoi andartene?». Facendo appello alla sua forza di volontà, decise di
rimanere accanto al consorte dichiarando di non considerarlo più marito, ma
soltanto il suo futuro sovrano. Da quel momento, tra i due si creò una distanza
sul piano privato ed intimo, ma priva di rancori. Apparivano insieme solamente
in pubblico, attenendosi al ruolo di eredi al trono italiano e recitando la
parte della famiglia esemplare in accordo con i valori fondamentali dell’
aristocrazia, tesi a dare il buon esempio. Il fallimento del matrimonio, noto
solo in ristretti circoli di corte, fu mascherato con una parvenza di felicità
usata convenientemente anche a fini politici: la loro immagine pubblica era
quindi una finzione al servizio della ragion di Stato, atta ad impiegare l’ immagine
della famiglia unita e felice come metafora di un’ Italia che stava crescendo
forte dopo essere stata per secoli divisa in tanti staterelli in continua lotta
reciproca. I Principi di Piemonte si prestavano come simbolo di una famiglia
che non nascondeva piccole manifestazioni di affetto, come un bacio o una
carezza al piccolo Vittorio Emanuele, rivelandosi un collante potente.
Nel
1870, Umberto e la bella Bolognina ebbero un figlio, Alfonso, molto
cavallerescamente riconosciuto dal marito di lei per salvaguardare la
reputazione della donna.
Il
1870 vide l’ ultimo passo per l’ unità d’ Italia. Con la sconfitta e la cattura
a Sedan di Napoleone III, protettore del potere temporale del papato, durante
la guerra tra Francia e Russia avvenuta il 1º settembre di quell’ anno, il
contingente militare a protezione del pontefice venne ritirato da Roma. Le
truppe italiane, con bersaglieri e carabinieri in testa, pochi giorni dopo, il
20 settembre, entrarono dalla breccia di Porta Pia ed espugnarono la città
santa della cristianità. Papa Pio IX si ritirò nel Vaticano rifiutando di
riconoscere il nuovo Stato e dichiarandosi prigioniero politico. Scomunicò Vittorio
Emanuele II, ritenendo inoltre non opportuno e poi esplicitamente proibendo che
i cattolici partecipassero attivamente alla vita politica italiana, da cui si
autoesclusero per circa mezzo secolo con gravi conseguenze per la futura storia
d’ Italia. Il governo italiano spostò ufficialmente a Roma la nuova capitale. Ormai
buona parte della Penisola era sotto il controllo della Corona sabauda, con l’
eccezione del Trentino-Alto Adige e della Venezia Giulia rimasti all’ Impero d’
Austria.
Esauriti
i motivi per risiedere a Napoli, Umberto e Margherita dovettero trasferirsi
laddove ormai si svolgevano le basi della politica del Paese. Dopo la
frettolosa visita di Re Vittorio Emanuele a Roma in dicembre dopo l’ inondazione
del Tevere, furono loro a rappresentare effettivamente la famiglia reale nella nuova
capitale. Il pomeriggio del 23 gennaio 1871 fecero quindi il loro ingresso a
Roma, dopo che la mattina Vittorio Emanuele II era giunto «quasi
clandestinamente», come si disse allora. L’ accoglienza fu migliore di quanto temuto,
anzi, fu più calorosa di quella riservata al Re: la pioggia battente non aveva
impedito a una folla numerosa di riunirsi per salutare i principi ereditari, né
Margherita si risparmiò un gesto per accattivarsi le simpatie della
popolazione. Dette infatti l’ ordine di scoprire la carrozza per essere
visibile e le acclamazioni, secondo i testimoni, «salirono al cielo».
Umberto
si dedicò con costanza ai suoi numerosi impegni di erede al trono, mentre
Margherita occupò il posto lasciato vacante dalla suocera Maria Adelaide,
accanto al Re. Fece del Quirinale un luogo di ricevimenti e feste, grazie ai
quali l’ aristocrazia romana, dapprima ostile a Casa Savoia, si accostò
gradualmente alla Monarchia. Non si trattava di frivolezza fine a sé stessa, ma
di un investimento comunicativo che elevò la Corte sabauda ad una dignità pari
di quella delle altre famiglie reali d’ Europa. Nella sala damascata di giallo,
la Principessa di Piemonte riceveva ogni ultimo mercoledì del mese i principi
stranieri, i nobili e i politici più influenti: si ballava, si conversava e si
brindava, mentre lei si spostava da un crocchio ad un altro per mettere a loro
agio gli ospiti. Come nessuno prima di lei, Margherita portò un tocco di
eleganza che svecchiò le abitudini, dando alla Monarchia un lustro nuovo, per
quanto costoso. La futura Regina diede quindi un forte impulso al miglioramento
delle relazioni tra i Savoia e la locale aristocrazia rimasta devota al papato.
Altrettanto accadde in Meridione, dove il peso dell’ unificazione era stato
più grave. In breve tempo, l’ aristocrazia sia piemontese che quella romana e
meridionale riscoprirono i piaceri della mondanità che erano ormai un ricordo
di tempi andati. La Principessa di Piemonte faceva salotto con artisti e
letterati, e a questo proposito si racconta che Umberto, molto meno interessato
di lei alla cultura, a volte intervenisse per zittirla, sbottando: «Ma sta un
po’ zitta, che mi fai venire male alla testa!».
Il
9 gennaio 1878, Vittorio Emanuele II morì, e Umberto gli succedette come secondo
Re d’ Italia e quarantunesimo signore di Casa Savoia. Nello stesso giorno emanò
un proclama alla Nazione: «Il vostro primo Re è morto; il successore vi proverà
che le istituzioni non muoiono!». Scelse di chiamarsi Umberto I anziché IV,
differentemente dal padre che il 17 marzo 1861, giorno in cui era stata
proclamata la nascita del Regno d’ Italia, aveva scelto di preservare il
prosieguo nominale sabaudo in rispetto della dinastia: il nuovo sovrano desiderava
trasmettere un messaggio di unità nazionale. Il successivo 17 gennaio, giorno
dei funerali del padre, accogliendo la petizione del municipio di Roma, predispose
l’ inumazione della salma nel Pantheon di Roma, che fece diventare
simbolicamente il mausoleo della famiglia reale. Infine, il 19 gennaio, prestò
un solenne giuramento sullo Statuto Albertino nell’ aula di Montecitorio, alla presenza
di senatori e deputati, pronunciando un memorabile discorso: «L’ Italia che ha
saputo comprendere Vittorio Emanuele, mi prova oggi quello che il mio genitore
non ha mai cessato d’ insegnarmi che la religiosa osservanza delle libere
istituzioni è la più sicura salvaguardia contro tutti i pericoli. Questa è la
fede della mia Casa. Questa sarà la mia forza. Sincerità di pensieri, concordia
di amor patrio mi accompagneranno, ne sono certo, nell’ ardua via che prendiamo
a percorrere; in fine della quale io non ambisco che meritare questa lode Egli
fu degno del Padre.». Giurò poi: «In presenza di Dio, davanti alla Nazione,
giuro di osservare lo Statuto, di esercitare l’ autorità reale in virtù delle
leggi e conformemente alle medesime.».
La
formula che aveva adottato era una novità: non la semplice osservanza della
carta costituzionale, ma la subordinazione alle leggi votate dal Parlamento. Il
nuovo Re riconobbe l’ istituzione parlamentare come il cuore dell’ assetto
politico ed istituzionale del Paese. La consuetudine di presiedere il Consiglio
dei ministri, cosa che Vittorio Emanuele aveva fatto nei primi anni di regno
per poi perderla gradualmente negli anni, con Re Umberto cessò del tutto. Il
secondo monarca si limitò a ricevere due volte la settimana il Presidente del
Consiglio, il lunedì e il giovedì, per la relazione e la firma dei decreti.
Umberto era molto differente dal padre: non mancava di garbo aristocratico e sapeva
muoversi nei salotti nobiliari e nelle corti, ai modi genuini e talvolta
popolani del genitore sostituì un’ immagine fredda e compassata, più vicina ai
modelli regali consacrati. Se Vittorio Emanuele aveva rappresentato il Re del
sentire comune che si trovava a proprio agio tra militari e cacciatori, Umberto
era l’ espressione dell’ autorità monarchica, che si avvicinava al popolo senza
mai mescolarsi con esso e che nel portamento e nella forma conservava sempre un
forte tratto distintivo. Come militare prima e uomo di corte poi, corrispondeva
al modello tradizionale di Casa Savoia, confermando l’ attitudine all’
etichetta aristocratica, muovendosi con disinvoltura e rivelandosi conversatore
affabile. Sul piano religioso era un agnostico osservante, che in chiesa andava
più per dare l’ esempio ai sudditi che non per convinzione personale, ma al tempo
stessa denotava un saldo rispetto per la gerarchia.
Il giuramento di Re Umberto I;
Di
statura media, robusto ed elegante, con la bocca socchiusa che gli conferiva
un’ aria seria e un difetto nella voce dovuto a una faringite trascurata e
divenuta cronica che lo rendeva rauco e dal tono apparentemente brusco, Umberto
I non tardò a farsi amare dalla nazione, dando subito prova di tratti distinti,
di generosità e della ferma volontà di mantenere lealmente le promesse fatte
nel primo proclama e nel primo discorso.
Dovette
fare i conti fin dal primo giorno con un’ eredità ingombrante. Pur privo di
una particolare capacità politica, non venne mai meno ai valori di dovere,
costanza, serietà, dedizione, modestia, decoro e fedeltà alla parola tipici
dell’ aristocrazia, ed ebbe la fortuna di trovarsi al fianco della Regina
consorte più popolare di sempre. Le condizioni dello Stato erano tutt’ altro
che liete: le finanze erano malferme, la politica interna era agitata ed
incerta, e assai difficili erano i rapporti con l’ estero. Molti e impegnativi
erano quindi i problemi da affrontare per lui e il suo governo: in politica
interna occorreva consolidare le basi dell’ unità nazionale appena gettate,
mentre sul piano estero urgeva stabilire riconoscimenti e legami diplomatici
con le maggiori potenze dell’ epoca. Il papato, dopo la morte di papa Pio IX in
quello stesso anno e l’ elezione di Leone XIII, continuava a non riconoscere il
Regno d’ Italia. Qua e là per la penisola vi erano fermenti irredentistici e
repubblicani, uniti a propositi antiunitari di determinati circoli politici
occulti, sia nazionali che esteri. Bisognava peraltro, e con assoluta fretta,
creare un ampio fronte di riforme sociali di cui potessero godere le classi
meno abbienti, rilanciando l’ economia nazionale già da troppo tempo stagnante.
In questo panorama di difficoltà e impellenze occorreva favorire la coesione
della neonata sudditanza: gli italiani delle diverse regioni si erano per
secoli scontrati in una serie di rivalità meramente locali, provocando o anche
sollecitando regolarmente la discesa di un capo straniero dopo l’ altro che li
aiutasse nelle reciproche lotte private. A causa di questi disaccordi interni,
tutti i conquistatori stranieri avevano sempre trovato appoggio concreto in
notevoli settori della popolazione locale. Ora bisognava gettare una base
comune in cui tutti potessero e dovessero coesistere, in una sola realtà che
superasse i vecchi limiti e confini.
L’
Italia era ancora molto lontana da una rivoluzione industriale, ragion per cui
restava penosamente arretrata. La Destra liberale, che aveva governato
soprattutto durante gli Anni Sessanta, rappresentava gli interessi della
borghesia settentrionale e dell’ aristocrazia meridionale. I suoi membri erano
per lo più grandi proprietari terrieri, industriali, membri della nobiltà
imborghesita, ed esponenti del mondo dei militari contrari a uno sviluppo
industriale poiché temevano che si potesse sviluppare un proletariato che la
contrastasse, e credevano che il Paese non avesse abbastanza materie prime. Il
nuovo Stato era accentratore e il governo era stato eletto solo dal due
percento della popolazione, in prevalenza l’ elettorato comprendeva grandi
proprietari terrieri. I ceti popolari, le masse contadine, erano in condizioni
sempre più miserevoli a causa anche della pressione fiscale imposta dalle
istituzioni, come la tassa sul macinato che colpiva la farina, base dell’
alimentazione popolare, e la leva militare obbligatoria sottraeva forza lavoro
all’ agricoltura. Inoltre i ceti popolari erano lontani dalla scolarizzazione:
nonostante l’ unificazione politica, l’ Italia restava divisa sotto tutti gli
aspetti. Gli alti dignitari politici, di formazione risorgimentale, erano
nobili, avvocati e latifondisti quasi tutti di idee liberali e provenienti dai
vertici dei vecchi regni preunitari. Divisi in due schieramenti politici, la
Destra e la Sinistra, tali compagini presentavano evidenti affinità di pensiero
che li rendevano strutturali al sistema monarchico anche se a Sinistra non
mancarono aspirazioni democratiche e repubblicane. Si trovarono così a
governare un Paese di quasi ventidue milioni di abitanti che vivevano in condizioni
molto difficili.
I
primi governi adottarono quindi un modello di Stato centralista alla maniera
francese, in luogo di un auspicato ma parziale decentramento amministrativo:
un’ amministrazione centrale, secondo i più, avrebbe garantito una maggiore
omogeneità e compattezza delle istituzioni e avrebbe consentito di attuare una
gestione forte e autorevole dei rapporti con la sudditanza. L’ età umbertina si
aprì con il bisogno di creare un’ identità nazionale basata sulla
valorizzazione di Casa Savoia come simbolo unitario. Il profilo politico di
Umberto differì molto da quello del padre: conciliante e non amante dei
conflitti aperti, temporeggiatore, fatalista. Se Vittorio Emanuele era stato
accentratore e costantemente determinato a ricordare a tutti di essere il Re, prendendosi
ampi spazi di protagonismo complice il ruolo svolto nell’ unificazione
italiana, il nuovo sovrano italiano fu più assoggettato ai dettami del
Parlamento. Uno dei primi provvedimenti che Umberto dovette affrontare furono
le dimissioni, il 9 marzo, del governo di Agostino Depretis, guida della
Sinistra storica. Non ritenendo conveniente riaffidargli l’ incarico di
Presidente del Consiglio, il Re scelse Benedetto Cairoli, alla testa della Sinistra
moderata e politico che molto stimava. La politica del trasformismo portata
avanti da Depretis, che prevedeva il coinvolgimento di tutti i deputati che
volessero appoggiare un governo progressista a prescindere dagli schieramenti
politici tradizionali, aveva tolto al sovrano una delle sue fondamentali
prerogative istituzionali, ossia la possibilità di inserirsi tra le divisioni
politiche per esercitare un ruolo vincolante e imparziale. Tuttavia, ridurre il
ruolo che Umberto avrebbe esercitato a quello di «Re che regna ma non governa»
sarebbe un’ inesattezza in quanto la figura del monarca in Italia avrebbe
conservato un certo peso, per quanto mutevole in base agli equilibri politici,
confermandolo come arbitro terzo nei processi politici decisionali. Lungi dall’
essere un Re pigro e rinunciatario come talvolta sarebbe stato descritto,
Umberto tentò di occupare i principali spazi sul panorama politico.
Considerandone le grandi ambizioni, analogamente al genitore diffidava della
borghesia e della sua fedeltà al patto di alleanza che avrebbe portato all’
Italia unita, e nella sua azione istituzionale volle sempre custodire le
prerogative dell’ autorità reale. Consapevole di non poter arrestare l’
evoluzione sostanziale del sistema monarchico in senso parlamentare, benché
formalmente la Monarchia restasse di tipo costituzionale, il monarca si garantì
l’ egemonia sulle forze armate, che nel 1879, a un anno dall’ incoronazione,
assunsero il nome di Regio Esercito, mentre nel 1882 promosse l’ istituzione di
Capo di stato maggiore dell’ Esercito, la cui figura andò a sostituirsi a
quella del Ministro della Guerra evitando ingerenze delle forze politiche negli
ambienti militari e preservando una connessione diretta con il sovrano, a cui
l’ ufficialità avrebbe potuto sempre rivolgersi qualora la politica avanzasse
pretese. Lo stesso regnante avrebbe potuto contare sugli apparati di forza
dello Stato scavalcando il momento della mediazione politica.
Appena
salito al trono, il Re predispose subito un tour nelle maggiori città del Regno
al fine di mostrarsi al popolo e guadagnare almeno una parte della notorietà di
cui aveva goduto il padre durante il Risorgimento. Venne accompagnato dalla
moglie Margherita, dal figlio Vittorio Emanuele di appena nove anni e dal Presidente
del Consiglio Cairoli. Partito da Roma il 6 luglio 1878, raggiunse La Spezia, Torino,
Milano, Brescia e, il 16 settembre, a Monza, dove assistette all’ inaugurazione
del primo monumento dedicato al padre Vittorio Emanuele. Il 4 novembre la
famiglia reale raggiunse Bologna. Tre giorni dopo era a Firenze, il 9 novembre
a Pisa e a Livorno, il 12 novembre ad Ancona, l’ indomani a Chieti e poi a
Bari. Il 16 novembre, alla stazione di Foggia, un certo Alberigo Altieri tentò
di lanciarsi verso il sovrano: venne fermato in tempo, tanto che quasi nessuno
si avvide del fatto e nemmeno la stampa ne fece parola. Tuttavia le indagini
della polizia portarono a scoprire come il giovane non avesse agito da solo, ma
nell’ ambito di «un complotto per l’ assassinio dell’ Augusto sovrano» che
aveva «il proposito di farne eseguire il tentativo nelle diverse città
visitate».
Appena
il giorno dopo, sarebbe avvenuto un fatto anche peggiore. Giunto a Napoli,
Umberto subì un tentativo di assassinio che fece molto clamore: insieme alla
moglie, al figlio e al Presidente del Consiglio Cairoli si trovava su una
carrozza scoperta che si stava facendo largo tra due ali di folla. Il capo di
governo si accorse di dare la sinistra al piccolo Principe di Napoli e fece per
cambiare di posto, ma il Re lo trattenne venendo attaccato proprio in quell’
attimo con un coltello dall’ anarchico Giovanni Passannante, che non riuscì nel
proprio intento colpendo Cairoli alla coscia gridando: «Viva Orsini, viva la
repubblica universale!». Umberto subì un leggero taglio a un braccio, e un
ufficiale dei Corazzieri del seguito si scagliò contro l’ attentatore,
ferendolo alla testa con la sciabola. Il principe Vittorio Emanuele si ritrovò
con la divisa di marinaretto imbrattata dal sangue di Cairoli ma rimase
impassibile, anche se poi la stessa sera scoppiò in un pianto dirotto tra le
braccia della sua tata irlandese. Dopo l’ attentato, poco prima di un pranzo
ufficiale, il Re volle ironizzare su quanto accaduto: «Signori, pensiamo ai
poveri digiuni, andiamo a desinare... anche per un po’ di riguardo ai cuochi...
che vedete cosa fanno!...».
L’
attentato sconvolse tutta l’ Italia, suscitando opposti sentimenti: da una
parte vi erano cortei di protesta solidali nei confronti del Re, dall’ altra
invece vi erano coloro che elogiavano l’ attentatore. Non mancarono scontri tra
forze dell’ ordine e anarchici. Il giorno dopo, il monarca fu visitato da
numerosi esponenti della nobiltà e della politica meridionale, tra cui i lucani
Ascanio Branca, Salvatore Correale e Giuseppe Imperatrice, che espressero
rincrescimento per il fatto che Passannante fosse un loro conterraneo. Umberto
li rincuorò promettendo di fare una visita in Basilicata il prima possibile. Ad
un mese dal tentato regicidio, l’ allora Capo della Polizia Luigi Berti fu
costretto a rassegnare le dimissioni.
La
notizia dell’ attentato fece il giro d’ Europa. Alcuni organi di stampa sia italiani
che stranieri condannarono l’ attentatore rivolgendogli più accuse, alcune
persino prive di fondamento o puramente inventate. Alcuni giornali esteri
espressero svariate opinioni: la testata tedesca Kölnische Zeitung auspicò che l’ attentato servisse come monito
allo Stato italiano per comprendere meglio i bisogni del ceto subalterno,
mentre il britannico Daily News vide
nel malcontento e nella miseria i fattori che spinsero l’ anarchico ad armarsi,
mentre il Satana di Cesena, che in
seguito sarebbe stato soppresso con l’ accusa di propaganda contro il Re e le
istituzioni, non lo considerò un assassino ma un «infelice affascinato» dei
mali che turbarono la società del tempo. L’ economista belga Émile de Laveleye
vide nel gesto di Passannante un «avvertimento», un attentato non rivolto al sovrano
ma alla Monarchia: «Non la monarchia come istituzione politica, ma come simbolo
dell’ ineguaglianza sociale.». Il gesto di Passannante spinse Umberto al
garantire alcuni sussidi al popolo e in comuni come Torre Annunziata, Castel di
Sangro, San Buono vennero distribuiti, gratuitamente, cibo e abiti ai più
poveri.
Il
6 e il 7 marzo 1879, davanti a una folla gremita, venne celebrato il processo al
mancato regicida, la cui difesa fu affidata all’ avvocato Leopoldo Tarantini.
L’ imputato venne condannato a morte, e Tarantini fece ricorso in Cassazione,
ma venne respinto. Lo stesso Passannante era contrario: egli non cercava la grazia
poiché, disse, non avrebbe portato alcun vantaggio alla sua causa mentre la
morte lo avrebbe reso un «martire politico» e avrebbe giovato alla rivoluzione.
Dopo il diniego della Cassazione, il legale preparò una domanda di grazia da
consegnare al Re, ultima alternativa rimasta. Con Regio Decreto del 29 marzo
1879, Umberto concesse la grazia a Passannante, commutando la pena in
ergastolo. Firmò il decreto di propria iniziativa, dicendo al Ministro di Giustizia:
«Ho deciso di far grazia a Passannante: egli era un povero illuso.». La notizia
della clemenza del monarca fece il giro del Belpaese, e venne accolta positivamente
da gran parte dell’ opinione pubblica e della stampa. A grazia ricevuta, l’ anarchico,
pur avendo ringraziato il Re, scrisse una lettera in cui lo considerava ancora
un nemico: la missiva venne però sequestrata dal direttore del carcere.
Passannante avrebbe scontato la pena a Portoferraio, sull’ isola d’ Elba: la
sua prigionia fu spietata e lo condusse alla follia, sollevando un enorme
scandalo nell’ opinione pubblica. Venne trasferito in manicomio, ove passò il
resto della sua vita.
Dopo
i fatti di Napoli, il sovrano, riconoscente, assegnò al Presidente del
Consiglio la medaglia d’ oro al valor militare, ma il Parlamento, pur ammirandone
il coraggio e la devozione, rimproverò il governo circa la cattiva gestione
della politica interna, in particolare riguardo alla sicurezza del Re e dello
Stato. Fu quindi presentata un’ interrogazione parlamentare che si concluse l’
11 dicembre di con le dimissioni di Cairoli, a cui succedette Depretis che,
tuttavia, venne battuto alla Camera dei deputati appena sette mesi dopo, il 3
luglio 1879, dovendo cedere il posto a Cairoli, che non avendo la maggioranza
parlamentare necessaria dovette coinvolgere parte della Sinistra moderata
guidata da Depretis, che fu nominato Ministro dell’ Interno. Uno dei problemi
più urgenti che il governo dovette affrontare fu la soppressione della tassa
sul macinato, che aveva sì permesso il raggiungimento del pareggio di bilancio
nel 1876, ma aveva causato l’ ostilità della popolazione per l’ aggravio sui
beni di prima necessità, ovvero i cereali.
Lo
stesso Umberto, il 26 maggio 1880, all’ apertura della XIV legislatura
parlamentare, pronunciò un discorso in cui si augurava che il Parlamento desse
seguito all’ abolizione della tassa sul macinato, del corso forzoso e alla
riforma elettorale. Così, dopo una serrata discussione parlamentare, il 30
giugno 1880 la Camera votò la riduzione progressiva della tassa sul macinato, che
sarebbe stata abolita definitivamente quattro anni dopo, mentre il 23 febbraio
1881 fu abolito il corso forzoso, in vigore dal 1866.
Il
25 e il 27 gennaio 1881 il Re mantenne la promessa fatta di visitare la
Basilicata, soggiornando con la Regina consorte a Potenza e presenziando all’ inaugurazione
del teatro Francesco Stabile. Nello stesso periodo visitarono ufficialmente la
Sicilia e la Calabria. Quando giunse a Reggio Calabria, Umberto si lasciò
andare a un bagno di folla, dicendo gioiosamente alle forze di sicurezza,
preoccupate della sua incolumità: «Fate largo, sono in mezzo al mio popolo!».
Per
quanto riguarda la politica interna, il monarca affiancò l’ operato dei suoi
governi nel progetto di rafforzamento interno dello Stato. Fu proprio durante
il suo regno che si definì la figura del Presidente del Consiglio, che
raggiunse il culmine nel 1890 durante il mandato di Francesco Crispi, figura di
rilievo del Risorgimento: delegando il potere esecutivo al Presidente del
Consiglio, non presiedendo quindi il governo e limitandosi a firmare i
provvedimenti del ministero, si assumeva con il tempo anche responsabilità collettive
e parlamentari.
Proprio
in quegli anni l’ Italia patì le conseguenze della Lunga depressione, una crisi
economica che ebbe inizio a Vienna nel 1873 e si propagò anche negli Stati
Uniti d’ America, protraendosi sino alla fine del secolo. Il mondo sviluppato
conobbe prima una crisi agraria, cui si aggiunse poi una parallela crisi
industriale con forti riduzioni della domanda, profitti marginali calanti e
scarsa circolazione monetaria. Nel Regno d’ Italia ciò portò a insurrezioni e
moti che portarono Umberto a maturare un atteggiamento autoritario che lo portò
a firmare provvedimenti come lo stato d’ assedio. Appoggiò quindi i governi
ultraconservatori del Marchese Antonio Starabba di Rudinì, in carica dal 1896
al 1898, e di Luigi Pelloux, dal 1898 al 1900, la cui linea dura rafforzò le
tensioni sociali in tutta la penisola. Nel 1889 avvenne la riforma del codice
penale, comunemente detto Codice Zanardelli dal nome di Giuseppe Zanardelli, l’
allora Ministro di Giustizia che ne promosse l’ approvazione. Nella relazione
al Re, Zanardelli si sostenne: «Le leggi devono essere scritte in modo che
anche gli uomini di scarsa cultura possano intenderne il significato; e ciò
deve dirsi specialmente di un codice penale, il quale concerne un grandissimo
numero di cittadini anche nelle classi popolari, ai quali deve essere dato modo
di sapere, senza bisogno d’ interpreti, ciò che dal codice è vietato.».
Zanardelli riteneva che la legge penale non dovesse mai dimenticare i diritti
dell'uomo e del cittadino e che non dovesse guardare al delinquente come ad un
essere necessariamente irrecuperabile: non occorreva solo intimidire e
reprimere, ma anche correggere ed educare.
Il
Codice Zanardelli era un codice di impronta nettamente liberale, e ammetteva
una certa libertà di sciopero. La riforma venne approvata con il consenso
pressoché unanime di ambedue le aule parlamentari.
Durante
il suo regno, Re Umberto portò solidarietà alle popolazioni colpite da calamità
naturali, intervenendo in prima persona sia in visita sul posto che con aiuti
materiali e opere risanatrici. Già nel 1872, quando era ancora principe
ereditario, si era recato in Campania tra gli sciagurati dell’ eruzione del
Vesuvio. Appena salito al trono, nel 1879, assistette i siciliani colpiti dall’
Etna e nel 1882 andò in Veneto, deturpato da piogge torrenziali. Nel 1884, atteso
ad un ricevimento mondano a Pordenone, declinò l’ invito e raggiunse Napoli, colpita
dal colera, occasione in cui pronunciò una famosa frase che venne peraltro
incisa su di una stele a ricordo del triste evento: «A Pordenone si fa festa, a
Napoli si muore. Vado a Napoli.». Nel 1888 compì un gesto politicamente importante
e personalmente coraggioso: visitò la Romagna, una terra tradizionalmente
ostile alla Monarchia e quindi molto pericolosa per la prevalenza di
repubblicani, socialisti e anarchici. In preparazione, vennero svolte apposite
manovre militari, a scopo dissuasivo. In realtà la visita si svolse senza
incidenti perfino a Forlì, patria di Aurelio Saffi, uomo di riferimento dei repubblicani.
Ad accogliere il Re intervenne anche l’ ex Presidente del Consiglio Alessandro
Fortis.
Per
la sua proverbiale attenzione alle fasce deboli della popolazione e alla
tendenza a muoversi tra la folla rispondendo con compostezza aristocratica
accompagnata da pregevole cordialità venne soprannominato «Re Buono».
Nel
1893, il sovrano italiano fu implicato nel clamoroso scandalo della Banca
Romana, primo sconvolgente caso di corruzione e losco intreccio tra potere
politico, finanziario e mediatico che, tra il 1890 e il 1895, scosse dalle
fondamenta della giovane Italia. Vi furono coinvolti protagonisti come Crispi, il
Marchese Rudinì e l’ allora Presidente del Consiglio, Giovanni Giolitti. Subito
dopo la sua proclamazione a capitale nazionale nel 1871, Roma aveva conosciuto
uno sviluppo impetuoso. Migliaia di torinesi erano arrivati al seguito della
nuova amministrazione statale, faccendieri e avventurieri di ogni risma
compresi. Nei successivi vent’ anni passò da duecentomila a quattrocentomila
abitanti, e la Banca Romana prese a scontare cambiali ai costruttori, aiutando
la sfrenata speculazione edilizia. Si racconta che, quando nel 1881 Bernardo
Tanlongo, accettò la nomina a Governatore della Banca Romana, i suoi familiari
sparsero amare lacrime, presagendo future disgrazie. L’ istituto di credito era
già in pessime condizioni, con una circolazione eccessiva di crediti spesso non
riscuotibili. Tanlongo si buttò a capofitto nel vortice edilizio, assicurandosi
la compiacenza di uomini politici e giornalisti, per cifre ragguardevoli.
Quando il funzionario del Tesoro scoperchiò il baratro da lui creato, rimase
allibito: nella cassa della Banca mancavano oltre nove milioni di lire e, per
rimediare, il Governatore aveva fatto stampare occultamente nove milioni e
cinquantamila lire. Tanlongo finì in carcere per qualche tempo, insieme ad
altri complici come il direttore di un quotidiano romano, ma alla fine tutti
quanti vennero assolti: tutti e nessuno era colpevole.
Sul
processo pesò anche la presenza invisibile di Re Umberto che, alla vigilia del
processo, fu accusato di aver trasferito all’ estero una somma notevole
proveniente dalla Banca Romana a titolo non accertato, che sarebbe servita per
mantenere la pletora di amanti che gli venivano attribuite, come la bella
Bolognina. Naturalmente il suo nome non fu mai fatto in sede processuale: il
pericolo che venisse fuori anche solo incidentalmente, in sede di testimonianza
o per illazioni della stampa sulle stesse, portò alla decisione di stralciare
dagli atti qualsiasi riferimento a questa somma di danaro, il cui ammanco rimase
alla lunga ingiustificato e sortisce proprio l’ effetto di alimentare voci
incontrollate che solo il potere di Casa Savoia poté insabbiare, insieme all’
aiuto di Giolitti, che gli avrebbe garantito la copertura dei debiti in virtù
della lealtà alla Monarchia e dell’ appoggio ricevuto dalla famiglia reale in
passato.
Stampa celebrante la Triplice Alleanza;
In
politica estera, Umberto I proseguì sulla strada tracciata negli ultimi anni
dal padre, avvicinandosi progressivamente agli Imperi dell’ Europa centrale e
firmando l’ adesione nel 1882 alla Triplice Alleanza tra Italia, Austria e
Germania. Il patto militare difensivo alla base di questo accordo inizialmente
fu voluto principalmente da Roma, nel desiderio di rompere il proprio
isolamento dopo la conquista francese della Tunisia, alla quale anch’ essa
aspirava. Successivamente, con il mutarsi della situazione in Europa, l’ alleanza
fu sostenuta soprattutto dalla Germania al fine di isolare politicamente la
Francia. Il movente di questo nuovo cambio di fronte, a seguito degli aiuti
francesi al tempo del Risorgimento, fu estremamente concreto: dopo il 1870 la
Francia era una Repubblica sconfitta, quindi inutile come alleata, mentre Austria
e Germania erano ancora forti e governate saldamente da sovrani conservatori ma
non reazionari. Al fianco di Francesco Giuseppe e Guglielmo I, il Re d’ Italia in
cuor suo era consapevole di non poter aspirare a un ruolo pari al loro, ma al
tempo stesso l’ Italia avrebbe goduto di una posizione di prestigio
internazionale. Proprio in quel periodo, inoltre, il governo di Agostino
Depretis venne a sapere che papa Leone XIII stava consultando i Ministri degli
Esteri stranieri a proposito di un loro possibile intervento al fine di
ristabilire lo Stato Pontificio: l’ appoggio dell’ Impero austriaco, la nazione
cattolica più prestigiosa, sarebbe stato di grande utilità per l’ Italia al
fine di impedire un’ azione europea in aiuto del papato. Per Roma, la
conclusione di un’ alleanza con due potenze conservatrici sarebbe valsa ad
assicurare la Monarchia sabauda sia di fronte ai movimenti repubblicani di
ispirazione francese, che dall’ intervento di potenze straniere intente a restaurare
il regno papale.
In
appoggio all’ iniziativa diplomatica, fra il 21 e il 31 ottobre 1881 Umberto e
Margherita fecero visita a Vienna a Francesco Giuseppe e alla moglie
Elisabetta. Umberto e Francesco Giuseppe I erano cugini di secondo grado,
essendo rispettivamente nipoti dell’ Imperatore Francesco II d’ Austria e del
fratello minore Ranieri Giuseppe d’ Asburgo Lorena, quindi entrambi trisnipoti
di Francesco I e Maria Teresa d’ Asburgo Lorena. Il Re e la Regina consorte d’
Italia fecero un’ ottima impressione alla Corte viennese, soprattutto
Margherita, che per grazia ed eleganza venne paragonata all’ Imperatrice d’
Austria. Lo stesso Umberto, rigido, severo e austero, fece una così bella
figura che il cugino e antico avversario gli concesse la nomina a colonnello
onorario del XXVIII Reggimento fanteria: il gesto non mancò di suscitare
polemiche in Italia presso, visto che il reggimento austriaco di cui il Re era
stato fatto colonnello era lo stesso che aveva partecipato alla battaglia di
Novara del 1849 e all’ occupazione di Brescia, partecipando attivamente alla
spietata repressione che causò la morte di migliaia di uomini, donne e bambini
bresciani.
I reali italiani ospiti di quelli austriaci;
Il
22 aprile 1897 il Re subì un secondo tentativo di assassinio. Mentre si recava alle
corse ippiche sull’ Appia, organizzate in occasione del ventinovesimo anniversario
del suo matrimonio con Margherita, un anarchico di nome Pietro Acciarito si
mescolò tra la folla che salutava il suo arrivo di Umberto I presso l’ ippodromo
delle Capannelle e si buttò verso la sua carrozza armato di coltello. Umberto
notò tempestivamente l’ attacco e riuscì a schivarlo, rimanendo illeso.
Acciarito venne arrestato e condannato all’ ergastolo. Analogamente a Giovanni
Passannante, la sua pena fu molto rigida ed ebbe gravi conseguenze sulla sua
salute mentale. Come in occasione del primo tentato regicidio, si ipotizzò una
cospirazione antimonarchica, sebbene Acciarito avesse smentito tutto dichiarando
di aver agito da solo, e vennero arrestati diversi esponenti socialisti,
anarchici e repubblicani, sospettati di aver avuto legami con l’ estremista.
Tra questi venne incarcerato un altro anarchico di nome Romeo Frezzi, un amico
di Acciarito, perché in possesso di una sua foto: morì al terzo giorno d’ interrogatorio.
Sorsero varie dicerie sul suo decesso, tra suicidio e aneurisma, sebbene l’ autopsia
confermò che avvenne per sevizie subite dagli agenti di pubblica sicurezza, nel
tentativo di estorcere una confessione di connivenza con Acciarito. La vicenda
suscitò sommosse popolari contro la Monarchia.
Mentre
cominciavano i primi segni della crisi economica che culminò nel quinquennio
tra il 1888 e il 1893, in cui ebbe luogo peraltro una fortissima migrazione
alla volta dei Paesi europei vicini e degli Stati Uniti, per non essere da meno
rispetto alle grandi potenze contemporanee Umberto appoggiò con convinzione la
politica di espansionismo coloniale dei governi Depretis e Crispi, acquisendo l’
Eritrea nel 1882 e la Somalia nel 1889, mentre con la sconfitta di Adua del
1896 fallì il tentativo di conquistare l’ Etiopia. La politica coloniale fu
dispendiosa e purtroppo non portò gli attesi benefici derivanti dall’ apertura
di nuovi mercati e il cui costo dovette essere ripagato con l’ aumento delle
imposte. Con le dimissioni di Crispi finì anche l’ avventura coloniale.
Umberto e Vittorio Emanuele nel 1893;
Dopo
il periodo della Lunga depressione, nel 1895 iniziò la fase di espansione dell’
economia italiana, un vero e proprio primo decollo industriale. Il Paese aveva
bisogno di vivere un periodo di stabilità sociale e di pace internazionale per
favorire i propri commerci. I socialisti, dopo la dura repressione adottata da
Crispi, si riorganizzarono, e il giorno di Natale 1896 fecero uscire il primo
numero del loro quotidiano Avanti!. Il
mondo cattolico non fu da meno: intorno al giornale Democrazia cristiana iniziò a coagularsi un movimento che sosteneva
l’ impegno diretto in politica, contro l’ atteggiamento intransigente dell’ Opera
dei Congressi cattolica, che continuava la ferma e dura protesta contro lo
Stato liberale sabaudo, chiedendo ai credenti di non partecipare alle elezioni.
Mentre
nel Paese crescevano tali fermenti democratici, ci fu chi tra gli industriali,
gli agrari e gli ambienti militanti decise di rivolgersi al Re per mezzo di Sidney
Sonnino, un importante esponente del conservatorismo liberale che chiese alla
Corona di riprendere i poteri. Disse il gentiluomo: «Maestà, vigilate a
mantenere integre le funzioni affidatevi e che i successivi ministeri hanno
lasciato che Vi fossero usurpate o hanno cercato di carpirVi.
A
Voi solo spetta il potere esecutivo. A Voi solo spetta la nomina e la revoca
dei ministri che debbono controfirmare e rispondere dei vostri atti di governo.
La nazione guarda a Voi, e fida in Voi.». Ai prefetti vennero inviate circolari
nelle quali li si invitava ad operare una stretta sorveglianza sui partiti
indicati come sovversivi e sulle stesse organizzazioni cattoliche. Che ci fosse
un profondo malessere sociale, dovuto anche al crescente squilibrio fra Settentrione
e Meridione, era cosa palpabile. Pur in presenza di una ripresa economica nelle
regioni nordiche, favorita anche dai bassi salari e dalle pesanti condizioni di
lavoro, erano aumentati gli italiani, specie nel Meridione, che sceglievano la
via delle emigrazione. Nel Settentrione iniziò un’ ondata di scioperi nelle
fabbriche.
Nel
1898, a causa della Guerra ispano-americana che aveva determinato l’ aumento
dei noli marittimi, il prezzo del grano arrivò quasi a raddoppiare e il
governo, che da questa tassa che colpiva uno degli alimenti di base delle
classi povere traeva importanti entrate, tardò a ridurlo. Quando infine si
decise a eliminarlo, i moti popolari erano ormai incontrollabili. Non si
trattava di una rivolta politica, in nome di un’ ideologia: era la ribellione
di un popolo povero e affamato verso una Monarchia e un governo che percepiva
lontani dai propri problemi. Quando, tra il 6 e il 9 maggio, scoppiarono nuovi
tumulti a Milano, il generale Fiorenzo Bava Beccaris proclamò lo stato d’ assedio
e affrontò a cannonate i dimostranti: si contarono almeno ottantatré morti e
centinaia di feriti. Seguì un’ondata di arresti e vennero soppresse moltissime
associazioni sindacali, partiti, cooperative e Camere del lavoro, oltre a un
centinaio di giornali. I progressisti più in vista furono arrestati e
condannati a pene durissime: ricordiamo i dodici anni inflitti a Turati e i tre
a don Davide Albertario, il sacerdote, direttore della rivista L’ Osservatore cattolico, che aveva
osato dire: «Il popolo vi ha chiesto pane e voi avete risposto piombo.».
Di
fronte alla sanguinosa e dura repressione, Re Umberto concesse a Bava Beccaris
la croce di Grand’ ufficiale dell’ Ordine di Savoia con la motivazione: «Grande
servizio reso alle istituzioni e alla civiltà.».
La
concessione dell’ onorificenza al generale per il sanguinoso intervento
adottato per placare le proteste milanesi e l’ accettazione negli ultimi anni
dell’ autoritarismo e del conservatorismo intrapresa dai suoi governi fecero di
Umberto un monarca molto discusso, per quanto in molti compresero il suo timore
dinnanzi all’ avanzata del movimento socialista e ai tentativi di assassinio in
nome dell’ ideologia anarchica. Proprio dagli anarchici, ricevette il soprannome
di «Re Mitraglia», che contrapposero a quello di «Re Buono».
Come
era consueto in Casa Savoia così come in molte altre famiglie reali, il sovrano
italiano non fu mai un padre presente e neppure affettuoso nei riguardi del
figlio Vittorio Emanuele, a cui generalmente si rivolgeva come Re e superiore
nella gerarchia militare. Dopo la nascita a Napoli ne aveva disposto l’ affido a
una balia locale per l’ allattamento, mentre per la sua prima educazione
Margherita aveva scelto una bambinaia irlandese di nome Elizabeth Lee, detta
familiarmente Bessie, vedova di un ufficiale britannico e soprattutto cattolica
osservante. Ella sarebbe rimasta per quattordici anni assieme al giovane Principe
di Napoli, e fu probabilmente la sola persona per la quale egli avesse mai
sviluppato affetto filiale. Figlio unico di cugini primi, gracile e smunto, alto
solo un metro e cinquantatré, con gambe sproporzionatamente corte rispetto al
resto del corpo, deboli e storte, e ogni esercizio fisico un po’ intenso gli
provocava violenti dolori che gli rendevano difficile anche stare in piedi, un
problema che si presentava soprattutto dopo aver lungamente montato a cavallo.
Alla sua nascita, negli ambienti clericali romani si era insinuata la voce che
le carenze fisiche del neonato erede al trono fosse il castigo divino contro
una dinastia che aveva perpetrato il crimine della presa città santa del mondo
cristiano, mentre altri più verosimilmente attribuirono il fatto ai troppo frequenti
matrimoni tra cugini. Umberto non nascondeva affatto l’ irritazione di avere un
figlio che gli pareva un povero storpio, e non esitò mai a dirglielo
brutalmente in faccia, attribuendo la causa dei suoi limiti esteriori alla propria
consanguineità con la consorte. Persino la madre Margherita era molto fredda
nei suoi confronti. L’ erede al trono crebbe nel tipico ambiente familiare
sabaudo, rigido e militare, e come suo precettore era stato scelto il
colonnello di Stato Maggiore Egidio Osio, su suggerimento del principe Federico
di Germania, dopo un periodo trascorso come responsabile militare all’ ambasciata
italiana a Berlino: uomo molto duro, imperioso e abituato al comando, quest’
ufficiale con alcuni trascorsi nelle campagne risorgimentali impresse al
principe ereditario un’ educazione sul modello prussiano del Re in arme.
Umberto
e Margherita, che mangiavano con il figlio solo due volte a settimana, non si
occuparono mai del figlio ed erede. In quegli anni difficili, tuttavia, si
preoccuparono circa la questione del suo matrimonio: nessun Savoia era mai
giunto alla soglia dei venticinque anni ancora scapolo, ma lui non mostrava
alcuna intenzione di sposarsi. Questo divenne un tema di importanza notevole
all’ interno della Triplice Alleanza, di cui l’ Italia faceva parte: lo stesso Imperatore
Guglielmo II di Germania se ne interessò e, approfittando di una visita a
Berlino del Principe di Napoli, lo affrontò di petto redarguendolo: «Perché non
vi decidete a prendere moglie?». Seppur molto giovane, Vittorio Emanuele
dimostrò caparbietà tenendogli testa e invitandolo a non impicciarsi negli
affari suoi. Alla fine, nel 1896, venne combinato un matrimonio tra lui e la
principessa Elena del Montenegro, la cui famiglia, Casa Petrović-Njegoš, era
molto legata da vincoli politici e familiari ai Romanov di Russia: il
matrimonio con un’ esponente della più antica famiglia di principi balcanici,
nonostante la relativa povertà e l’ inferiorità del lignaggio se comparato a
quello sabaudo, rafforzava la politica italiana nelle regioni al di là del Mare
Adriatico, sebbene in molti negli ambienti di corte e politici a storsero il
naso al pensiero di questa unione, ricordando quanto i Savoia fossero la più
antica famiglia reale europea dopo gli Hohenzollern, mentre Nicola I del
Montenegro proveniva da un casato recente e meno rilevante. Il giovane Vittorio
Emanuele era all’ oscuro dell’ interesse che il governo aveva nell’
indirizzarlo verso Elena, ma dimostrava un autentico interesse nei suoi
riguardi, tanto che decise di parlarne ai genitori. Era timoroso che il freddo
e autoritario padre s’ incollerisse analogamente alla madre per questa sua
infatuazione: invece, per sua grande sorpresa, entrambi i genitori furono
talmente felici da gettargli pure le braccia al collo in un raro momento di
tenerezza.
Il
matrimonio, per nulla sfarzoso, fu celebrato al Quirinale con rito civile,
seguito da quello religioso cattolico nella basilica di Santa Maria degli
Angeli e dei Martiri il 24 ottobre 1896. A celebrare le nozze fu monsignor
Piscicelli, Gran Priore di Bari. Durante la cerimonia, secondo l’ etichetta, nel momento in cui gli fu chiesto se voleva unirsi in matrimonio con la principessa montenegrina, Vittorio Emanuele si volse verso il padre per domandargli: «Padre mio, me lo permettete?». Dovette ripetere la domanda, in quanto il Re suo padre si era addormentato e si ridestò con una gomitata al fianco da parte di Margherita.
Il Re e la Regina cosorte al matrimonio del figlio;
Il
29 luglio 1900 Umberto fu invitato a Monza alla cerimonia di chiusura del
concorso ginnico organizzato dalla società sportiva Forti e Liberi. Non era
tenuto a presenziare, ma fu convinto dalla circostanza che al saggio sarebbero
state presenti le squadre di Trento e Trieste. Per lui e Margherita fu un
giorno ordinario, come tanti altri che avevano trascorso in oltre trent’ anni
di soggiorni alla residenza reale locale. Il Re si svegliò alle 7:30 in punto,
dopo una notte afosa in cui la temperatura aveva superato i trentasei gradi.
Alle 9:00 si fece la solita cavalcata nel parco, scendendo alle scuderie dalla
porticina segreta nascosta da un’ anta d’ armadio nella stanza guardaroba
attigua alla sua camera da letto, la stessa che usava per filare via dalla bella
Bolognina. Aveva cinquantasei anni e baffoni immacolati grandi e tesi come un
manubrio. Alle 11:00 si congedò dalla storica amante, promettendole un’ altra
visita per la sera, quando sarebbe rientrato dalla cerimonia alla palestra.
Mezz’ ora dopo, ricondusse il cavallo nella scuderia risalì nel proprio studio,
per darsi alla lettura della corrispondenza, tra cui era presente un telegramma
del figlio che gli annunciava l’ imminente rientro dalla crociera intrapresa
con la nuora a bordo dello Jela tra
l’Asia Minore e la Grecia. Ne parlò a Margherita a colazione, fissata come di
consueto alle 12:30. Chiese alla moglie se intendesse accompagnarlo all’ evento
della Forti e Liberi, ma lei gli rispose che preferiva restare lì, a conversare
con le sue dame e pochi altri invitati. Sentendolo tossire ripetutamente, la Regina
consorte gli suggerì di rinunciare a sua volta all’ impegno: il caldo umido e
l’ eccesso di sudorazione avrebbero potuto nuocergli seriamente. Ma Umberto la
rassicurò: aveva dato la sua parola e poi il tutto non sarebbe durato che una mezz’
oretta. Oramai erano come fratello e sorella, anzi come due veri e affiatati
cugini. Il Re tossì perché, di nascosto da lei, dopo un decennio di eroica
astinenza aveva ripreso a fumare, anche se molto di meno che un tempo e non più
i Virginia o gli altri sigari che lo facevano tossire, ma semplici sigarette
che spesso rollava lui con le sue mani, usando tabacco montenegrino spedito a
volontà dal consuocero Nicola del Montenegro.
Secondo
quanto raccontò il suo aiutante di campo, il generale Emilio Ponzio Vaglia,
solo uno strano evento turbò la serenità del monarca in quelle ore. La sera del
28 luglio sarebbe andato con il Ministro della Real Casa a cena in un
ristorante monzese, dove restarono entrambi colpiti dalla singolare somiglianza
tra lui e il proprietario del locale. Il sovrano rimase molto colpito tanto che
rimase a parlargli e, commentando insieme la loro somiglianza, scoprirono altri
elementi che li accomunavano: erano nati tutti e due nello stesso giorno e
nella stessa città, ossia a Torino il 14 marzo 1844, avevano sposato una donna
di nome Margherita e il ristoratore aveva inaugurato il suo locale nello stesso
giorno in cui il monarca saliva al trono, cioè il 9 gennaio 1878. Preso da un’
istintiva complicità con il suo sosia, Umberto lo invitò alla manifestazione in
programma alla palestra Forti e Liberi. Il pomeriggio seguente, però, Umberto
impallidì nell’ apprendere da Ponzio Vaglia che l’ uomo era morto per un colpo
d’ arma da fuoco.
Alle
13:30, mentre la canicola toccava l’ apice, i sovrani lasciarono la sala da
pranzo e si diressero ognuno al proprio appartamento. Alle 19:30 si rividero
per la cena, molto rapida, perché lui doveva risalire e prepararsi per la
cerimonia. Un’ ora dopo iniziava il saggio ginnico alla Forti e Liberi, in via
Matteo Campioni. Intorno al campo si era radunato un folto pubblico che irrompeva
in un applauso patriottico all’ ingresso di una squadra venuta dall’ irredenta
Trento. Alle 21:25, il Re, congedatosi dalla moglie, salì sulla carrozza, una
Daumont a quattro posti aperta e trainata da due pariglie di cavalli,
accompagnato da Ponzio Vaglia. Umberto prese posto nella tribuna d’ onore. Alle
22:00 la gara terminò e il sovrano procedette alla premiazione, soffermandosi a
parlare con i trentini, classificatisi al terzo posto, poi con alcuni ufficiali
e con i componenti del Comitato organizzatore, tra i quali vi erano il sindaco
di Monza Enea Corbetta e il deputato Oreste Pennati, al quale, nostalgico, il
Re disse: «Anch’ io, sa, in gioventù ho fatto tanta ginnastica!». Era di ottimo
umore: «Fra questi giovanotti in gamba mi sento ringiovanire.».
Alle
22:20 circa risalì sulla Daumont e si sedette in modo da dare il volto al
pubblico, andando via. Alla sua destra, accanto a lui, sedeva Ponzio Vaglia. I
cavalli si mossero quattro minuti dopo e, a quel punto, un giovane uomo,
sgomitando tra la folla, si avvicinò alla carrozza, mise la mano nella tasca
dei calzoni e ne estrasse una Massachussets a cinque colpi. Quando Umberto gli
passò a tre metri di distanza lui era già pronto e gli sparò più volte, con un
certo sangue freddo. Il Re venne raggiunto a una spalla, al polmone e al cuore,
ed ebbe appena il tempo di mormorare: «Avanti, credo di essere ferito.». Subito
dopo cadde riverso sulle ginocchia del generale Ponzio Vaglia, che gli sedeva
di fronte. La gente, resasi conto dell’ accaduto, cominciò a urlare e muoversi
in modo scomposto, poi a dare addosso all’ attentatore. I cavalli si impennano,
il cocchiere li sferzò disperatamente e la vettura partì al galoppo verso la residenza
reale, mentre il maresciallo dei carabinieri, Giuseppe Salvatori, aiutato da
tutto un gruppo anche di civili, arrestò l’ attentatore, proteggendolo a stento dall’ ira della folla atterrita e
inferocita. L’ uomo rimase addirittura senza i pantaloni dopo la colluttazione,
e il suo volto era irriconoscibile per il sangue e le tumefazioni. A caldo,
disse soltanto: «Non ho ucciso Umberto, ho ucciso un Re, ho ucciso un principio!».
La
Daumont procedette verso la dimora, trasportando il sovrano morente, piegato su
un fianco, con il respiro stentato, in un rantolo. Quando la carrozza varcò i
cancelli, alle 22:50, il Re morì. Nella camera del monarca, poco dopo le 23:00,
sopraggiunse il medico di corte Luigi Erba, che confermò alla Regina consorte
il responso: il Re era morto. Margherita ebbe uno scoppio di pianto convulso.
La allontanarono quasi di peso i due medici, per poi tornare e stilare con il
collega la relazione sulla causa del decesso. Sul cadavere vennero riscontrate
tre ferite: una alla punta del cuore penetrante in cavità, e una alla fossa
sopraclavicolare sinistra. Il proiettile, attraversando la cavità polmonare, si
era conficcato al disotto della spina scapolare. La terza ferita, penetrante
fra la quinta e la sesta costola, lungo la linea ascellare destra e la spalla,
e perforante fegato e stomaco, si avvertiva al disopra della punta dello
sterno.
Il
corpo fu ripulito e posto di nuovo sul letto, dopo che era stato adagiato su un
materasso a terra per il referto medico. Poi furono chiusi per sempre gli occhi
al Re buono. In quel momento rientrò Margherita, seguita dall’ arciprete di
Monza, monsignor Rossi, dal cappellano di corte monsignor Pietro Bignami e dal
parroco di Santa Maria alla Strada: li aveva fatti chiamare per le orazioni
funebri e la benedizione della salma, visto che il marito era morto senza il
conforto dei sacramenti. La Regina madre e poi tutti gli altri s’ inginocchiano.
Di nuovo piangendo, lei baciò e ribaciò Umberto pronunciando la celebre frase:
«Hanno ucciso te, che tanto amavi il tuo popolo! Eri tanto buono, non facesti
male a nessuno e ti hanno ucciso! Questo è il più gran delitto del secolo.». Con
un atto di grande umanità, invitò perfino la storica amante del marito, la
bella Bolognina, ad unirsi a lei e pregare per il caro defunto. Nel 1891, nove
anni prima, il loro figlio, Alfonso, era morto giovanissimo. Margherita trovò
poi nella camera l’ ultima cicca del marito e la conservò in un ricco astuccio
intarsiato per donarlo poi alla nuora Elena, la quale a sua volta l’ avrebbe
poi dato, in punto di morte, alla vecchia amica e dama di compagnia Hélène
Jaccarino, nata Rochefort de la Rochelle.
Raffigurazione del regicidio di Monza;
L’agenzia
di stampa Stefani, la prima della storia d’ Italia, diffuse la notizia la
mattina del 30 luglio: «Ieri alle ore 21:30, il Re, accogliendo l’ invito del
Comitato del Concorso provinciale ginnastico apertosi il 29 corr., si recava
alla palestra, accolto dalle Autorità e dalla popolazione acclamante; alle 22:30,
finita la premiazione e mentre il Re stava per uscire dalla Palestra in
carrozza coperta, furono improvvisamente sparati quattro colpi di rivoltella da
un individuo che venne arrestato e a tempo sottratto dal furore popolare. Il Re
venne colpito da tre proiettili, uno dei quali toccò il cuore; giunse al
palazzo esanime. Il regicida si qualifica per Bresci Gaetano fu Gaspare e fu
Maddalena Gobbi, nato a Prato il 10 novembre 1869, tessitore di seta. Dicesi anarchico
e proveniente dall’America. Dice di non avere complici e di avere commesso l’ esecrando
delitto in odio alla istituzione che il Re rappresenta. Sarebbe qui giunto il
27 luglio da Milano, ove si trovava da alcuni giorni.».
Tratto
in arresto, il regicida venne sottoposto a indagini e a un processo piuttosto
sbrigativi. Fu identificato come Gaetano Bresci, nato a Prato il 10 novembre
1869. Figlio di contadini, si era stabilito a Paterson, in New Jersey, nel
1898, dove trovò lavoro nell’ industria tessile come decoratore in seta. Di
aperte simpatie anarchiche, venne a conoscenza della feroce repressione nel
1894 dei fasci siciliani da parte di Crispi e di quella dei moti di Milano del
1898, repressa dal generale Bava Beccaris. Interrogato subito dopo l’ arresto,
dichiarò: «Ho attentato al Capo dello Stato perché è responsabile di tutte le
vittime pallide e sanguinanti del sistema che lui rappresenta e fa difendere.
Concepii tale disegnamento dopo le sanguinose repressioni avvenute in Sicilia
in seguito agli stati d’ assedio emanati per decreto reale. E dopo avvenute le
altre repressioni del ‘98 ancora più numerose e più barbare, sempre in seguito
agli stati d'assedio emanati con decreto reale.». Fu recluso dapprima nel
carcere di San Vittore, poi, subito dopo il processo al cui termine fu
condannato all’ ergastolo, nel carcere di Forte Longone, sull’ isola d’ Elba,
in una delle venti celle che formavano la sezione d’ isolamento denominata «la
Rissa», sotto una finestra della quale egli scrisse: «La tomba dei vivi». Indossava
la divisa degli ergastolani con le mostrine nere, che indicavano i colpevoli
dei delitti più gravi.
Subito
dopo la morte di Umberto cominciò a circolare l’ ipotesi, sostenuta con
insistenza dalla polizia e dai giornali, che Bresci non avesse agito da solo ma
insieme a una rete internazionale di complici, forse su spinta di qualcuno più
in alto di loro. Si ipotizzò addirittura che dietro all’ assassinio ci fosse
Maria Sofia di Baviera, ex Regina delle due Sicilie, e le indagini per cercare
questi complici furono condotte anche negli Stati Uniti, da dove Bresci era
partito. Delle indagini oltreoceano si occupò Joe Petrosino, celebre investigatore
italiano rimasto famoso nella polizia di New York per i metodi di lotta alla
criminalità organizzata, il quale arrivò alla conclusione che la rete
internazionale anarchica esisteva e che Paterson era una parte fondamentale di
questa rete. L’ ipotesi del complotto sopravvive ancora oggi, ma in realtà non
ci sono prove che la sostengano e Bresci sostenne sempre di aver agito da solo.
E’ più verosimile che i vari attentatori di tale periodo storico agissero
sempre da soli, forse ispirandosi vicendevolmente, ma mai spinti da una presunta
rete internazionale di anarchici, né tantomeno da qualcuno al di sopra di essa.
Il nuovo Re, Vittorio Emnuele III;
Il
9 agosto si celebrò il funerale a Roma. Vittorio Emanuele, ora terzo Re d’
Italia con il nome Vittorio Emanuele III, da sempre estraneo al padre e al suo
mondo, rimase impassibile per tutto il tempo, facendo qualche domanda al
personale delle pompe funebri sulla tecnica di saldatura dei coperchi delle
bare. Durante la funzione religiosa sbottò: «Ma quanto la fanno lunga, questi
preti.». Tale affermazione ebbe ampio risalto e negli anni seguenti fu spesso
usata per sostenere che fosse legato alla Massoneria, cosa non vera. Benché
fosse un giovedì torrido, due gremite ali di folla seguirono il feretro. Si era
instaurato un tale clima di nervosismo che bastò un mulo imbizzarrito di una
rappresentanza del corpo degli Alpini per scatenare un fuggi-fuggi generale al
grido: «Gli
anarchici!». Tale fu il terrore che questo coinvolse anche il gruppo dei reali,
tanto che Nicola I del Montenegro balzò davanti al genero Vittorio Emanuele per
fargli da scudo contro un eventuale attentato. Ristabilita la calma, la salma
del defunto monarca venne tumulata nel Pantheon accanto a quella del padre,
Vittorio Emanuele II. Il 13 agosto diventò giorno di lutto nazionale.
Quasi
un anno dopo, il 22 maggio 1901, Bresci venne trovato morto in cella: penzolava
dall’ inferriata alla quale era appeso per il collo mediante l’ asciugamano in
dotazione o, secondo altri, un lenzuolo. La sua morte fu un mistero, e per
quanto ufficialmente sancita come suicidio ancora oggi viene indicata come
possibile omicidio.
Due lire in argento del 1887, con il volto del Re Buono;
Con
la morte di Umberto I chiudeva l’ era di un Re che aveva vissuto i momenti più
importanti della storia del suo Paese. Un monarca che, dopo aver contribuito a
costruirlo, non era riuscito a raggiungere l’ enorme popolarità del padre e
imporsi con costanza ai vertici della politica, incoraggiando la riduzione dei
costi della burocrazia e delle spese militari per investire nelle
infrastrutture e in un più elevato livello di istruzione, secondo le
condizioni per un reale sviluppo. Vissuto in un’ epoca turbolenta di
assestamento nazionale, politico, militare, culturale e sociale, Re Umberto fu
certamente un uomo operoso e leale, costante nel proprio impegno. Fu un sovrano
costituzionale molto ben calato nel ruolo di arbitro imparziale, del Re che
regna senza governare, e contando sul grande contributo della Regina Margherita
rese popolare la Monarchia e consolidò l’ unità nazionale. Partecipò alle
guerre risorgimentali, venendo esaltato anche da Edmondo De Amicis nel libro «Cuore».
Tuttavia, non si impose mai come aveva fatto il padre, facendo la differenza
proprio con la forza della neutralità politica e dando ascolto alle necessità
di modernizzazione e riforme in un Paese nascente che aveva bisogno di muoversi
lungo vie slegate dai vecchi schemi. Certamente, nel corso del suo regno ebbero
luogo numerose innovazioni in campo sociale come l’ allargamento della base
elettorale, l’ istruzione elementare obbligatoria e gratuita, la lotta all’ analfabetismo,
il miglioramento della rete sia stradale che ferroviaria, nonché l’ avvio di
quel processo d'industrializzazione che avrebbe portato l’ Italia, partita in
ritardo, ad affiancarsi ai paesi più avanzati d’ Europa. Lui stesso diede prova
di grandi doti di generosità in occasione delle numerose calamità che ebbero
luogo in Italia, ma sostenne un po’ eccessivamente gli atteggiamenti autoritari
dei suoi governi sotto la pur comprensibile paura delle agitazioni proletarie e
anarchiche, come confermato dalla concessione dell’ onorificenza a Bava
Beccaris. Abbracciare e incoraggiare una mentalità sensibilmente meno rigida e
conservatrice gli avrebbe non soltanto salvato la vita a Monza, ma sarebbe
stata capace di sospingere una più ampia stagione di riforme e crescita dell’
Italia.
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