Re Vittorio Emanuele II e l’ amata Bela Rosin; |
«Regina senza
trono e senza corona.» Costantino Nigra a proposito della Bela Rosin;
Si
può affermare con una certa sicurezza che il termine «amore» sia uno dei più
usati e persino abusati di tutti i tempi: libri, poesie, canzoni e film lo ripetono
all’ infinito, tanto che oggi viviamo in una società in cui viene spesso usato
a sproposito, quindi comprenderne il vero senso risulta molto difficile, eppure
è necessario per comprenderne l’ importanza e il beneficio che può donare a noi
stessi e alle nostre relazioni, contribuendo ad arricchirle e a prolungarle. In
questo solo vocabolo sono racchiusi infiniti significati. Alcuni, ad esempio lo
definiscono un trasporto quasi involontario, incontrollabile e passionale verso
un’ altra persona, un sentimento quasi animalesco legato più al corpo che all’ anima,
mentre per altri significa desiderare che l’ altra persona sia felice e fare di
tutto perché ciò accada. Il concetto alla base di questa parola è costantemente
mutato nel tempo, tanto che oggi si potrebbe affermare che amare significhi accettare
la persona che si ama così com’ è, con tutti i suoi pregi e difetti, sebbene
non manchi chi ragiona sul fatto che pretendere di cambiare chi si ama possa equivalere
a non amarlo del tutto, oppure se sia possibile desiderare un mutamento nella
persona amata in maniera disinteressata, auspicando cioè una trasformazione che
porti quella persona ad essere più felice nel suo esclusivo interesse. In tal
senso, pare assai più appropriato il concetto secondo cui ci si innamora di
qualcuno per la sua unicità. Secondo i più, innamorarsi è quanto di più sconvolgente
e sublime si possa provare, tanto nella gioia quanto nel dolore, qualcosa che si
accarezza, si vive e si ruba nutrendo il cuore. E’ la sola emozione della sfera
umana che porta oltre la vita, calandosi in un alone di immortalità e infinito sconosciuto
allo spirito, di condivisione e complicità, di maturità e determinazione, di
interesse e bisogno, di tenerezza e compassione, rappresentando il donare sé
stessi all’ altro e fondendosi in una relazione indissolubile di una sola
anima. L’ amore riesce quindi a districare quel groviglio di pulsioni, emozioni
e passioni che confondono i bisogni e le ragioni, affinché scorrano fluide ed
indipendenti, dentro gli infiniti rivoli del nostro cuore.
Naturale
conseguenza dell’ esperienza amorosa è il matrimonio, quel particolare impegno
tra due persone a vivere insieme risalente agli albori della civiltà umana, tanto
che secondo svariate testimonianze avrebbe avuto origine già nella Preistoria,
affinandosi costantemente nelle epoche successive assumendo un valore
differente a seconda delle culture e del periodo storico, pur basandosi su
valori tradizionali quali unione morale, fisica e legale tra un uomo, il marito,
e una donna, la moglie, in completa comunità di vita, tesa a fondare una
famiglia e una discendenza. Oggigiorno il valore più importante e tutelato dell’
unione coniugale è proprio l’ amore, tanto che la legge sostiene apertamente che
un matrimonio può ritenersi valido solo se entrambi i coniugi hanno preso la
decisione di unirsi autonomamente, senza pressioni esterne, riconoscendo loro
il diritto di divorziare nel caso in cui la reciproca armonia dovesse venire a
mancare, cosa che in passato non era affatto scontata: nel corso della storia,
infatti, non erano rari i casi in cui un matrimonio veniva combinato dai padri degli
sposi, oppure dal padre di lei direttamente con il pretendente ritenuto più
idoneo, senza tenere conto dei desideri della sposa, destinata a passare la
vita con un estraneo molto diverso da lei oppure più vecchio, finendo con il
rivestire il ruolo di merce tesa ad accrescere il patrimonio e l’ importanza famigliari.
Nella nobiltà, soprattutto tra le famiglie reali, e in seguito nell’ alta borghesia,
il matrimonio significava proprio questo: un contratto, un’ unione vantaggiosa
per entrambe le parti e resa indissolubile dai legami di sangue che ne
sarebbero derivati, una pratica privilegiata con cui avvicinare vasti e articolati
interessi politici e sociali, consacrati dal valore parentale. Tra le famiglie contadine, invece, rappresentava un utile espediente con cui preservare più facilmente il patrimonio terreno all ’ interno dello stesso ceppo parentale, ricorrendo abitualmente ad unioni tra cugini, anche di primo grado.
La
storia d’ amore tra Vittorio Emanuele II, primo re d’ Italia tra il 1861 e il
1878, appartenente ad una delle più antiche ed illustri famiglie reali europee, dalle
origini quasi millenarie, e Rosa Vercellana, meglio nota come «Bela Rosin», una popolana
analfabeta, figlia di un militare di carriera e promossa al rango di contessa
di Mirafiori e Fontanafredda, rappresenta da sempre una bella storia d’ amore,
che continua ad affascinare tuttora per i sentimenti evidentemente autentici
sbocciati tra i due in aperta sfida alle loro differenze di rango, alle
ostilità della corte sabauda e persino alla proverbiale abitudine da parte di
lui a concedersi una scappatella dietro l’ altra, che gli valse una lunga e
imprecisata sfilza di figli illegittimi. Lei non fu mai una patriota impegnata
nella lotta per l’ unità nazionale, come Giuditta Sidoli, e neppure una
testimone seppur minima del Risorgimento, come Olimpia Savio: non parlava mai
di faccende di corte o di politica, ma con la sua semplicità permetteva a
Vittorio Emanuele di liberarsi dagli impegnativi e solenni abiti del sovrano
per indossare quelli di più semplici e gradevoli dell’ uomo amato, compreso e
accettato per quello che era veramente. Circa la sua bellezza si discute ancora
oggi: con le sue abbondanze e i suoi tratti grezzi aveva certamente il suo
fascino, in tono con i criteri dell’ epoca, ma se fosse vissuta un secolo e
mezzo più tardi, molto probabilmente non sarebbe diventata modella o un «simbolo
sessuale» del fenomeno del divismo, forse nemmeno una comprimaria da
palcoscenico.
Quel
che unì il sovrano sabaudo e la popolana di provenienza astigiana fu un
rapporto di amore vero, vissuto nell’ era del Romanticismo, delle disperazioni
amorose, delle lacrime e dei sospiri, degli svenimenti e delle donne fatali, e rappresentò
l’ insolita vicenda di una donna qualunque, non ambiziosa e neppure intrigante,
ascesa ai vertici della società per la sua avvenenza e, una volta che questa
era sfiorita, per la capacità di creare intorno all’ uomo che amava una
tranquillità tipicamente borghese, un rasserenante ambiente familiare di cui lui
aveva bisogno come persona.
Ritratto ufficiale di Vittorio Emanuele; |
Vittorio
Emanuele Maria Alberto Eugenio Ferdinando Tommaso di Savoia nacque il 14 marzo
1820 a Torino, figlio primogenito di Carlo Alberto, VII principe di Carignano,
e Maria Teresa d’ Asburgo-Lorena di Toscana, figlia di Ferdinando III di
Toscana. Trascorse i primi anni della sua vita a Firenze, in quanto il padre,
uno dei pochi membri di sesso maschile viventi di Casa Savoia, appartenente al
ramo cadetto dei Carignano, era stato costretto a trasferirsi con la famiglia a
Novara, dato il suo coinvolgimento nei disordini del 1821, nei quali aveva appoggiato
i congiurati che volevano imporre la costituzione a Vittorio Emanuele I, re di
Piemonte e Sardegna, finché il suo successore, Carlo Felice, gli fece pervenire
un ordine di trasferimento in Toscana, oltre i confini del Regno. Ad appena due
anni, il piccolo Vittorio Emanuele fu protagonista di un incidente che portò
presto alla nascita di chiacchiere, miti e leggende ancora oggi ampiamente discussi, soprattutto a causa dei rapporti ufficiali preparati in modo frettoloso e confuso:
così come venne documentato, la sera del 16 settembre dormiva nella propria
culla, circondato da un nugolo di insistenti zanzare, finché la balia Teresa
Zanotti Rasca, che lo vegliava, si avvicinò con una candela accesa nell’
intento di bruciarle. Inavvertitamente, la ragazza fece bruciare la culla, e
dopo un attimo di spavento si lanciò verso di essa sottraendo il piccolo principe
ad una sorte atroce. Se lui riportò leggere scottature al fianco sinistro e
alla mano destra, che guarirono in pochi giorni, la sfortunata nutrice invece morì
il successivo 6 ottobre, dopo venti giorni di agonia in quanto il suo intero
vestito era andato a fuoco, ustionandola gravemente. La ricostruzione lasciò
ovviamente alcuni dubbi, dalla culla distrutta dalle fiamme alla povera bambinaia
defunta, con il bambino rimasto miracolosamente incolume. Subito dopo,
pertanto, si disse che il bambino fosse in realtà morto, e che i genitori, preoccupati
per la successione al trono sabaudo, avessero deciso di occultare la tragedia facendolo
sostituire con un pargolo della stessa età, figlio di un macellaio di nome
Tanaca, di Poggio Imperiale, di cui aveva denunciato ufficialmente la
scomparsa, mentre secondo altre voci sarebbe stato scambiato con il bambino di
un certo Mazzucca, a sua volta macellaio presso la vicina Porta Romana. Tale
ipotesi, sostenuta dal fatto che Tanaca qualche anno dopo sarebbe divenuto
improvvisamente ricco, venne tuttavia confutata dalla maggior parte degli
storici, che la definirono improbabile e dubbiosa, confinandola nell’ ambito
delle semplici maldicenze, soprattutto considerando il fatto che Carlo Alberto
e Maria Teresa, ancora in giovane età e quindi pienamente in grado di generare
altri figli, appena due mesi dopo, il 15 novembre, ebbero un secondo figlio, il
duca Ferdinando di Genova, cosa che di fatto non aveva reso necessario il
ricorso a simili stratagemmi, peraltro pericolosi per l’ immagine pubblica del
casato. In secondo luogo, tempo dopo Maria Teresa inviò al proprio padre una
lettera nella quale descriveva il piccolo Vittorio Emanuele e la sua
particolare vivacità: «Io non so veramente di dove sia uscito codesto ragazzo.
Non assomiglia a nessuno di noi, e si direbbe venuto per farci disperare tutti
quanti.». Evidentemente, se il bambino non fosse stato figlio suo si sarebbe
ben guardata dallo scrivere simili parole.
Negli
anni seguenti, il granduca Ferdinando III affidò i nipoti Vittorio Emanuele e
Ferdinando al precettore Giuseppe Dabormida, che impartì loro una disciplina
militaresca. Ora che Vittorio Emanuele stava crescendo, non vi era nessuno che
non si interrogasse vedendolo accanto al padre: Carlo Alberto era infatti
pallido, alto più di due metri e magrissimo, di carattere timido, riservato e
molto pudico, colto, anche se prevalentemente autodidatta, e assai intelligente,
mentre il figlio era piccolo, grosso, dal carattere piuttosto aperto ed
espansivo, poco amante dello studio, tanto che secondo il suo maestro aveva una
certa difficoltà di comprensione: «Dopo che una cosa gli era stata spiegata più
e più volte, con le sue domande faceva intendere di non averla affatto capita.».
Occorre tuttavia ricordare che i precettori a cui il principe era stato
affidato erano «parrucconi mediocri in tutto, rigidi nel pretendere un rispetto
dissennato delle formalità, vecchi d’ età e d’ idee, consumati da cattivi
pensieri, intrisi d’ etichetta, e ci sarebbe voluta l’ intelligenza di un Nobel
per cavare qualcosa di utile dai loro insegnamenti», come affermò lo storico e
giornalista Angelo Del Boca.
Vittorio Emanuele in tenuta da cacciatore; |
Frattanto,
a Torino, nel 1831, Carlo Felice morì senza eredi, fatto che portò all’
estinzione del ramo principale dei Savoia. Il cugino Carlo Alberto rientrò
quindi come suo successore, e Vittorio Emanuele lo seguì insieme alla famiglia,
venendo affidato ad uno stuolo di alti precettori incaricati di formarlo. La
disciplina educativa destinata ai principi di Casa Savoia, soprattutto gli
eredi al trono, era sempre stata piuttosto spartana: riceveva tenerezza solo
dalla madre, mentre il padre non ne era capace con nessuno e comunque preferiva
il secondogenito Ferdinando, mentre gli istitutori, rigidi formalisti scelti in
base alla lealtà alla famiglia reale e alla devozione religiosa, gli imponevano
orari da caserma sia in estate che in inverno, con la sveglia alle 5:30, tre
ore di studio, un’ ora di equitazione, un’ ora per la colazione, poi scherma e
ginnastica, altre tre ore di studio, mezz’ ora per il pranzo e la visita di
etichetta alla madre, e mezz’ ora di preghiere per concludere la giornata. Gli
sforzi dei dotti educatori ebbero scarso effetto sulla refrattarietà agli studi
del principe ereditario, che preferiva di gran lunga dedicarsi ai cavalli, alla
caccia e a maneggiare la sciabola, oltre che all’ escursionismo in montagna, mentre
la grammatica, la matematica, la storia e qualunque altra materia che richiedesse
lo studio o anche la semplice lettura erano cose da cui sfuggiva. Le uniche
materie nelle quali aveva un certo profitto erano la calligrafia e il regolamento
militare. Peraltro, era talmente privo di orecchio e ostile a ogni senso
musicale che dovette fare studi appositi per imparare a dare i comandi, in
quanto stonava pure in quelli.
Nonostante
l’ educazione ricevuta, Vittorio Emanuele dimostrava con una certa fierezza di
essere un uomo del popolo: amava la compagnia e l’ allegria, e disprezzava i
salotti, era impulsivo e irascibile, ben poco incline all’ etichetta e al
protocollo. Adorava combattere e cacciare, era molto sensibile alla buona
cucina delle Langhe, ai vini invecchiati e, soprattutto, al fascino delle donne.
Abituale frequentatore di trattorie, si intratteneva sempre affabilmente con
tutti, parlando in dialetto torinese, la sua lingua corrente anche a corte, limitando
il francese alle sole occasioni importanti. Con l’ italiano ebbe per tutta la
vita enormi difficoltà. La sola cosa che lo accomunava ai suoi antenati era la
passione per la caccia, non solo quella al cervo o al capriolo, ma specialmente
quella amorosa: prediligeva le giovani contadine, con cui viveva fugaci amori
campestri di cui nessuno si lamentò mai, soprattutto di fronte ai generosi
contributi alla dote nuziale della ragazza, che lasciavano sempre tutti ampiamente
soddisfatti. Era soprattutto in questo campo che il giovane Savoia denotava il
gusto delle cose schiette, privilegiando le donne e i buoi dei paesi suoi, nonché
il gusto delle conquiste spicce. Intorno a lui non orbitavano mai donne fatali,
men che meno quelle dame tipiche dei salotti culturali e mondani, non visse
nessuna di quelle avventure ricercate o esotiche nelle quali altri romantici
rampolli di antichi casati dilapidavano patrimoni e sfoggiavano spiccate qualità
interiori presso le stazioni termali di mezza Europa, allargando i memoriali e
alimentando gli scandali.
Il castello reale di Racconigi; |
Come
era abituale per un erede al trono, Vittorio Emanuele era stato avviato alla
disciplina militare ancora in tenera età: dopo essere stato capitano dei
fucilieri a undici anni, a diciotto gli fu concesso il grado di colonnello e il
comando di un reggimento. Per lui fu una vera benedizione, non solo per il
comando, con cui finalmente avrebbe sfogato la sua ambizione di carattere militare,
ma anche perché significava la tanto desiderata fine di quel regime oppressivo
che lo aveva tormentato nell’ inutile tentativo di dargli una cultura.
Nel
1842, divenuto generale, dopo un’ estenuante negoziazione che durò due anni, sposò
una cugina di primo grado, Maria Adelaide d’ Asburgo-Lorena, figlia dell’ arciduca
Ranieri, viceré del Lombardo-Veneto, e Maria Elisabetta, sorella del padre Carlo
Alberto. Si trattava ovviamente un matrimonio politico, di un’ unione combinata,
sebbene lei fosse perdutamente innamorata di lui, come attestato dalle lettere
che gli scrisse prima delle nozze, durante i reciproci scambi di profili,
medaglie e miniature. Bruna, magra e di carnagione pallida, attraente
nonostante il labbro pendulo tipico degli Asburgo, era più alta della media e
del marito: per non sovrastarlo dovette ingobbirsi. Avendo fatto buoni studi
con ottimi precettori, conosceva diverse lingue, amava la lettura e la
conversazione, sapeva ricamare, lavorare a maglia e ballare. Gentile e
premurosa con tutti, ignorava la presunzione e l’ alterigia, non si metteva mai
in mostra, adempiendo diligentemente ai suoi doveri di moglie di un futuro re.
Possedeva un vastissimo guardaroba, composto da duemiladuecentoquarantotto capi
tra abiti, sottane, camicie, pellegrine, pellicce, scialli, velluti, manti,
cuffie e ventagli che costituivano il suo corredo nuziale. Il marito, che in
privato la chiamava Suzi o Suzette, pur attestandole stima e affetto
la tradì costantemente con un’ abbondante schiera di amanti, da cui ebbe un numero
di figli illegittimi così elevato da essere rimasto imprecisato, ai quali spesso
diede il nome Vittorio o Vittoria ed il cognome Guerrieri o Guerriero, e sempre
preoccupandosi di fornire loro una sistemazione. Uno di essi, in particolare, fu
Giacomo Etna, che negli anni sarebbe divenuto generale degli Alpini. A partire
dal 1844, la sua amante favorita fu l’ attrice teatrale Laura Bon, conosciuta a
Torino, e che trattò con grande cura e riguardo, donandole peraltro un lussuoso
appartamento in città, affinché potesse condurre agevolmente la sua vita
mondana e rimanere comodamente vicina ai teatri. Maria Adelaide dimostrò una
costante e straordinaria capacità di sopportazione verso Vittorio Emanuele, soffrendo
in un fermo silenzio, in conformità con il suo carattere descritto come dolce,
mite, paziente e remissivo, trovando consolazione nell’ educazione dei figli, nel
cucito, nelle pratiche religiose e nelle opere pie. Con la stessa simpatia con
cui lui faceva parlare di sé, lei veniva reputata una santa. Tra il 1843 e il 1855,
marito e moglie ebbero sette figli, e le continue gravidanze minarono il fisico
di lei, che per rimettersi in salute prese a trascorrere periodi di soggiorno
al mare presso La Spezia, che contribuirono ad accentuare la distanza tra loro.
Si mormorava che ogni volta che lei si ritirava in preghiera, lui ne approfittasse
per le sue allegre scappatelle.
Noto ritratto della Bela Rosin; |
Nel
1847, al castello di Racconigi, amatissimo luogo di villeggiatura della
famiglia reale, ebbe luogo un evento molto importante per il principe ereditario,
da un anno luogotenente generale: alla fine di una battuta di caccia vide affacciata
a un balcone la giovanissima Rosa Vercellana, di cui si innamorò al primo
sguardo. Benché appena quattordicenne, era dotata di una pienezza fisica che
conturbava notevolmente gli spiccati desideri del rampollo reale: era bruna e
sensuale, sebbene non particolarmente ossequiosa ai canoni estetici, con quel
viso un po’ squadrato, i lineamenti decisi, gli occhi troppo distanti, un
nasino non certo alla francese, il tutto addobbato da una bocca carnosa e una
natura corvina che non era solo un colore di capelli ma una profondità fisica
di tutto il corpo, stranamente in lei unita a una certa dolcezza. Lui, che stava
per divenire padre per la quinta volta, aveva ventisette anni, e per la prima
volta in vita sua fu amore nel vero senso della parola: «Bella
è bella, molto bella. Gran massa di capelli corvini, occhi scurissimi,
carnagione perfetta. Il petto tutt’ altro che acerbo.».
I primi incontri tra i due furono ovviamente clandestini, rigorosamente lontani
dagli occhi di re Carlo Alberto, che avrebbe disapprovato, e della corte
pettegola, anche perché nel Regno di Piemonte e Sardegna vigeva una legge che
puniva duramente il rapimento di ragazze al di sotto dei sedici anni dalle rispettive
famiglie: uno scandalo avrebbe irrimediabilmente minato il buon nome della
famiglia più importante del regno, tenuta a dare il buon esempio al popolo,
rispettando la legge e la morale ed evitando qualsivoglia leggerezza e lussuria.
La ragazza, residente a Pinerolo e che come il novanta percento della
popolazione di quel tempo era analfabeta, venne quindi trasferita nella
residenza della palazzina di caccia di Stupinigi, molto più vicina a Torino, in
una dipendenza del parco stesso, ove gli incontri sarebbero stati più sicuri.
Inizialmente, nulla avrebbe fatto supporre che fosse nato qualcosa di speciale
tra i due, invece restarono tenacemente legati l’ uno all’ altra, e gli
incontri presero a ripetersi sempre più abitualmente, tanto che la servitù e i
pochissimi informati iniziarono a spettegolare, sia pur con prudenza e riguardo,
domandandosi chi fosse questa giovincella che pareva proprio aver conquistato
il cuore di Vittorio Emanuele: Rosa Vercellana era nata a Nizza Marittima l’ 11
giugno 1833, figlia di Giovanni Battista Vercellana, un militare originario di
Moncalvo, e Maria Teresa Griglio. Il padre aveva fatto parte della Garde
Impériale, la guardia del corpo dell’ Imperatore dei francesi, i cui reggimenti
erano formati dai migliori uomini reclutati dagli eserciti europei degli Stati
sottomessi, e che combattevano in solenni alte uniformi, ma nel 1814 si era
rifiutato di seguire Napoleone nella sua fuga dall’ Elba, entrando nei granatieri
di Casa Savoia, con il grado di tamburo maggiore. Attualmente era membro della
guardia personale di Carlo Alberto, a cui era devotissimo, e Vittorio Emanuele
lo definì «una perla d’ uomo», nonché un ottimo soldato fedelissimo al casato.
Frattanto,
in Europa e nella penisola italiana, passate attraverso la Rivoluzione
francese, il Primo Impero, il Congresso di Vienna e la Restaurazione, fervevano
nuove idee e tensioni. In Italia in particolare, tuttora divisa in otto Stati, si
era sviluppata la Carboneria, una società segreta rivoluzionaria dagli ideali liberali
e patriottici, di cui avevano fatto parte molti personaggi di rilievo, come Giuseppe
Mazzini e Carlo Alberto. In seguito al fallimento dei carbonari, lo stesso
Mazzini aveva fondato nel 1831 a Marsiglia la Giovine Italia, tesa a dar vita
ad un’ Italia repubblicana. Le prime rivolte avevano spesso avuto esiti
disastrosi, come il cosiddetto Fiasco di Savoia e l’ uccisione dei fratelli
Bandiera. Ma ormai in diverse zone d’ Italia le cose erano mutate, al punto che
nel 1847 re Ferdinando II delle Due Sicilie, tenendo conto delle insurrezioni in
Campania, Basilicata, Calabria e Sicilia, pur represse dall’ esercito, concedette
la costituzione, gesto un anno dopo imitato da Carlo Alberto, che nel 1848
introdusse nel Regno di Piemonte e Sardegna lo Statuto Albertino e,
soprattutto, diede avvio al Risorgimento, il grande fenomeno di riunificazione
nazionale dai tempi della caduta dell’ Impero romano d’ Occidente, pur
riportando esiti disastrosi contro l’ Impero austriaco a Custoza e Milano, e soprattutto
a Novara nel 1849, particolare disfatta che il 24 marzo lo portò ad abdicare in
favore del figlio primogenito, che salì al trono come Vittorio Emanuele II,
quarantesimo signore della dinastia, impegnandosi duramente nelle trattative
con gli austriaci, riuscendo ad attenuare le condizioni dell’ armistizio, e in
poco tempo venne soprannominato «Re Galantuomo» per aver accettato il sistema
della monarchia costituzionale pur essendo di idee conservatrici e aver scelto
di rispettare le decisioni del suo governo anche nel caso in cui non avrebbe
concordato. Il Parlamento, a maggioranza democratica, gli era ostile e non voleva
ratificare il trattato di pace con l’ Austria, che occupava Alessandria, ma lui
lo sciolse e indisse nuove elezioni invitando gli elettori tramite il Proclama
di Moncalieri a votare deputati moderati: il nuovo Parlamento risultò composto per
due terzi da moderati favorevoli al governo di Massimo d’ Azeglio. Lo Statuto Albertino
non gli era congeniale, ma lo accettò come segno di lealtà costituzionale, analogamente
alle leggi Siccardi contro i privilegi del clero, che firmò pur non condividendole.
In seguito, il 4 novembre 1852, con la propria ascesa alla carica di Primo
ministro del Regno, nella sua vita di monarca entrò un personaggio che avrebbe
acquisito enorme importanza, mutando radicalmente le sorti di Casa Savoia e d’
Italia: il conte Camillo Benso di Cavour. Figlio di un proprietario terriero e
amministratore di grandi proprietà uscito indenne dalla bufera napoleonica, non
godette mai della simpatia del re, il quale probabilmente ricordava di quando questi,
ancora giovane, era stato segnalato come infido e capace di tradire a seguito
delle sue esternazioni repubblicane e rivoluzionarie durante il servizio militare.
Tra i due si instaurò un saldo ma faticoso connubio politico, durante i quali
Vittorio Emanuele arrivò più volte a limitare le azioni del suo Primo ministro,
anche a costo di mandargli in fumo svariati progetti politici, alcuni dei quali
di notevole portata. Ciononostante, nei dieci anni tra il 1849 e il 1859 il
conte si dedicò efficacemente all’ ammodernamento del Regno e alla sua riorganizzazione:
da una parte finanziava i moti rivoluzionari, o li tollerava, e dall’ altra
proponeva come soluzione del problema dei disordini l’ ampliamento del reame
sabaudo, che con la partecipazione alla guerra di Crimea come alleato del
Secondo Impero francese, retto da Napoleone III, si affacciò con una certa
importanza alla scena internazionale. In seguito, con gli accordi segreti di
Plombiéres, l’ astuto statista ottenne la promessa dell’ appoggio francese in
caso di attacco austriaco in cambio della Savoia, di Nizza e della corona del Regno
delle due Sicilie, che sarebbe spettata al principe Girolamo Bonaparte di
Montfort. Tra il 1859 e il 1861, grazie ad una serie di azioni ingegnose e occasioni
favorevoli Casa Savoia riuscì insperatamente a unire l’ Italia sotto propria la
corona: il 17 marzo 1861, Vittorio Emanuele, che aveva sempre desiderato proseguire
la politica espansionistica dei suoi avi, divenne il primo re d’ Italia, benché
mancassero ancora importanti territori quali il Veneto, il Friuli, la
Venezia-Giulia e il Trentino-Alto Adige, tuttora entro i confini austriaci, il
Lazio, parte dello Stato Pontificio, e il meridione, rimasto sotto il Regno
delle Due Sicilie. Con l’ eccezione del Trentino-Alto Adige e del Friuli-Venezia
Giulia, tutte queste zone vennero gradualmente annesse all’ Italia sabauda in
una serie di azioni che durarono fino al 1871, mentre la capitale veniva
spostata nel 1865 da Torino a Firenze, per poi essere definitivamente stabilita
a Roma il 21 gennaio dello stesso 1871.
Il conte Emanuele Guerrieri; |
Nonostante
la sua intensa vita di re, trascorsa in un periodo molto particolare della
storia del suo casato e della nazione su cui venne chiamato a regnare, Vittorio
Emanuele non trascurò quella personale e le proprie passioni, soprattutto
quelle amorose. Benché innamorato di Rosa, che divenne famosa come «Bela Rosin», non smise di frequentare l’ attrice Laura
Bon, che nel 1849 per lui lasciò le scene, andando a vivere al castello di Moncalieri,
ove condusse un’ esistenza dorata e piena di riguardo. I due amanti ebbero
peraltro una figlia, Emanuela, nata prematura nel 1853, e che venne nominata
dal padre contessa di Roverbella. Tuttavia, a causa della gelosia manifestata
verso la giovane Rosa, l’ artista venne congedata e costretta a lasciare il
vecchio Piemonte, riprendendo a calcare le scene a Firenze, Vienna e Napoli,
vivendo gli ultimi anni della propria vita in povertà, al punto da dover recitare
con compagnie teatrali modeste a Venezia, ove morì nel 1904. Altre donne
condividevano le sue attenzioni, come l’ attrice quindicenne Emma Ivon, che
frequentò a Firenze nel periodo in cui questa era la capitale nazionale: aveva
perso la testa per lei, e spendeva somme enormi fino al giorno in cui, giunto da
lei a sorpresa, la trovò tra le braccia di un ufficiale napoletano. Altra amante
degna di nota fu la celeberrima contessa Virginia Oldoini di Castiglione, cugina
del conte di Cavour, che nei suoi carnet, piccole agende che spesso le dame tenevano
legati ai polsi, registrava gli incontri di ogni giornata, contrassegnando i nomi
con una lettera, a seconda del carattere dell’ incontro: pare che la lettera F,
che non mancava mai e spesso seguiva quello del Re Galantuomo, significasse «incontro
carnale». Ironizzando sulle sue continue vicende ardenti, Massimo D’ Azeglio, già
convinto della veridicità delle voci sullo scambio di neonati a seguito dell’
incendio della culla a Firenze, ebbe a dire: «Se continua così, più che il padre
della patria sarà il padre degli italiani…».
Con
l’ andare del tempo, Rosa si rivelò la donna ideale per il sovrano: sempre di
buon umore, mai musona, tenace e convinta del valore dei sentimenti. Aveva
compreso di non potersi aspettare la fedeltà fisica, e, ironicamente,
lasciandolo libero lo legò ancora di più a sé. Qualche tempo dopo i loro
primissimi incontri, i Vercellana richiesero un contributo affinché lei potesse
rifarsi una vita con un sergente dell’ esercito, ma inaspettatamente Vittorio
Emanuele reagì, e lo sfortunato rivale venne mandato in Sardegna. Peraltro, la
ragazza di campagna si rivolse al suo principe per ottenere la grazia a beneficio
del fratello Domenico, che era stato messo agli arresti. Tempo dopo, la sua
posizione cominciò a divenire evidente quando Vittorio Emanuele, ormai re, esonerò
il generale Cigala, in servizio a corte da trent’ anni, perché le aveva negato
una vettura con lo stemma dei Savoia. Quando le cose tra i due amanti si fecero
serie e le voci iniziarono a trapelare, presto emerse dal nulla una crescente schiera
di parenti che, sempre vestiti a festa, accompagnavano la giovane praticamente
ovunque, che fosse a teatro o durante la passeggiata attraverso il Parco del
Valentino: vi fu perfino una vecchietta che aveva sempre venduto fiammiferi
sotto i portici che incominciò addirittura a parlare del monarca come di «suo nipote
Vittorio». Il sovrano reagì prontamente, ridimensionando con forza i pinerolesi
dalla schiera degli aiutanti. Rosina riuscì comunque a piazzare a corte un
cugino, Natale Aghemo, che divenne conte e addirittura capo di gabinetto di
Vittorio Emanuele.
Ormai
apertamente sulla bocca di tutti, questa relazione suscitò scandalo e ostilità sia
a corte che presso l’ aristocrazia, ove imperavano bigottismo e alterigia, ma
Vittorio Emanuele non cedette alle pressioni, e spesso ricordava a tutti e
senza mezzi termini di essere il re. Affiancò a Rosa una dama di compagnia,
Madama Michela, con il compito di insegnarle le buone maniere, ma per quanto
lei si addobbasse con vistosi gioielli e sontuosi vestiti, venne sempre disprezzata
ed evitata dalla nobiltà. I due amanti ebbero due figli, Vittoria ed Emanuele
Guerrieri, nati rispettivamente nel 1848 e nel 1851 e denunciati come figli di ignoti.
Maria Adelaide fu la sola a non accusare mai il colpo, andando costantemente
avanti tra sorrisi e opere pie, sebbene un diplomatico francese di nome
Ideville riferì che la regina un giorno incontrò uno dei figli di Vittorio e
Rosina durante una passeggiata nel castello di Stupinigi e lo prese tra le
braccia con il volto inondato di lacrime. Il 20 gennaio 1855, ella morì a
seguito di un’ improvvisa e violenta gastroenterite manifestatasi mentre si
trovava in carrozza, al ritorno a palazzo dai funerali della suocera Maria
Teresa d’ Asburgo-Toscana. La sua agonia fu atroce, tanto che i suoi gemiti si
udivano nella vicina piazza. Impietrito al suo capezzale, Vittorio Emanuele le tenne
la mano sino all’ ultimo respiro. La morte della sua regina fu un duro colpo per
lui, abbastanza forte da mettere per qualche tempo in crisi la convivenza con Rosa.
Il sovrano manifestò un sincero dolore per la scomparsa della consorte, che
aveva svolto magnificamente il proprio ruolo istituzionale, come una vera
Asburgo, senza mai opporre ostacoli alla sua politica o compromettere il suo
buon nome. Ora che il regnante si trovava vedovo, il conte di Cavour e i suoi ministri
si interessarono vivamente alla preparazione di un nuovo matrimonio politico,
identificando una cerchia di candidate ideali sulla base dei benefici dinastici
che avrebbero portato con sé. La sola idea che sposasse ufficialmente la tanto
invisa campagnola era intollerabile, e il Primo ministro in particolare non
ebbe scrupoli a ricorrere a tenaci e costanti manovre che spesso sconfinarono
nella minaccia pur di separare i due amanti: la Bela Rosin era impresentabile,
avrebbe certamente finito con il gettare discredito sull’ immagine del re e Casa
Savoia proprio ora che erano al centro di tutti i progetti per l’ unità d’ Italia,
quindi non lasciò nulla di intentato nella sua opera, arrivando perfino a dire
che lo tradiva, ma lei si difese con intelligenza affermando che non avrebbe
mai potuto avere altri amanti perché i focosi assalti di Vittorio Emanuele
erano piuttosto stancanti. Lo stesso re scrisse in una lettera: «Io non sposerò
altra donna che lei!». Si racconta che quando il monarca convocava insieme il
suo Primo ministro e la sua compagna in qualche residenza, loro viaggiassero sullo
stesso treno ma su carrozze separate, però, una volta casa, lei cucinava risotti
e tajarin di fronte ai quali anche il duro capo di governo tendeva ad ammorbidirsi.
Dopo
la brillante partecipazione del Piemonte alla Guerra di Crimea, i sovrani di mezza
Europa si mostravano interessati ad imparentarsi con Vittorio Emanuele, signore
di quel piccolo Stato che, grazie al genio del conte di Cavour e all’ evolversi
della situazione internazionale, stava espandendosi riscuotendo forti simpatie
in ambito europeo: l’ imperatore Napoleone III voleva offrirgli una principessa
dei belgi, mentre la regina Vittoria del Regno Unito, che lo invitò a Windsor
per insignirlo dell’ ordine della Giarrettiera, pur avendo espresso privatamente
alcuni dubbi su di lui, avanzò la candidatura di sua figlia Mary. Altri invece
pensarono alla cognata Elisabetta di Sassonia, vedova del fratello Ferdinando di
Genova. Benché comprendesse il prestigio e i numerosi vantaggi che avrebbe
tratto da tali unioni dinastiche, il Re Galantuomo oppose sempre un fermo
diniego: a proposito della principessa Mary, ad esempio, disse che «sapeva troppo
di greco e di latino», manifestando una certa allergia verso la donna colta e
al tempo stesso bellissima ed intrigante. Il re eluse con ostinazione i piani
matrimoniali del suo governo, pensando sempre più spesso che Rosa fosse la
sposa ideale per lui: cucinava per lui i cibi tradizionali della cucina
piemontese, gli tagliava le unghie dei piedi, come tradizione nelle campagne,
lo trattava con l’ affetto e la deferenza delle mogli borghesi dell’ epoca.
Addirittura, nelle cene ufficiali non toccava cibo, mettendo tutti i commensali
in imbarazzo. Ostile ad ogni forma di etichetta, nel proprio animo si
considerava un borghese, un proprietario terriero, e lei lo faceva sentire
tale. Lo seguì in ogni suo trasferimento lungo l’ Italia, sempre defilata ma presente:
«E’ la compagna indivisa delle mie pene.».
In
seguito, l’ 11 aprile 1858, la nominò contessa di Mirafiori e Fontanafredda,
comprando per lei anche il castello di Sommariva Perno, con la possibilità di
trasmettere il titolo al figlio Emanuele. Isolata e disprezzata dai nobili, Rosa
fu invece amata dal popolo per le sue origini contadine: si dice che la canzone
popolare risorgimentale «La bella Gigogin» si riferisse in realtà a lei, e il
soprannome Bela Rosin veniva pronunciato sempre con affetto e rispetto. Nel
1863 si trasferì negli Appartamenti Reali di Borgo Castello. Tale residenza,
che non apparteneva alla Corona ma al patrimonio privato del re, rimase sempre
la preferita della coppia, poiché Vittorio Emanuele amava rifugiarvisi per
cacciare e sfuggire alla vita di corte.
Vittorio Emanuele con Rosa e i figli; |
Anche
se in circostanze drammatiche, nel 1869 giunse finalmente la grande svolta nel
loro rapporto. Dopo una tenace opposizione da parte di governo e aristocrazia,
i due poterono sposarsi: a dicembre, Vittorio Emanuele fu colpito da una forte
polmonite, che per i medici sarebbe stata fatale, e complice il fatto che il
conte di Cavour era morto nel 1861, pochi mesi dopo la proclamazione dell’
Italia unita, si parlò apertamente di un matrimonio religioso, al quale il
parroco di Mirafiori già lavorava da tempo. La notte del 18, alla presenza del
principe ereditario, Umberto di Piemonte, figlio secondogenito del re, del Primo
ministro Luigi Federico Menabrea e di pochi intimi, Vittorio Emanuele ricevette
in articulo mortis il sacramento del matrimonio, e quello dell’ estrema
unzione, sebbene qualche tempo dopo guarì e, nel giro di un anno, entrò trionfalmente
a Roma. Quasi otto anni dopo, il 7 novembre 1877, nella Villa Mirafiori di Roma,
sarebbe stato celebrato anche il matrimonio civile, del quale però non esistono
documenti. Le nozze tra il Re Galantuomo e la Bela Rosin furono morganatiche,
che escludevano sia la moglie che i figli dall’ ereditarietà e dall’ acquisizione
dei titoli e del marito. Rosa, quindi, non fu mai regina, traguardo a cui pare
che non mirasse neppure, sebbene qualche storico sia convinto del contrario.
Sicuramente, Vittorio Emanuele avrebbe tanto voluto condividere la corona con
lei, trovandosi tuttavia costretto a cedere a pressioni politiche, veti dei
figli legittimi e questioni di immagine. Il successo di Casa Savoia, unica famiglia
reale rimasta sulla scena italiana, fu un peso sulla loro vita coniugale che
furono tenuti sempre ad accettare: non potevano far parlare di sé, dando il
minimo appiglio agli oppositori, fossero essi aristocratici locali nostalgici
delle precedenti famiglie reali oppure repubblicani. Rosa risiedeva in una
villa sulla Salaria, che il re raggiungeva ogni giorno uscendo dalla foresteria
del Quirinale, che non amava particolarmente, e viveva nel più stretto riserbo,
accettando la condizione di moglie ombra. Le residenze dove lei abitava, dalla Mandria
di Venaria alla Pietraia nei pressi di Firenze, passando per Villa Mirafiori, fatta
costruire proprio per lei sulla Nomentana a Roma, furono le vere case anche del
sovrano, quelle dove trovava una vera famiglia, con lei che lo aspettava per
dargli tutto quello che una brava moglie sa dare a un marito, divenendo il suo
rifugio tranquillo e appartato dalle noiose cerimonie e dagli interminabili
ricevimenti, l’ oasi di benessere semplice, quasi borghese, campagnolo ed
erotico, sempre pronta ad accoglierlo e viziarlo con piatti di tajarin,
agnolotti, cinghiale in civet e barolo davanti al caminetto, oltre che con
passeggiate a braccetto nei boschi e tra le vigne, lontano dagli intrighi di
corte. Certo, si vestiva in modo un po’ chiassoso, a un certo punto della vita
sembrava un po’ troppo incline agli sfarzi, per quanto sempre relativi, mentre
lui non metteva mai a freno i propri istinti amorosi, conquistando una bella e
focosa amante dopo l’ altra. Ma la Bela Rosin aspettava sempre, paziente e
fiduciosa, e lui tornava puntualmente da lei, pronta a togliergli gli stivali,
a porgergli un sigaro intinto nel cognac e a preparagli un buon piatto di bagna
caoda. Le residenze ufficiali a lei erano precluse, ma questo non le impedì di organizzare
con una certa bravura un proprio regno all’ interno delle sue eleganti tenute.
Se
perfino Laura Bon, la sua più accesa rivale, l’ aveva trovava bella è certo che
secondo i criteri dell’ epoca lo fosse davvero, ma dalle fotografie attualmente
rimaste l’ aggettivo che più le si addice è «riposante»: forse fu proprio
questo il suo lato caratteriale più importante, la base sicura della decennale
storia d’ amore con il Re Galantuomo. In tali fotografie, che la ritraggono in
età matura, appare rotondetta, serena, paciosa, matronale e protettiva, con l’
aria da popolana rifatta. Non ha più il fascino acerbo della ragazzina scorta
per la prima volta al castello di Racconigi, ma certamente basa su altri mezzi
il proprio potere di seduzione. Fu una donna riposante e semplice, spettatrice
di primo piano della storia del Risorgimento, che visse di riflesso, come dalle
finestre di un’ elegante e pacifica alcova, e certamente non inquietante o
disinibita come la contessa di Castiglione, inviata dal conte di Cavour a
Parigi per sedurre Napoleone III affinché fosse più propenso ad appoggiare gli
interessi del governo di Torino. E neanche fatale, profonda, graziosa e
inattingibile come la baronessa milanese Metilde Viscontini Dembrowski,
coinvolta nel 1821 in una congiura contro gli austriaci, di cui Henri Beyle, in
arte Stendhal, s’ innamorò perdutamente senza essere riamato.
Il Mausoleo della Bela Rosin, a Mirafiori, Torino; |
Il
9 gennaio 1878, Vittorio Emanuele morì al Quirinale, a seguito di una polmonite
derivante da una notte trascorsa all’ addiaccio presso il lago nella sua tenuta
di caccia laziale in occasione di una battuta venatoria. La commozione che
investì rapidamente la nazione fu unanime, e i titoli dei giornali la espressero
facendo uso della retorica tipica del periodo. La sua Rosa era lontana, colpita
da un’ influenza nella tenuta della Mandria, a pochi passi da Torino, uno dei
tanti nidi d’ amore in cui alla coppia piaceva trascorrere le vacanze. Il Padre
della Patria venne seppellito al Pantheon, pur avendo espresso il desiderio di riposare
eternamente nella Cripta Reale della Basilica di Superga, ove erano già stati tumulati
alcuni membri di Casa Savoia, come il padre Carlo Alberto. In occasione dei
suoi solenni funerali, a cui parteciparono esponenti di governi e famiglie
reali, nonché diplomatici e militari di alto rango, Roma fu invasa da una
moltitudine sconfinata, comprendente circa duecentomila persone. Sul trono del
neonato regno italiano salì il figlio Umberto di Piemonte, freddo, autoritario
e compassato, che pur essendo il quarto capo del casato a portare questo nome decise
di chiamarsi Umberto I per rispetto verso la patria, a differenza del padre,
che non aveva ritenuto opportuno cambiare il numero per sottolineare la
continuità dinastica.
Dopo
la morte dell’ amato marito, la Bela Rosin fu definita persona non gradita da Margherita,
moglie di Umberto e prima regina d’ Italia, che analogamente al marito l’ aveva
sempre trattata con distacco, come un’ intrusa. Le vennero requisite tutte le residenze
in cui abitava ad eccezione del Castello di Sommariva Perno. Malinconica e
nostalgica, assunse il ruolo di vedova ombra, al punto che la corona di fiori
che inviava al Pantheon ogni anno in occasione dell’ anniversario della morte di
Vittorio Emanuele non recava alcun nome. Trascorse quindi il resto della sua
vita presso Palazzo Beltrami, a Pisa, ove morì di diabete il 26 dicembre 1885,
dopo aver spesso ripetuto di essere «sopravvissuta» all’ amato consorte. Casa
Savoia vietò espressamente che venisse seppellita al Pantheon, non essendo mai
stata regina: per questo motivo, in aperta sfida alla corte di Roma, i figli Vittoria
ed Emanuele decisero di riunire moralmente i genitori facendo edificare a
Mirafiori un Pantheon in miniatura, il «Mausoleo della Bela Rosin», in cui
deposero le spoglie mortali di lei, che vi rimasero fino al 1972, quando furono
spostate al Cimitero monumentale di Torino per evitare profanazioni e
vandalismi ai danni della tomba. Oggi, in seguito ad un grave periodo di
degrado, il Mausoleo di Mirafiori è sede espositiva gestita dalle biblioteche
civiche torinesi.
Mentre
i Savoia consolidavano la propria posizione sulla scena nazionale e internazionale
cogliendo l’ eredità di Vittorio Emanuele II, Vittoria ed Emanuele Alberto
Guerrieri vissero un’ esistenza decorosa e tranquilla, lontana dai clamori e
dalla notorietà. Lei sposò nel 1868 il marchese Giacomo Filippo Spinola, primo
aiutante di campo del sovrano, e poi con il fratello Luigi, mentre lui, che nel
1866, appena quindicenne, aveva partecipato insieme al padre alla Terza Guerra
d’ Indipendenza, svolse attività di produttore di vini e altri prodotti
agricoli nei territori di Serralunga d’ Alba e Barolo, fungendo da presidente
di associazioni di ex combattenti e sportive. Fondò le rinomate Cantine di
Fontanafredda, prestigiosa ditta vinicola ancora esistente, dimostrandosi un
valente pioniere della viticultura piemontese. Sposò Bianca Enrichetta de
Larderel, una nipote del conte Francesco Giacomo de Larderel di Montecerboli, da
cui ebbe due figli, il secondo dei quali, Gastone, prese in moglie Margherita
Boasso, da cui ebbe una sola figlia, Vittoria, che convolò a nozze con il conte
Melchiorre Gromis di Trana, da cui nacquero sei figli, il secondo dei quali,
Gastone, fu padre di Caterina, classe 1962, etologa e autrice di libri sugli
animali nativa di Torino, dove risiede tuttora.
La contessa Caterina Gromis di Trana; |
Quella
tra Vittorio Emanuele e Rosa fu senz’ altro una bella storia di amore, forse
addirittura la più famosa del Risorgimento, e si intrecciò in modo unico con la
tappe dell’ unità nazionale e con le prime vicende del neonato Regno d’ Italia.
Nonostante la sua natura poligama, che visse beatamente anche dopo averla
conosciuta, il Re Galantuomo vide costantemente nella Bela Rosin la propria
anima gemella, il suo spirito complice e confortante, la fonte più autentica della
sua felicità, da cui ebbe i figli che molto probabilmente amò più di tutti gli
altri. Fu senz’ altro un amore intenso e passionale, vissuto rigorosamente nel
segreto delle loro stanze da letto, perfettamente armonioso a dispetto della differente
provenienza sociale dei due, visto dal di fuori e nel tempo soprattutto come una
relazione pacata, domestica e familiare, rasserenante e straordinariamente
capace di resistere alle pressanti difficoltà affrontate, prima tra tutte la
ferma opposizione da parte del potente conte di Cavour, uomo dalla mente
raffinata, vasta ed intricata. Fu un rapporto davvero straordinario, come
dimostrato dai ritratti in cui i due appaiono insieme: entrambi tracagnotti,
con lo sguardo fiero, dritto e profondo di chi sa cosa vuole dalla vita, immersi
in una bella aria di campagna, a conferma del vecchio detto secondo cui chi si assomiglia
si piglia.
Perfino
il loro matrimonio morganatico, che impedì a lei di divenire regina e ai due
figli di acquisire il nome dei Savoia e di entrare conseguentemente nella linea
di successione al trono d’ Italia, fu una notevole eccezione, in un’ era in cui
principi e principesse di sangue reale si sposavano soltanto tra di loro
stringendo vincoli di interesse e arricchendo la discendenza dinastica, a beneficio
esclusivo della ragion di Stato e di casta: celebrato quando lui pareva ormai al
termine della sua esistenza, più di ogni altra cosa dimostrò un sincero e raro
amore.
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