Monaci buddhisti tibetani di scuola Gelug; |
Complici
le drammatiche vicende politiche del Tibet, che tra il 1949 e il 1959 venne
gradualmente occupato dalla Repubblica Popolare Cinese, il cui governo sostenne
di aver «riunificato un’ antica e importante regione occidentale della Cina
alla madrepatria socialista, liberandola da un sistema teocratico e feudale sostenuto
dagli imperialisti angloamericani», durante gli Anni Settanta e Ottanta il
Buddhismo tibetano conobbe una notevole diffusione in Occidente, soprattutto in
Europa e negli Stati Uniti, favorita in modo particolare dal casuale incontro
tra alcuni hippies occidentali con quei lama e monaci tibetani che avevano
avuto la fortuna di sfuggire in India settentrionale e Nepal, insieme a centinaia
di tibetani di ogni ceto, tra nobili, monaci e gente comune che furono accolti come
rifugiati politici. Il XIV Dalai Lama, allora ventiquattrenne, fu il senz’
altro il più noto tra tutti questi rifugiati politici.
Quello
tra gli hippies occidentali e i monaci tibetani fu l’ incontro sorprendente tra
due mondi estremamente diversi tra loro, che in circostanze normali non si
sarebbero mai avvicinati: i primi erano in larga parte giovani disinseriti con
alle spalle trascorsi drammatici, il più delle volte scanditi da problemi personali
o famigliari, dalla droga o dall’ alcool, e quasi ognuno di loro era alla
ricerca di valori alternativi, sicuri di poterli trovare nella celebre terra
dei ràjah, che da migliaia di anni dava i natali a bramini, filosofi, mistici,
santoni, yogin ed asceti isolatisi nella più assoluta e terrificante solitudine
in eremi appollaiati su rocce lontane e inaccessibili, sulla cima di vette
solitarie, dediti a tecniche meditative antiche, affascinanti e profonde,
tenute rigorosamente segrete e trasmesse direttamente da un maestro a speciali
discepoli attentamente scelti. Gli altri erano invece i riveriti custodi di una
filosofia vasta e complessa da secoli tramandata in numerosi conventi simili a
vere e proprie università in un Paese, il Tibet, il più alto e isolato al
mondo, che da lungo tempo rappresentava un enigma per il mondo tranne che per sé
stesso, da cui di tanto in tanto giungevano voci su divinità dall’ aspetto
feroce, demoni dal terribile potere nocivo, spiriti protettori onnipresenti e onnivedenti,
oracoli danzanti urlanti responsi di varia natura e lama dotati di immensi
poteri miracolosi e guaritori.
Gli
hippies erano un gruppo di persone del tutto fuori del comune, incuranti del proprio
aspetto disordinato, con la barba folta e i capelli incolti, spesso vivacizzati
dalle droghe. Per anni avevano vagato alla ricerca di divertimento o
ispirazione spirituale, a volte solo per conoscere nuove sostanze stupefacenti,
acculando una vasta varietà di concetti mistici e filosofici soggiornando in numerosi
ashram. Costantemente alla ricerca del grande guru, si imbatterono nei lama
tibetani in esilio, dai quali vennero accolti fraternamente ricevendo poi gli
antichi insegnamenti del Buddha, stabilendo un profondo e variegato legame spirituale
che portò molti di loro a farsi a monaci, mentre altri dopo alcuni anni
tornarono a casa aprendo centri religiosi tramite i quali conservarono i propri
contatti con rispettivi i maestri, che invitarono ufficialmente ad insegnare direttamente
in Occidente, dando vita ad associazioni attive ancora oggi. Più o meno quanto
l’ Induismo, la religione da cui scaturì, oggi il Buddhismo in ogni sua scuola
è una realtà sempre più consueta nel nostro Ovest, e per entrare in contatto
con esso non è più necessario partire alla volta di un lungo e faticoso viaggio
alla volta degli angoli più remoti dell’ Oriente, basta infatti recarsi al
vicino centro religioso ove spesso vive stabilmente un maestro qualificato ed
educato alla maniera tradizionale. Appena quattro decenni fa, invece, entrambe
le religioni erano ancora saldamente celate entro i confini della terra d’
origine o le mura delle comunità di espatriati in altri Paesi.
In
questo vasto e articolato panorama di incontri tra pensieri e mondi diversi spicca
il nome di un personaggio le cui vicende furono fondamentali nella diffusione
del Buddhismo tibetano in Occidente, una persona unica nel suo genere, che
visse un’ esistenza straordinaria dando imprevedibilmente inizio ad una diffusione
su vasta scala degli insegnamenti dei lama in Europa, America ed Oceania. Una
donna che fu la prima occidentale a richiedere gli insegnamenti a due giovani
lama che in seguito avrebbero ottenuto largo seguito di discepoli in Occidente,
andando tuttavia incontro ad uno strano destino che vide la sua vita infiorettarsi
di un che di leggendario per poi avviarsi sempre più tra le nebbie del
dimenticatoio: la donna mondana Zina Rachevsky, bella e giovane benestante di
discendenza russa ed ebraica, discepola di lama Yeshe e lama Zopa, passata alla
storia come una principessa fattasi monaca.
Zina Rachevsky nel 1953; |
Zina
Rachevsky nacque il 1° settembre 1930 all’ Ambassador Hotel di New York, figlia
di Vladimir Rachevsky, un immigrato russo figlio di un colonnello caduto nel 1904
durante la battaglia di Port Arthur, scontro iniziale della guerra
russo-giapponese, e Harriet Straus, figlia di Simon William Straus, un ricco
banchiere ebreo di provenienza tedesca, fondatore della SW Straus & Co.,
istituto bancario molto attivo nel settore immobiliare, che a partire dal 1921
aveva concesso prestiti pari a centocinquanta milioni di dollari. Straus, che morì
nello stesso anno della nascita della nipote, era peraltro proprietario degli Ambassador
Hotel di New York, Atlantic City e Los Angeles.
I
genitori si erano sposati in segreto a Parigi nel 1929, contrariamente al
parere del padre di lei, che non vedeva di buon occhio l’ unione con un russo
non ricco, ebreo ma convertito al Cristianesimo per evitare l’ antisemitismo e
peraltro cognato di un membro dell’ ex famiglia imperiale. Alla neonata venne dato
il nome di sua zia, sorella di suo padre e moglie del granduca Boris
Vladimirovich Holstein-Gottorp, nipote dello zar Alessandro II e cugino di
primo grado di Nicola II, riuscito a sfuggire alla Rivoluzione d’ ottobre e al
cruento sterminio di Casa Romanov.
Fin
da bambina, Zina fu uno spirito libero e anticonformista, una donna
indipendente, assai forte e curiosa. Nel 1940 si trasferì in Francia, ove trascorse
la giovinezza come personaggio del bel mondo. Appena diciottenne, nel 1948, sposò
il conte Bernard d’ Harcourt, di ventitré anni, e da cui divorziò dopo appena
due anni. Si diede alla musica, facendo la cantante e la ballerina negli spettacoli
di cabaret, e fu allora che per la prima volta diede risalto all’ aspetto
aristocratico della sua parentela facendosi impropriamente passare per una
principessa russa, contribuendo a risaltare il proprio nascente personaggio. Nel
1949 ottenne una parte nel film «Maya», di Raymond Bernard, e nell’ aprile 1952
la stampa di Parigi diede ampio risalto alla sua relazione con Marlon Brando.
Venne ingaggiata nel film «La vedova allegra», con Lana Turner, e nel decennio
successivo ottenne svariati ruoli secondari. Scrisse di lei il giornalista
Walter Winchell: «L’
affascinante Zina Rachevsky, meravigliosa signora del lusso (che è una discendente
degli zar, non di tutti?) ha finalmente trovato la propria vocazione nel cinema
italiano, in cui ciò che viene considerato grossolano fa di lei una sirena tettona
e lussuriosa.».
Nel
1953 annunciò il matrimonio con il principe Mario Ruspoli, noto regista cinematografico,
che tuttavia durò poco. Successivamente, nel 1955, la rivista Confidential la citò
tra le donne che accusavano Burt Lancaster di abusi sessuali, mentre l’ anno seguente
incappò in un grave scandalo in quanto nel suo appartamento venne trovata una
grande quantità di stupefacenti: da qualche tempo, infatti, era amica di
Timothy Leary, noto sostenitore dei benefici dell’ LSD. Sposatasi con il
regista Conrad Rooks, ebbe due figli, Alex, nato nel 1958, e Rhea, classe 1966.
Anche tale matrimonio cessò con un veloce divorzio.
Zina con lama Yeshe, a sinistra, e lama Zopa, a destra; |
Nel
1965 ebbe inizio una serie di eventi molto particolari della vita di Zina.
Stanca di un’ esistenza particolarmente pubblicizzata dai rotocalchi e intensa,
e sempre più attratta dalla spiritualità orientale, dopo l’ iniziale incontro
con le idee della Società Teosofica di Helena Blavatsky e la lettura di «La via
delle nuvole bianche - Un buddhista in Tibet» di lama Anagarika Govinda, un
tedesco che nei primi Anni Trenta si era recato in Tibet divenendo monaco e
discepolo di ghesce Ngawang Kalsang, meglio noto come Domo Ghesce Rinpoche, nell’
aprile 1965, a due mesi dalla morte del padre a Parigi, insieme alla
figlioletta Rhea giunse al Monastero di Ghoom, a Darjeeling, in India, dopo una
sosta nello Sri Lanka, alla ricerca del celebre Domo Ghesce Rinpoche, ove fu presentata
a lama Yeshe e lama Zopa, due giovani monaci reincarnati appartenenti al celebre
Monastero di Sera, situato a Lhasa, capitale del Tibet, da poco scappati a seguito
della repressione cinese contro gli ordini religiosi. Si racconta che lama Zopa
fosse soprannominato Domo Rinpoche fin da quando viveva al Monastero di Dunkhar,
e che Zina credette erroneamente che fosse il lama che stava cercando, quindi gli
richiese se fosse disposto a darle insegnamenti su come raggiungere la Bodhi,
il Risveglio buddhista: da questo insolito incontro sarebbe nata una profonda
amicizia, e i lama avrebbero trascorso nove mesi ad insegnare presso di lei
prima che partisse da Darjeeling per tornare in Sri Lanka a causa della
scadenza del suo visto. La giovane scrisse numerose lettere al XIV Dalai Lama,
pregandolo di permettere ai lama di raggiungerla, e una volta ottenuto il
permesso tornò nella terra dell’ elefante, ma inaspettatamente si recarono a Dharamsala,
residenza del Dalai Lama e sede del governo tibetano in esilio, ove Zina fu
ordinata monaca novizia. Nel 1967 lama Yeshe, lama Zopa e la loro discepola lasciarono
l’ India alla volta del Nepal, vivendo inizialmente vicino allo stūpa di
Boudhanath, presso Kathmandu. Dopo alcuni anni, riuscirono ad acquistare un
terreno sulla sommità di una collina vicina, Kopan, ove fondarono un monastero nel
1969, il cui edificio principale fu costruito tra il 1971 e il 1972, finanziato
quasi esclusivamente dal crescente numero di discepoli occidentali dei lama,
molti dei quali erano amici di Zina, attratti tanto dal Buddhismo tibetano
quanto dal cambiamento avvenuto in lei.
In
realtà, pare le cose siano iniziate in maniera differente, e meno romantica: negli
anni, alcune persone informate sui fatti e consultate dai parenti di Zina
riferirono in maniera confidenziale che mentre lei era alla ricerca di Domo
Ghesce a Darjeeling, i due lama sentirono parlare di questa «ricca statunitense»
appena giunta sul posto, e iniziarono a corteggiarla, anzi a «dirottarla», mirando
al suo patrimonio e alle sue risorse europee e statunitensi, ai quali avrebbero
aggiunto i propri legami politici e religiosi. Non avevano mai insegnato a un
occidentale prima di allora, ma la accettarono come discepola senza problemi: lei
portò altri discepoli europei e statunitensi a studiare presso di loro,
acquistò un terreno e rese possibile l’ apertura del Monastero di Kopan. Sembra
che Zina volesse fondare un convento femminile, idea a cui i lama si sarebbero
opposti preferendo avviare un centro di ritiri. La giornalista britannica Vickie
McKenzie, che conobbe personalmente sia lama Yeshe che lama Zopa, divenendone
discepola, scrisse un libro, «Reincarnazione - Il piccolo grande lama», in cui raccontò
quella che ormai è considerata la versione ufficiale della storia di Zina e del
suo incontro loro, ritenuta veritiera solo in piccola parte, essendo basata
prevalentemente su elementi leggendari:
«Un giorno del 1965 accadde una cosa straordinaria.
Nella loro stanza apparve la figura più improbabile di tutte. Una bella,
giovane e bionda principessa di origine russa, di nome Zina Rachevsky. Cercava
Domo Ghesce Rinpoche, senza dubbio ispirata alla figura romantica del libro di lama
Govinda, ed era stata erroneamente condotta da lama Zopa, noto anche come Domo
Rinpoche sin dal suo soggiorno al Monastero di Dunkhar, in Tibet. Ignara dell’
errore, avanzò e chiese audacemente: ‘Come posso trovare la pace e la liberazione?’.
Dire
che i due lama rimasero sorpresi sarebbe poco. Nessuno straniero, in
particolare il famigerato barbaro occidentale, era mai entrato nei loro alloggi
prima. Nessun barbaro aveva mai parlato con loro in quel modo prima di allora,
e certamente neppure aveva mai parlato di volere l’ Illuminazione. Ma Zina
Rachevsky non era una persona normale. La sua vita era, a suo modo,
straordinaria quanto quella dei due lama. Suo padre era un principe russo, un
Romanov fuggito alla rivoluzione russa, sua madre un’ ereditiera, una delle donne
più ricche degli Stati Uniti. Zina era cresciuta a Hollywood ed era diventata
un prodotto tipico della mecca del cinema, viziata, precoce, insicura, in cerca
di attenzione, profondamente infelice. Già da adolescente era più di una volta finita
sui giornali, non solo per il suo ingresso nel mondo delle dive, ma anche per
il coinvolgimento in vari scandali legati alla droga. Era bellissima, formosa,
sexy, una nuova di Marilyn Monroe, scatenata e determinata a vivere ai limiti.
Quando incontrò lama Yeshe era letteralmente sfinita. Le droghe, l’ alcool, le
lunghe nottate, la vita dispendiosa e le troppe relazioni avevano avuto il loro
peso. Ai lama parvero giustificati i pregiudizi dei loro compatrioti nei riguardi
dei demoni occidentali degenerati, non spirituali, quindi per un po’ non
dissero nulla, si limitarono a guardare. Faceva sul serio? Mentiva? O era, come
intuiva lama Yeshe, qualcuno di molto speciale? Con la sua saggezza decise di
metterla alla prova. Mi disse: ‘In qualche modo, con il mio inglese limitato,
le diedi una risposta e dopo un’ ora disse che doveva andarsene. Fui sorpreso
quando chiese se potesse tornare il giorno dopo. Le dissi che andava bene. E
lei venne a fare altre domande, e le diedi alcuni insegnamenti. Per una
settimana venne a trovarci con la jeep, e poi ci chiese se fossimo disposti ad
andare a trovarla.’. Lama Yeshe esitò per un momento. Il passo che stava per
compiere era irrevocabile. A questo punto intervenne lama Zopa. Con tutto lo
zelo del suo giovane cuore di bodhisattva implorò lama Yeshe più e più volte di
non abbandonare questa donna giunta a cercare il suo aiuto. Lama Yeshe ancora era
incerto. Lama Zopa sapeva che cosa stava chiedendo? Capiva l’ enorme
responsabilità che stavano per prendere e che sarebbe ricaduta sulle loro
spalle? Era preparato a tutto ciò che sarebbe avvenuto? Ma il voto del bodhisattva,
che avevano entrambi fatto, non è scritto sulla sabbia, dove la marea può spazzarla
via, ma è inciso sulla roccia ove resta per sempre. Entrambi sapevano,
ovviamente, che non potevano rifiutare chiunque cercasse sinceramente la
verità. E così lama Yeshe e lama Zopa misero in moto la Ruota del Dharma a
beneficio dell’ Occidente, e nei successivi nove mesi diedero a Zina Rachevsky
ogni giorno gli insegnamenti che desiderava con tanta serietà. Deve essere
stato uno scambio affascinante per entrambi. Se Zina era incuriosita dai sant’
uomini in cui si era imbattuta, loro dovevano essere altrettanto colpiti da
lei. Come mi disse lama Yeshe: ‘Era molto insoddisfatta di tutto! Disse che la
sua vita era vuota e non aveva sapore. Aveva fatto tutto, ma non riusciva
ancora a trovare soddisfazione. Potevo capire quello che stava dicendo. In
confronto a lei, io non avevo nulla: non una patria, non una casa, niente denaro,
nessun bene personale, nessuna famiglia, eppure avevo tutto. Con Zina, e più
tardi con gli altri discepoli occidentali, iniziai ad indagare sul loro stile
di vita. Mi resi conto che ciò che mancava a Zina era la comprensione di sé
stessa, della sua vita interiore. Le mancava la comprensione del suo potenziale
per essere felice. Pensava che la felicità venisse dall’ esterno, non dall’ interno.’.
Zina
aveva finalmente trovato una ragione di vita, che le era sempre mancata nella
sua frenetica e triste esistenza. Alla fine dei suoi nove mesi di insegnamento
privato, la scadenza del suo visto la costrinse a tornare in Sri Lanka. Scrisse
poi molte lettere al Dalai Lama supplicandolo di permettere a lama Yeshe e lama
Zopa a farle visita in Sri Lanka. Quando il permesso venne accordato, Zina
tornò in India a prenderli, ma sul momento decise di andare insieme a loro
prima a Dharamsala per tentare di ricevere un’ udienza presso Sua Santità. Al suo
arrivo, si convinse che la sua vera vocazione fosse quella di diventare monaca.
Di nuovo, lama Yeshe esitò. Avere una discepola occidentale era una cosa, un’ altra
era averla con la testa rasata e le vesti rosse. ‘Ci pensai per un po’.’ ammise
‘Poi decisi che andava bene. Sembrava addirittura una buona idea. Quindi chiesi
personalmente al Dalai Lama se avrebbe dato a Zina l’ ordinazione.’.».
il Monastero di Kopan; |
Tra
le pagine del suo libro, un’ opera saggistica che vendette un numero di copie
notevolmente elevato in breve tempo, la cronista britannica dipinse un ritratto
suggestivo di Zina, ma non propriamente corretto. Suo padre, innanzitutto, non
era un principe, ma semplicemente cognato di un membro di un ramo cadetto di
Casa Romanov, che in quanto tale aveva ricevuto il titolo granducale. I suoi
genitori si erano sposati dodici anni dopo l’ avvento del Bolscevismo, evento
traumatico che non videro con i propri occhi. La versione ufficiale riportata
dalla McKenzie esclude la possibilità che lama Yeshe e lama Zopa abbiano pensato
a Zina circa le possibilità che la sua ricchezza avrebbe offerto alla loro
causa, presentando loro come nobili e puri, assolutamente disinteressati alle opportunità
terrene, e lei come una viziata finita allo sbando per poi essere redenta dal Buddhismo.
Certamente, la giovane donna aveva vissuto alcuni eccessi e, analogamente a
tanti altri occidentali, aveva perduto la fiducia nelle tradizioni e nei valori
tipici dell’ Occidente, finendo con il cercare e trovare risposte nella
tradizione orientale, ma probabilmente i lama rimasero colpiti e suggestionati dalla
sua maestosità e dalle sue disponibilità finanziarie, quanto effettivamente dalla
possibilità di insegnare a uno straniero venuto da un mondo lontano. Tutte cose
da cui avrebbero ricavato una posizione utile e vantaggiosa. Occorre tenere
presente che l’ incontro tra il Tibet e l’ Occidente fu come una collisione in
volo tra due realtà contrastanti. Tibetani e occidentali erano entrambi gruppi
di esuli, fuggiaschi in direzioni opposte: i primi erano in fuga dall’ invasore
cinese e comunista, gli altri dalle famiglie in crisi, dalla Guerra fredda, dal
sistema militaristico e industriale. I tibetani volevano sopravvivere in un mondo
a loro estraneo e non amico dal quale temevano di non potersene mai più andare,
mentre gli occidentali si rivolgevano a loro nella speranza che le affascinanti
intuizioni del Buddhismo risolvessero le loro angosce esistenziali. Entrambe le
parti cozzarono tra loro nei cieli dell’ India, e curiosamente nessuna capiva
veramente i bisogni dell’ altra.
Quanto
alla «vita vuota e senza sapore» di Zina, si può affermare che si tratti di una
semplice esagerazione, atta a porre l’ opera missionaria dei lama sotto una luce
opportunamente favorevole. La madre Harriet e le sue sorelle erano famose per aver
vissuto in maniera un po’ animata negli anni giovanili, ma in famiglia avevano atteggiamenti
più miti e, come spesso accade alle persone facoltose, le loro vicende vennero
amplificate dai pettegolezzi fino a farle sfociare in scandali ripresi e
ingigantiti dalla stampa. Chi conobbe Zina la descrisse come una persona intelligente,
motivata, creativa e avventurosa, per nulla «viziata, in cerca di attenzione e profondamente
infelice» come riferito dalle pagine del libro della McKenzie, molto
probabilmente basato su notizie curiose riferite da altri e quindi facilmente manipolabili
al punto da sconfinare nella favola. L’ autrice non conobbe personalmente Zina,
e non citò le proprie fonti nel testo, che negli anni divenne una delle
principali descrizioni del personaggio, segnandolo come moralmente e
spiritualmente carente in confronto ai nobili e puri lama, un quadro ampiamente
ripreso dalle pubblicazioni sia cartacee che informatiche sulla storia di lama
Yeshe.
Zina, monaca buddhista, nel 1970; |
La
vita straordinaria di Zina, e la sua intensa avventura nel mondo dei monaci,
della meditazione, dei tantra, del guru yoga, dei mantra e degli yidam cessò
improvvisamente in modo altrettanto insolito e drammatico.
Dopo
la realizzazione del Monastero di Kopan, lama Yeshe stabilì che per lei fosse
meglio dedicarsi alla meditazione, quindi la inviò in una grotta in montagna
nei pressi del Monastero Thubten Choling, con il compito di trascorrervi tre
anni, dedicandosi alle tecniche che le aveva insegnato e recitando tre milioni
e seicentomila mantra. Lei accettò, in ottemperanza alla tradizione del
Buddhismo tibetano, secondo cui la devozione al maestro, indicato come radice
di ogni virtù, è il fondamento del sentiero, e solo affidandosi del tutto a lui
e seguendolo costantemente con fede e assoluta dedizione in ogni cosa si
raggiunge velocemente la buddhità, sebbene all’ inizio la completa solitudine le
parve terribile, passando la maggior parte del tempo a scrivere sul suo diario.
In un secondo momento, però, si adattò ed entrò nello spirito del ritiro.
Giunta a metà del periodo ricevette una visita di lama Yeshe, partito appositamente
da Kopan dopo un volo di due ore, nonostante l’ inizio della stagione dei monsoni
che rendeva difficili i voli nella zona di Katmandu. Maestro e discepola
trascorsero insieme dieci giorni, finché lui non fece rientro a Kopan. Lei morì
improvvisamente un mese e mezzo dopo, il 20 ottobre 1973, ad appena quarantatré
anni, nel pieno della pratica meditativa, nella posizione del loto, dopo una
lunga e intensa sofferenza allo stomaco, assistita da un monaco trentenne, Norbu,
e dalla figlia Rhea, di appena sette anni. Si disse che fosse stata colpita
dall’ epatite o dalla peritonite, oppure che avesse ingerito cibo dannoso. Poco
prima della morte di Zina, alcuni ufficiali di polizia, sapendo che era ormai
prossima al decesso, giunsero all’ eremo per domandare se avesse dato disposizioni
circa le sue proprietà e il patrimonio sul suolo nepalese. La piccola Rhea
rispose che non vi era nulla di cui preoccuparsi poiché tutto era già stato affidato
a due monaci occidentali, uno dei quali, Ngawang Chötak, era statunitense e risiedeva
al vicino Thubten Choling. Zina si spense recitando mantra e tenendo in una
mano una mālā, ossia un rosario per la recitazione dei mantra, e la mano di
Rhea nell’ altra. I monaci raccontarono che, analogamente ai grandi yogin e praticanti
del Buddhadharma, quando smise di respirare rimase ulteriormente in meditazione
per tre giorni, salda nella postura meditativa, tanto da sembrare ancora viva. Al
terzo giorno, infine, il suo volto si sarebbe afflosciato e il colorito sarebbe
mutato, mentre il cadavere avrebbe iniziato a emanare cattivi odori. Venne quindi
trasportata fino all’ area del monastero addetta alle cremazioni, e le sue
ceneri vennero suddivise tra varie abbazie tibetane.
Lama Yeshe; |
La
sua morte prematura fu una tragedia, tuttora avvolta nel mistero. Avvenne al
culmine della sua esistenza, con la mente e il cuore profondamente dediti alla spiritualità,
e come spesso accade alle persone particolari coinvolte in imprese singolari
non poté assistere al compimento di ciò a cui aveva inconsapevolmente dato
inizio. Appena due mesi dopo, nel dicembre 1973, con l’ avvicinamento di sempre
più occidentali al Buddhismo tibetano, il Monastero di Kopan divenne la sede
dell’ International Mahayana Institute, organizzazione composta da monaci e
monache occidentali, che funse da base di un nuovo Sangha, ossia comunità
spirituale in sanscrito, che in quel momento contava una trentina di discepoli,
seguendo un programma di lavoro, studio e ritiro meditativo ideato affinché
dedicassero completamente le proprie vite all’ insegnamento buddhista. In
seguito, furono pubblicati insegnamenti e traduzioni redatti dai lama ed
organizzati ritiri individuali e di gruppo per meditatori interessati e
appartenenti ad ogni genere di tradizione religiosa. In seguito, furono
acquistati terreni a Dharamsala, ove vennero aperti nuovi centri di ritiro e
librerie. Negli anni furono aperti numerosi centri buddhisti anche in
Occidente, ad opera di quei discepoli che dopo un periodo in Oriente scelsero
di tornare a casa pur continuando a conservare il proprio legame con lama Yeshe
e lama Zopa, diffondendo i loro insegnamenti e raggruppati in un’
organizzazione dedita a svariate attività connesse alla preservazione del
Buddhismo tibetano nei Paesi occidentali, tra monasteri, centri di ritiro, case
editrici, negozi di artigianato religioso e molto altro.
La
diffusione del Buddhismo tibetano raggiunse livelli singolarmente alti,
superando quella della maggior parte delle altre scuole, come lo Zen e il
Theravada, o quanto raggiunto dall’ Induismo, eppure Zina venne gradualmente
dimenticata dalla comunità spirituale sorta intorno a lama Yeshe e a lama Zopa,
che relegò la sua vicenda a determinati accenni opportunamente ritoccati in
modo da conferire un’ aura di nobiltà e autorità ai due giovani lama, sfuggiti
da un Paese oppresso eppure entrati in contatto con un mondo nuovo che, pur
vantando immensi progressi materiali, soffriva di una profonda crisi di valori
a cui avrebbero opportunamente saputo rimediare trasmettendo quegli antichi e
misteriosi insegnamenti custoditi rigorosamente tra i monasteri di montagna
rimasti isolati per secoli. All’ inizio degli Anni Ottanta, tuttavia, alcuni
parenti di Zina che non l’ avevano conosciuta personalmente visitarono il
Monastero di Kopan alla ricerca di qualcuno che l’ avesse incontrata, volendo
in qualche modo scoprire chi fosse stata ed entrare in contatto con il suo
spirito e le sue motivazioni: al ritorno negli Stati Uniti riferirono che dopo
molte difficoltà trovarono solamente un paio di persone disposte a parlare, ma
con tale ritrosia da rendere assai penosa la conversazione su di lei, il suo ruolo
nel varo del centro e quel che fece mentre visse colà. La gente tendeva
abilmente ad evitare tutto ciò che riguardasse Zina, rispondendo che chi avrebbe
saputo adeguatamente rispondere era via oppure estremamente occupato. La
maggior parte dei presenti disse che nessuno la conosceva.
Nella
vita di alcune persone esiste materiale a sufficienza per poter parlare di
persone uniche, di esistenze straordinarie. Oscar Wilde, riassumendo in poche
parole l’ atteggiamento che le persone famose hanno rispetto alla propria popolarità,
disse: «C’ è solo una cosa peggiore del fatto che si parli di qualcuno, ed è
che non se ne parli.». Senza dubbio, tutto questo fu vero per Zina. Una parte
di lei era la ragazza privilegiata, dal carattere vivace e anticonvenzionale, l’
altra invece era la donna alla ricerca di un ambiente e di un’ attività adatti
a lei. Entrambi questi aspetti la condussero in Oriente, un luogo molto lontano
e diverso da quanto a cui era abituata, contribuendo senza saperlo alla
scoperta di un sistema religioso e spirituale vasto e complesso, rimasto
isolato per secoli tra le più alte montagne del mondo, e ad avvicinarlo al
moderno Occidente.
Fu
una pioniera vera e propria, e nel corso della sua breve esistenza indossò
abiti molto diversi, quelli della ricca ereditiera russo-ebraica, seguiti da
quelli dell’ attrice e donna di spettacolo, da quelli di figlia dei fiori e,
infine, dalla tonaca rossa e gialla dei monaci buddhisti tibetani. Ritocchi
propagandistici a parte, visse un’ esistenza variegata, intensa e suggestiva,
assai complessa.
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