venerdì 25 aprile 2025

L’ antifascismo ha mai funzionato?

Milano festeggia il 26 luglio 1943 la caduta del Duce;


«Affinché il male trionfi, è sufficiente che i buoni non facciano nulla.» Edmund Burke;


La democrazia è un bene infinitamente prezioso, che va tenuto stretto e vissuto consapevolmente dal singolo individuo, e conoscere la storia passata è il modo migliore per intraprendere la strada verso un futuro migliore. Il 25 aprile 2024 ricadono gli ottant’ anni dalla caduta del Fascismo, e in una giornata come questa dovremmo riflettere sul valore e la sostanza della democrazia, ma senza una mentalità politica e di parte come invece abbiamo sempre fatto. E dato che per fortuna quei tragici eventi sono un ricordo sempre più lontano, credo che i tempi siano finalmente maturi per ammettere quanto l’ antifascismo, che esiste fin dagli albori del Fascismo, non sia mai stato affatto efficiente! In tono con la tradizione, oggi si fanno parole, paroloni ed elogi pomposi, pieni di retorica, ma studiando attentamente la storia, cosa oggi molto facile se si desiderano consultare le fonti, e molte di esse sono super partes, si può comprendere quanto l’ antifascismo non abbia mai veramente funzionato a causa dell’ inoperosità degli stessi antifascisti, consegnando il Paese al Fascismo con tutto ciò che ne derivò nel Ventennio.

Il Discorso del bivacco;


Dopo mesi di violenze squadriste contro i partiti e i sindacati di sinistra, tra il 26 e il 30 ottobre 1922 ebbe luogo la marcia su Roma, con circa venticinquemila camicie nere, armate solo in parte e malamente, che affluirono indisturbate nella capitale. Re Vittorio Emanuele III si precipitò in città dalla Tenuta di San Rossore e comunicò al Presidente del Consiglio dei ministri, Luigi Facta, l’ intenzione di decidere personalmente sulla crisi in atto. Sovrano e Primo ministro ebbero due colloqui, sia alla stazione di Roma che a Villa Savoia, nei quali il primo avrebbe detto che si rifiutava di deliberare «sotto la minaccia dei moschetti fascisti» per poi chiedere al Governo di prendere tutti i provvedimenti necessari e da sottoporre poi alla sua approvazione. Per quanto la situazione fosse grave, Facta, convinto fino all’ ultimo che Benito Mussolini imbrogliasse, se ne andò a dormire come se nulla fosse per poi essere svegliato nel cuore della notte dai suoi collaboratori che lo informavano delle occupazioni fasciste e della calata delle colonne di camicie nere su Roma. In mattinata riunì il Consiglio dei ministri, che su precise insistenze del generale Arturo Cittadini, primo aiutante di campo del Re, decise il ricorso allo stato d’ assedio per bloccare la marcia. Ma quando alle 9:00 del mattino Facta si recò al Quirinale per la controfirma del regnante, ricevette un rifiuto in uno scatto di collera di Vittorio Emanuele: «Queste decisioni spettano soltanto a me. Dopo lo stato d’ assedio non c’ è che la guerra civile. Ora bisogna che qualcuno di noi due si sacrifichi.». Pare che il Primo ministro rispose congedandosi: «Vostra Maestà non ha bisogno di dire a chi tocca.». Secondo Renzo De Felice, il maggiore storico del Fascismo, i possibili motivi che potrebbero avere indotto il Re a evitare lo scontro con i fascisti sarebbero stati la debolezza del governo in carica, le incertezze dei vertici militari, i timori per gli atteggiamenti filofascisti del Duca Emanuele Filiberto di Savoia Aosta, secondo nella linea di successione al trono italiano da cui temeva un colpo di mano, e il timore di una guerra civile. Facta presentò le dimissioni, subito accolte dal Re, che il 29 ottobre, consultatosi con i massimi esponenti della classe dirigente politica liberale, da Giolitti a Salandra, e militare, come Diaz e Thaon di Revel, e dopo la bocciatura da parte mussoliniana di un possibile gabinetto Salandra-Mussolini, nel desiderio di far includere il movimento fascista in sede parlamentare e quindi di favorire la pacificazione sociale, affidò a Mussolini, deputato dal 1921, l’ incarico di formare un nuovo governo. E Mussolini si presentò in aula indirizzandosi al Parlamento con tono apertamente minaccioso: «Potevo fare di quest’ aula sorda e grigia un bivacco di manipoli: potevo sprangare il Parlamento e costituire un Governo esclusivamente di fascisti. Potevo: ma non ho, almeno in questo primo tempo, voluto.». Al momento del voto, ricevette una larga fiducia dal Parlamento, ottenendo alla Camera 316 voti a favore, 116 contrari e 7 astenuti. I deputati fascisti erano appena 35. Tra i voti favorevoli spiccarono quelli di Giovanni Giolitti, Benedetto Croce, in seguito il massimo rappresentante dell’ antifascismo liberale, e di Alcide De Gasperi, poi padre della Repubblica italiana, mentre Francesco Saverio Nitti lasciò l’ aula in segno di protesta. In Senato si contarono 196 voti favorevoli e 19 voti contrari.

Il primo governo Mussolini, composto da quattordici ministri e sedici ministeri, con Mussolini come capo del Governo e Ministro ad interim di Esteri e Interni, era formato da nazionalisti, liberali e popolari, tra i quali il futuro Presidente della Repubblica Giovanni Gronchi, sottosegretario all’ Industria. Insomma, i partiti democratici dell’ epoca, popolari e liberali, votarono una fiducia schiacciante al dittatore, mentre secondo la versione ufficiale di oggi tutta la colpa sarebbe stata del Re, che ancora oggi viene accusato di inattività e persino di complicità.

Il Regno d’ Italia era una Monarchia costituzionale, con i tre poteri, esecutivo, legislativo e giudiziario, regolati e suddivisi da una Costituzione, lo Statuto Albertino del 1848, ma di fatto, anche in considerazione delle forti personalità politiche che guidavano i governi e del peso che assunsero i partiti politici, si era evoluta in una forma di Monarchia più propriamente parlamentare. Nell’ aprile 1924 vennero indette nuove elezioni, che si svolsero tra gravi irregolarità. Il deputato socialista Giacomo Matteotti denunciò coraggiosamente gli abusi con un duro ma circostanziato discorso alla Camera, con il quale chiese di annullare il risultato delle elezioni, ma il 10 giugno venne rapito per poi essere trovato morto il successivo 16 agosto. Il fatto scosse il mondo politico e aprì un semestre di forte crisi interna, risolto infine il 3 gennaio 1925 quando Mussolini, rafforzato sul piano internazionale dal recente incontro con il Primo ministro britannico Neville Chamberlain, rivendicò la responsabilità non materiale dell’ accaduto: «Se il Fascismo è stato un’ associazione a delinquere, io sono il capo di questa associazione a delinquere!». Ebbe perfino l’ audacia di ricordare al Parlamento la procedura di messa in stato d’ accusa conformemente all’ Articolo 47 della carta costituzionale. La Camera, dove per soli sette seggi gli iscritti al Partito Nazionale Fascista erano la maggioranza e l’ opposizione era frantumata nelle molteplici correnti e incapace di accordarsi su strategie condivise, indebolita dalla secessione dell’ Aventino, non procedette per chiedere le dimissioni di Mussolini e neppure elaborò una credibile formazione di governo alternativa. Nemmeno la scelta extraparlamentare dell’ opposizione seppe mobilitare le masse. Re Vittorio Emanuele, come previsto dalle leggi dello Stato allora vigenti, rimase in attesa di un’ iniziativa parlamentare. Quando il senatore Campello gli presentò le prove della responsabilità del Presidente del Consiglio dei ministri nel delitto Matteotti, rispose senza mezzi termini: «Sono cieco e sordo. I miei occhi e le mie orecchie sono la Camera e il Senato.». Nessun parlamentare fece ricorso all’ Articolo 47: fu la prova dell’ inefficienza dell’ alta adunanza dello Stato. Il Re non poteva agire a prescindere dagli organi istituzionali e da quel momento Mussolini si mosse per via procedurale nell’ instaurazione della dittatura fascista divenendo il Duce, approfittando della flessibilità dello Statuto Albertino, che poteva essere modificato o integrato con legge adottata secondo la procedura ordinaria: fu in questo clima che il Re firmò le leggi fascistissime del 1925, che soppressero la democrazia, e le leggi razziali del 1938, per poi destituire Mussolini da capo del governo il 25 luglio 1943 in favore del maresciallo Pietro Badoglio a seguito del voto di sfiducia del Gran Consiglio del Fascismo, divenuto negli anni il massimo organo costituzionale del Regno d’ Italia. Un Re costituzionale o parlamentare non può per legge andare contro le decisioni del governo, così come una dittatura è un fenomeno che comprende sempre molte persone a livello nazionale, e poggia fortemente sul consenso nazionale. Il Fascismo era appoggiato dalla borghesia e dall’ aristocrazia, i pilastri della società di allora in quanto baluardo contro la corruzione del Comunismo, e si orientava alla costruzione di un grande impero coloniale che avrebbe riportato l’ Italia alle glorie e ai fasti dell’ antica Roma. Il popolo fu estasiato dai grandi sogni promessi dal Fascismo, che voleva andare oltre l’ infamia della vittoria mutilata del 1918. Nelle fotografie dell’ epoca, Mussolini era sempre attorniato da una folla esultante. Lui e poche migliaia di fascisti tra gerarchi, camicie nere, ministri e parlamentari proprio non avrebbero potuto controllare l’ intero popolo italiano se questo avesse scelto di non collaborare. Come disse Sir Winston Churchill: «Bizzarro popolo, gli italiani: un giorno 45 milioni di fascisti, il giorno successivo 45 milioni tra antifascisti e partigiani. Eppure questi 90 milioni di italiani non risultano dai censimenti…».

Re Vittorio Emanuele III;


E l’ attuale Repubblica, sorta a seguito del referendum istituzionale del 1946, nonostante il vanto di aver rotto i ponti con il Fascismo, negli anni volle al proprio servizio svariati funzionari fascisti, camice nere e altre figure inquietanti che, benché accusate da Jugoslavia, Grecia, Albania, Francia e dagli angloamericani per crimini di guerra, mai furono processate in Italia o epurate, estradate all’ estero o giudicate dai tribunali internazionali: piuttosto, tutti furono reinseriti negli apparati dello Stato democratico con ruoli di primo piano, divenendo questori, prefetti, capi dei servizi segreti, deputati e ministri. Tra coloro che non si macchiarono di colpe ma che parteciparono al governo fascista e ne condivisero le idee vi furono ad esempio Giovanni Gronchi, sottosegretario al Ministero dell’ Industria nel primo governo Mussolini e poi terzo Presidente della Repubblica; Giuseppe Pella, Vice Podestà della città di Biella e poi secondo Presidente del Consiglio dei ministri e più volte ministro; Amintore Fanfani, che si espresse favorevolmente per il Manifesto della razza e le leggi razziali del 1938, poi padre costituente e Presidente del Consiglio dei Ministri; Aldo Moro, in gioventù di aperte simpatie fasciste avendo aderito ai Gruppi universitari fascisti, favorevole al sostegno italiano alla guerra civile spagnola e all’ intervento nel 1940 a fianco della Germania vedendo nel Fascismo il miglior sistema politico atto a garantire tale integrazione politica, civile e morale, ovvero cristiana, e poi a sua volta Presidente del Consiglio; Giovanni Spadolini, dalle giovanili simpatie per il Fascismo repubblichino fino al 1944, quando lamentò che avesse perso «a poco a poco la sua agilità e il suo dinamismo rivoluzionario, proprio mentre riaffioravano i rimasugli della massoneria, i rottami del liberalismo, i detriti del giudaismo», primo Presidente del Consiglio dei ministri non democristiano. Notevole fu poi il caso di Giuseppe Pièche, uomo di fiducia di Mussolini e poi di Mario Scelba, Presidente del Consiglio negli anni Cinquanta. Altri personaggi cupi che nella neonata Repubblica divennero assai influenti venivano dall’ ala dura dei partigiani, come i comunisti Palmiro Togliatti e Pietro Secchia, di aperte simpatie sovietiche, e Francesco Moranino, capo partigiano responsabile di svariati delitti ed eccidi, prima tra tutte la strage della missione Strassera.

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