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Milano festeggia il 26 luglio 1943 la caduta del Duce; |
«Affinché il male
trionfi, è sufficiente che i buoni non facciano nulla.» Edmund Burke;
La
democrazia è un bene infinitamente prezioso, che va tenuto stretto e vissuto
consapevolmente dal singolo individuo, e conoscere la storia passata è il modo
migliore per intraprendere la strada verso un futuro migliore. Il 25 aprile
2024 ricadono gli ottant’ anni dalla caduta del Fascismo, e in una giornata
come questa dovremmo riflettere sul valore e la sostanza della democrazia, ma
senza una mentalità politica e di parte come invece abbiamo sempre fatto. E
dato che per fortuna quei tragici eventi sono un ricordo sempre più lontano, credo
che i tempi siano finalmente maturi per ammettere quanto l’ antifascismo, che
esiste fin dagli albori del Fascismo, non sia mai stato affatto efficiente! In
tono con la tradizione, oggi si fanno parole, paroloni ed elogi pomposi, pieni
di retorica, ma studiando attentamente la storia, cosa oggi molto facile se si
desiderano consultare le fonti, e molte di esse sono super partes, si può comprendere quanto l’ antifascismo non abbia
mai veramente funzionato a causa dell’ inoperosità degli stessi antifascisti,
consegnando il Paese al Fascismo con tutto ciò che ne derivò nel Ventennio.
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Il Discorso del bivacco; |
Dopo
mesi di violenze squadriste contro i partiti e i sindacati di sinistra, tra il
26 e il 30 ottobre 1922 ebbe luogo la marcia su Roma, con circa venticinquemila
camicie nere, armate solo in parte e malamente, che affluirono indisturbate
nella capitale. Re Vittorio Emanuele III si precipitò in città dalla Tenuta di
San Rossore e comunicò al Presidente del Consiglio dei ministri, Luigi Facta,
l’ intenzione di decidere personalmente sulla crisi in atto. Sovrano e Primo
ministro ebbero due colloqui, sia alla stazione di Roma che a Villa Savoia, nei
quali il primo avrebbe detto che si rifiutava di deliberare «sotto la minaccia
dei moschetti fascisti» per poi chiedere al Governo di prendere tutti i
provvedimenti necessari e da sottoporre poi alla sua approvazione. Per quanto
la situazione fosse grave, Facta, convinto fino all’ ultimo che Benito
Mussolini imbrogliasse, se ne andò a dormire come se nulla fosse per poi essere
svegliato nel cuore della notte dai suoi collaboratori che lo informavano delle
occupazioni fasciste e della calata delle colonne di camicie nere su Roma. In
mattinata riunì il Consiglio dei ministri, che su precise insistenze del
generale Arturo Cittadini, primo aiutante di campo del Re, decise il ricorso
allo stato d’ assedio per bloccare la marcia. Ma quando alle 9:00 del mattino
Facta si recò al Quirinale per la controfirma del regnante, ricevette un
rifiuto in uno scatto di collera di Vittorio Emanuele: «Queste decisioni
spettano soltanto a me. Dopo lo stato d’ assedio non c’ è che la guerra civile.
Ora bisogna che qualcuno di noi due si sacrifichi.». Pare che il Primo ministro
rispose congedandosi: «Vostra Maestà non ha bisogno di dire a chi tocca.».
Secondo Renzo De Felice, il maggiore storico del Fascismo, i possibili motivi che
potrebbero avere indotto il Re a evitare lo scontro con i fascisti sarebbero
stati la debolezza del governo in carica, le incertezze dei vertici militari, i
timori per gli atteggiamenti filofascisti del Duca Emanuele Filiberto di Savoia
Aosta, secondo nella linea di successione al trono italiano da cui temeva un
colpo di mano, e il timore di una guerra civile. Facta presentò le dimissioni,
subito accolte dal Re, che il 29 ottobre, consultatosi con i massimi esponenti
della classe dirigente politica liberale, da Giolitti a Salandra, e militare,
come Diaz e Thaon di Revel, e dopo la bocciatura da parte mussoliniana di un
possibile gabinetto Salandra-Mussolini, nel desiderio di far includere il
movimento fascista in sede parlamentare e quindi di favorire la pacificazione
sociale, affidò a Mussolini, deputato dal 1921, l’ incarico di formare un nuovo
governo. E Mussolini si presentò in aula indirizzandosi al Parlamento con tono
apertamente minaccioso: «Potevo fare di quest’ aula sorda e grigia un bivacco
di manipoli: potevo sprangare il Parlamento e costituire un Governo
esclusivamente di fascisti. Potevo: ma non ho, almeno in questo primo tempo,
voluto.». Al momento del voto, ricevette una larga fiducia dal Parlamento,
ottenendo alla Camera 316 voti a favore, 116 contrari e 7 astenuti. I deputati
fascisti erano appena 35. Tra i voti favorevoli spiccarono quelli di Giovanni
Giolitti, Benedetto Croce, in seguito il massimo rappresentante dell’ antifascismo
liberale, e di Alcide De Gasperi, poi padre della Repubblica italiana, mentre
Francesco Saverio Nitti lasciò l’ aula in segno di protesta. In Senato si
contarono 196 voti favorevoli e 19 voti contrari.
Il
primo governo Mussolini, composto da quattordici ministri e sedici ministeri,
con Mussolini come capo del Governo e Ministro ad interim di Esteri e Interni,
era formato da nazionalisti, liberali e popolari, tra i quali il futuro
Presidente della Repubblica Giovanni Gronchi, sottosegretario all’ Industria.
Insomma, i partiti democratici dell’ epoca, popolari e liberali, votarono una
fiducia schiacciante al dittatore, mentre secondo la versione ufficiale di oggi
tutta la colpa sarebbe stata del Re, che ancora oggi viene accusato di
inattività e persino di complicità.
Il
Regno d’ Italia era una Monarchia costituzionale, con i tre poteri, esecutivo,
legislativo e giudiziario, regolati e suddivisi da una Costituzione, lo Statuto
Albertino del 1848, ma di fatto, anche in considerazione delle forti
personalità politiche che guidavano i governi e del peso che assunsero i
partiti politici, si era evoluta in una forma di Monarchia più propriamente
parlamentare. Nell’ aprile 1924 vennero indette nuove elezioni, che si svolsero
tra gravi irregolarità. Il deputato socialista Giacomo Matteotti denunciò coraggiosamente
gli abusi con un duro ma circostanziato discorso alla Camera, con il quale
chiese di annullare il risultato delle elezioni, ma il 10 giugno venne rapito
per poi essere trovato morto il successivo 16 agosto. Il fatto scosse il mondo
politico e aprì un semestre di forte crisi interna, risolto infine il 3 gennaio
1925 quando Mussolini, rafforzato sul piano internazionale dal recente incontro
con il Primo ministro britannico Neville Chamberlain, rivendicò la
responsabilità non materiale dell’ accaduto: «Se il Fascismo è stato un’ associazione
a delinquere, io sono il capo di questa associazione a delinquere!». Ebbe
perfino l’ audacia di ricordare al Parlamento la procedura di messa in stato d’
accusa conformemente all’ Articolo 47 della carta costituzionale. La Camera, dove
per soli sette seggi gli iscritti al Partito Nazionale Fascista erano la
maggioranza e l’ opposizione era frantumata nelle molteplici correnti e
incapace di accordarsi su strategie condivise, indebolita dalla secessione
dell’ Aventino, non procedette per chiedere le dimissioni di Mussolini e
neppure elaborò una credibile formazione di governo alternativa. Nemmeno la
scelta extraparlamentare dell’ opposizione seppe mobilitare le masse. Re Vittorio
Emanuele, come previsto dalle leggi dello Stato allora vigenti, rimase in
attesa di un’ iniziativa parlamentare. Quando il senatore Campello gli presentò
le prove della responsabilità del Presidente del Consiglio dei ministri nel
delitto Matteotti, rispose senza mezzi termini: «Sono cieco e sordo. I miei
occhi e le mie orecchie sono la Camera e il Senato.». Nessun parlamentare fece ricorso
all’ Articolo 47: fu la prova dell’ inefficienza dell’ alta adunanza dello
Stato. Il Re non poteva agire a prescindere dagli organi istituzionali e da
quel momento Mussolini si mosse per via procedurale nell’ instaurazione della
dittatura fascista divenendo il Duce, approfittando della flessibilità dello
Statuto Albertino, che poteva essere modificato o integrato con legge adottata
secondo la procedura ordinaria: fu in questo clima che il Re firmò le leggi
fascistissime del 1925, che soppressero la democrazia, e le leggi razziali del
1938, per poi destituire Mussolini da capo del governo il 25 luglio 1943 in
favore del maresciallo Pietro Badoglio a seguito del voto di sfiducia del Gran
Consiglio del Fascismo, divenuto negli anni il massimo organo costituzionale
del Regno d’ Italia. Un Re costituzionale o parlamentare non può per legge
andare contro le decisioni del governo, così come una dittatura è un fenomeno
che comprende sempre molte persone a livello nazionale, e poggia fortemente sul
consenso nazionale. Il Fascismo era appoggiato dalla borghesia e dall’
aristocrazia, i pilastri della società di allora in quanto baluardo contro la
corruzione del Comunismo, e si orientava alla costruzione di un grande impero
coloniale che avrebbe riportato l’ Italia alle glorie e ai fasti dell’ antica
Roma. Il popolo fu estasiato dai grandi sogni promessi dal Fascismo, che voleva
andare oltre l’ infamia della vittoria mutilata del 1918. Nelle fotografie
dell’ epoca, Mussolini era sempre attorniato da una folla esultante. Lui e
poche migliaia di fascisti tra gerarchi, camicie nere, ministri e parlamentari
proprio non avrebbero potuto controllare l’ intero popolo italiano se questo
avesse scelto di non collaborare. Come disse Sir Winston Churchill: «Bizzarro
popolo, gli italiani: un giorno 45 milioni di fascisti, il giorno successivo 45
milioni tra antifascisti e partigiani. Eppure questi 90 milioni di italiani non
risultano dai censimenti…».
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Re Vittorio Emanuele III; |
E
l’ attuale Repubblica, sorta a seguito del referendum istituzionale del 1946, nonostante
il vanto di aver rotto i ponti con il Fascismo, negli anni volle al proprio
servizio svariati funzionari fascisti, camice nere e altre figure inquietanti
che, benché accusate da Jugoslavia, Grecia, Albania, Francia e dagli
angloamericani per crimini di guerra, mai furono processate in Italia o
epurate, estradate all’ estero o giudicate dai tribunali internazionali:
piuttosto, tutti furono reinseriti negli apparati dello Stato democratico con
ruoli di primo piano, divenendo questori, prefetti, capi dei servizi segreti,
deputati e ministri. Tra coloro che non si macchiarono di colpe ma che
parteciparono al governo fascista e ne condivisero le idee vi furono ad esempio
Giovanni Gronchi, sottosegretario al Ministero dell’ Industria nel primo
governo Mussolini e poi terzo Presidente della Repubblica; Giuseppe Pella, Vice
Podestà della città di Biella e poi secondo Presidente del Consiglio dei
ministri e più volte ministro; Amintore Fanfani, che si espresse favorevolmente
per il Manifesto della razza e le leggi razziali del 1938, poi padre
costituente e Presidente del Consiglio dei Ministri; Aldo Moro, in gioventù di
aperte simpatie fasciste avendo aderito ai Gruppi universitari fascisti,
favorevole al sostegno italiano alla guerra civile spagnola e all’ intervento
nel 1940 a fianco della Germania vedendo nel Fascismo il miglior sistema
politico atto a garantire tale integrazione politica, civile e morale, ovvero
cristiana, e poi a sua volta Presidente del Consiglio; Giovanni Spadolini,
dalle giovanili simpatie per il Fascismo repubblichino fino al 1944, quando
lamentò che avesse perso «a poco a poco la sua agilità e il suo dinamismo
rivoluzionario, proprio mentre riaffioravano i rimasugli della massoneria, i
rottami del liberalismo, i detriti del giudaismo», primo Presidente del
Consiglio dei ministri non democristiano. Notevole fu poi il caso di Giuseppe
Pièche, uomo di fiducia di Mussolini e poi di Mario Scelba, Presidente del
Consiglio negli anni Cinquanta. Altri personaggi cupi che nella neonata
Repubblica divennero assai influenti venivano dall’ ala dura dei partigiani,
come i comunisti Palmiro Togliatti e Pietro Secchia, di aperte simpatie sovietiche,
e Francesco Moranino, capo partigiano responsabile di svariati delitti ed
eccidi, prima tra tutte la strage della missione Strassera.
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