lunedì 2 giugno 2025

Dietro le quinte del Referendum del 1946


«Con la libertà tutto è possibile, senza libertà tutto è perduto.» Re Umberto II d’ Italia; 


Il 2 giugno viene annualmente celebrato come la massima ricorrenza dello Stato italiano, poiché in questo giorno del 1946 ebbe luogo l’ importante referendum, a cui per la prima volta poterono partecipare anche le donne, che sancì la vittoria della Repubblica contro la Monarchia. I festeggiamenti a Roma, cuore istituzionale e politico della nazione, sono sempre solenni, magnifici e ampiamente ripresi dai mezzi di comunicazione, con il Presidente della Repubblica che assiste in prima fila alle parate delle forze dell’ ordine per poi pronunciare discorsi enfatici in cui magnifica la forma repubblicana come garante della democrazia e dell’ unità nazionale in senso patriottico.

Tuttavia, ciò che per anni si è detto con tono ben più sommesso e che oggi si inizia a dimenticare è che il referendum tanto celebrato come vittoria degli italiani avvenne in un clima tutt’ altro che festoso, più propriamente sull’ orlo della guerra civile e sotto gli occhi vigili delle potenze vincitrici che occupavano la Penisola, che difficilmente sarebbero rimaste in disparte: la Seconda Guerra Mondiale era terminata da appena un anno, e il nostro Paese ne era uscito drammaticamente sconfitto, la votazione quindi si svolse tra le macerie dei bombardamenti angloamericani e delle demolizioni dei tedeschi in ritirata, con centinaia di migliaia di italiani ancora sparsi per i campi di prigionia in tutto il mondo, intere province che restavano sotto governo militare straniero e un clima pericolosamente sull’ orlo di degenerare in una nuova guerra, stavolta tra italiani nel loro stesso Paese. Consultando le numerose fonti dell’ epoca, oggi facilmente accessibili, si può avere una certa idea di quanto il voto fu per l’ Italia un grave fallimento istituzionale, da un lato perché si svolse in un clima politico e sociale assolutamente inadatto all’ espressione libera e democratica a cui il popolo era chiamato, infervorato com’ era ancora da schieramenti politici che volevano imporsi ad ogni costo per dare alla nazione una svolta ferma e precisa, e dall’ altro perché sul suolo italiano erano presenti ben due potenze straniere vincitrici che, se le cose fossero andate in una direzione difficile, avrebbero ovviamente avuto gli strumenti adeguati per intervenire. Una terza, invece, vantava una certa influenza sull’ ala dura e preminente dei partigiani dell’ Italia settentrionale. Il Fascismo era durato circa vent’ anni e la guerra era terminata da poco: è molto difficile, se non addirittura impossibile, credere ad un esito affidabile e scevro da pressioni sia interne che esterne. Tuttavia, oggi, a svariati decenni di distanza, abbiamo finalmente la possibilità, e persino il dovere, di evidenziarne dubbi e difetti in modo equanime, lontano dal colore delle parti.

Un voto monarchico annullato;


Nel 1946, l’ Italia era occupata militarmente dagli statunitensi e dai britannici, vincitori della campagna militare contro il Fascismo, e politicamente animata soprattutto dalla Democrazia Cristiana e dal Partito Comunista Italiano: in altre parole, ora che la dittatura era caduta e lo stesso Benito Mussolini era stato ucciso bisognava insediare una nuova classe dirigente e definirne la politica estera. Era interesse di molti che il risultato indicasse una chiara direzione, sia a livello nazionale che internazionale. Il referendum era l’ occasione ideale per edificare la nuova Italia, e nessuna tra le parti coinvolte avrebbe lasciato nulla di intentato per assumerne la guida o comunque un posto influente. Non vi sarebbe stata un’ altra occasione simile. Gli statunitensi erano favorevoli alla Repubblica, così come i sovietici che avevano saldi contatti con i comunisti di Palmiro Togliatti, molti dei quali erano stati partigiani impegnati nella lotta contro la Repubblica Sociale del Duce, mentre i britannici erano propensi per Monarchia, un sistema che costituiva un sicuro baluardo contro l’ abisso proletario del Comunismo: questo voto era un’ occasione imperdibile per riuscire ad esercitare la massima influenza su di una nazione geograficamente centrale in Europa e nel Mar Mediterraneo, posta tra Occidente e Oriente, che fino a poco prima era stata nemica, evitando quindi l’ occupazione diretta servendosi della Democrazia Cristiana che annoverava sia repubblicani che monarchici, e che soprattutto era di orientamento anticomunista. Per contro, il Partito Comunista Italiano era composto da molti che credevano nel Bolscevismo sovietico e nel rovesciamento di un sistema reazionario ingiusto, quindi non vedevano di buon occhio i capitalisti d’ oltreoceano e i nobili d’ oltremanica, occhio destro e sinistro dell’ odiata borghesia che ai loro occhi sfruttava il popolo e il suo lavoro. La campagna elettorale avvenne in un clima di forte rancore e passione politica, accompagnati da pressioni e minacce più o meno occulte, e all’ orizzonte vi era l’ ombra delle formazioni partigiane arruolate dal Ministro dell’ Interno Giuseppe Romita come polizia ausiliaria, di cui nel novembre 1947, in un’ intervista concessa al giornale socialista Sempre avanti!, ammise apertamente l’ esistenza per influire sul voto: «Nel maggio 1946 io mi recai ad Alessandria ed a Genova per tenere una conferenza. Ma devo confessare ora di avere compiuto quel viaggio soprattutto e realmente per un motivo di cui pochissime persone furono a conoscenza allora. Il pretesto della conferenza doveva consentire al mio viaggio verso il nord di svolgersi senza suscitare sospetti. Il fatto è che avevo bisogno di conferire con il compagno Battisti, comandante per il Piemonte della Brigata Matteotti e con altri comandanti partigiani. Chiesi loro l’ affidamento che qualunque cosa fosse accaduta essi non si sarebbero mossi, avrebbero mantenuto intatte le loro forze per affluire là dove io avessi disposto, non appena giunto il mio ordine.».

Donne al voto;


Un grave difetto procedurale del voto fu l’ esclusione di circa tre milioni di italiani tra prigionieri di guerra non rimpatriati, residenti nelle colonie, gli abitanti di Trieste, di Gorizia, della provincia di Bolzano, i trecentomila profughi della Venezia-Giulia e della Dalmazia, con Fiume e Zara perché i partigiani comunisti di Tito occupavano il territorio, e i molti certificati elettorali mai ricevuti: i responsabili affermarono che questi concittadini avrebbero votato in seguito, ma così non fu. Le votazioni, a cui parteciparono 24.946.942 italiani, l’ 89.1% degli aventi diritto, si svolsero in buon ordine, in un regolare afflusso di elettori alle cabine, senza manifestazioni improvvisate, pressioni indebite e interventi delle forze di polizia temute da entrambe sia dai monarchici che dai repubblicani. Anzi, c’ era quasi un’ aria di festa sia per il bel sole che per la novità delle elezioni dopo vent’ anni di dittatura. Vi furono soltanto determinati disguidi in alcuni seggi, dovuti all’ inesperienza di presidenti e scrutatori, e alcune accese discussioni tra impetuosi rappresentanti di entrambe le liste.

Re Umberto II al voto;


Conclusa la tornata elettorale ebbe inizio la grande attesa, che agitò gli schieramenti in tutto il Paese e persino il governo a Roma, con i risultati che giungevano con lentezza, tra linee telefoniche e telegrafiche devastate dalla guerra. I risultati andavano conteggiati seggio per seggio con carta e matita: un lavoraccio che favoriva gli errori e forse anche gli imbrogli. Le schede furono inviate alla Sala della Lupa a Montecitorio dove iniziò lo spoglio in presenza della Corte di Cassazione, di ufficiali angloamericani e della stampa. Per primi giunsero i dati del Meridione, e il 4 giugno l’ Arma dei Carabinieri riferì a Papa Pio XII che la Monarchia era in vantaggio e il giorno dopo il Presidente del Consiglio dei Ministri Alcide De Gasperi riferì a Re Umberto II, succeduto sul Trono il 9 maggio precedente al padre, Vittorio Emanuele III, che gli italiani avevano scelto la Monarchia. A conferma di ciò giunsero a Roma i rapporti dell’ Arma provenienti dai seggi che confermarono la vittoria della Monarchia. Nella notte tra il 5 e il 6 giugno i risultati si capovolsero bruscamente con i dati del Settentrione, che diedero netto vantaggio alla Repubblica: 12.717.923 contro 10.719.284 per la Monarchia. I voti dichiarati nulli furono 1.458.156. Le indiscrezioni sul netto e improvvisto mutamento alimentarono i sospetti diffusi circa voti di dubbia provenienza, tanto che si avanzò il sospetto di come il numero delle schede votate fosse ben superiore a quello dei possibili elettori.

Il 7 giugno, il giovane deputato liberale e monarchico Vincenzo Selvaggi presentò alla Corte di Cassazione un ricorso contro il risultato, basandosi sulla questione del quorum, la maggioranza necessaria: alla Cassazione infatti erano stati trasmessi solo il numero di voti validi, ma non quello degli elettori votanti, non si teneva conto cioè delle schede bianche e neppure di quelle scartate per errore di compilazione o altre ragioni. L’ articolo 2 del Decreto legislativo luogotenenziale del 16 marzo 1946, con cui Umberto, allora principe ereditario e Reggente in quanto Luogotenente Generale del Regno per disposizioni del padre ancora regnante, ordinava il funzionamento del referendum, diceva che la maggioranza doveva essere formata dalla metà più uno degli elettori votanti, perciò si dovevano calcolare anche le schede bianche e nulle: se il ricorso di Selvaggi avesse trovato accoglimento, il vantaggio della Repubblica sarebbe potuto scendere dai due milioni supposti a meno di cinquecentomila voti, forse appena duecentomila. Un dettaglio di fondamentale importanza che, oltre ai tre milioni di italiani esclusi, poneva un importante problema e la necessità di un secondo referendum. I liberali fecero proprio questo ricorso, e il Segretario generale degli Esteri Attilio Cattani presentò una mozione, firmata anche dal segretario del Partito Liberale Italiano, Giovanni Cassandro, per sapere se i voti in favore della Repubblica avessero effettivamente raggiunto il quorum. Il ricorso fu respinto dalla Cassazione il 18 giugno con dodici voti contrari e solo sette favorevoli, tra cui quello del magistrato Giuseppe Pagano, Presidente della stessa Cassazione, e del procuratore generale Massimo Pilotti: per maggioranza degli elettori votanti si doveva quindi intendere quella dei voti validi.

Si parlò apertamente di brogli, voce rimasta viva ancora oggi per quanto giuristi e storici negli anni l’ abbiano sempre bollata come una semplice leggenda, e si vociferò di un intervento dei servizi segreti statunitensi in favore Repubblica e di quelli britannici per la Monarchia, al fine di influire sul risultato, mentre le truppe jugoslave del maresciallo Tito si dichiararono a chiare note pronte a superare il confine nel caso in cui la Repubblica non avesse prevalso. Il 10 giugno la Corte di Cassazione proclamò i risultati, in favore della Repubblica. Il verbale si concludeva precisando che la Suprema Corte avrebbe diffuso in altra sede il parere sulle contestazioni presentate presso gli uffici delle varie circoscrizioni, nonché l’ esito definitivo del voto. Alla notizia che la Repubblica aveva prevalso, in molte città del Meridione, dove la Monarchia aveva raggiunto un risultato elevatissimo, scoppiarono proteste e tafferugli, il più noto dei quali fu la strage di via Medina, a Napoli, quando l’ 11 giugno un corteo monarchico cercò di assaltare la sede del Partito Comunista Italiano in via Medina per rimuovere una bandiera tricolore senza lo stemma sabaudo e la polizia aprì il fuoco uccidendo nove manifestanti e ferendone un centinaio.

La notte del 12 giugno il governo si riunì su convocazione di De Gasperi, e stabilì che, a seguito della proclamazione dei risultati provvisori del 10 giugno, si era creato un regime transitorio e di conseguenza le funzioni di capo provvisorio dello Stato passavano con effetto immediato al Presidente del Consiglio, in esecuzione del Decreto luogotenenziale 16 marzo 1946. Volendo placare gli animi in un Paese sull’ orlo della guerra civile, contrariato per i numerosi sospetti di brogli e deluso al pensiero che non era stato rispettato il Decreto luogotenenziale, il 13 giugno Re Umberto partì per il Portogallo, ove visse in un esilio sancito ufficialmente ed esteso non solo agli ex Re d’ Italia ma anche alle loro consorti e ai loro discendenti maschi dalla XIII Disposizione transitoria della Costituzione della Repubblica, approvata il 22 dicembre 1947 ed entrata in vigore il 1 gennaio 1948, una transitorietà che, curiosamente, sarebbe durata ben cinquantasette anni, fino all’ abrogazione avvenuta il 23 ottobre 2002: la partenza del Sovrano, che però mai abdicò, fu un grande gesto di pacificazione nazionale, con cui antepose l’ interesse dell’ Italia a quello della Casa Reale di cui era a capo, e che venne apertamente riconosciuto da tutti, anche da esponenti politici convintamente antimonarchici. Nei mesi seguenti, in diverse zone d’ Italia vennero ritrovati sacchi contenenti schede elettorali votate, come riferito ad esempio dal sacerdote gesuita Giuseppe Brunetta che narrò di come nelle cantine del Quirinale avesse visto molte casse contenenti schede mai aperte, o dal brigadiere Tommaso Beltotto, che negli scantinati del Ministero degli Interni rinvenne pacchi di fogli con la croce per la Repubblica, ma ormai la partita referendaria era chiusa: con il pronunciamento della Cassazione la Repubblica era ufficializzata e con l’ ulteriore sostegno dell’ Articolo 139 della Costituzione non sarebbe stato più possibile confutarla: «La forma repubblicana non può essere oggetto di revisione costituzionale.». In altre parole, la Repubblica è uno Stato di fatto, non importa se di diritto o no.

Una nota immagine dei militari Usa;


Oggi, a ben vedere, bisogna riconoscere che le contestazioni sollevate immediatamente dai monarchici ebbero un certo fondamento. Innanzitutto la data scelta per il Referendum era sbagliata, perché una larga parte degli italiani non era in condizione di votare: a chi sarebbero andati i voti dei tre milioni di italiani esclusi? E non si può negare nemmeno che lo spoglio delle schede avvenne con superficialità tra presidenti di seggio confusionari e impreparati che fecero migliaia di errori, caos negli scrutini condotti da personale inesperto che neppure conosceva la legge elettorale, calcoli eseguiti alla buona, voti dispersi o annullati erroneamente, pacchi di schede non arrivati a destinazione. Come commentò Silvio Bertoldi, giornalista e saggista che studiò a fondo la questione: «Nessuno, a posteriori, può onestamente negare che la Monarchia abbia giocato quella partita in condizioni di inferiorità.».


Forse non si saprà mai quale fu l’ esito reale del Referendum, ma ciò che si può dire è che in quei giorni l’ Italia era dilaniata al suo interno dalle correnti e occupata dai vincitori della recente guerra, gli angloamericani nemici del Nazifascismo, che le fomentavano l’ una contro l’ altra volendo evitare l’ eventualità che il Paese potesse rialzare la testa anche con un sistema democratico, abbastanza forte da rappresentare la maggioranza e dettare le proprie condizioni senza nulla dovere a nessuno: dìvide et ìmpera, come si suol dire. Era lo scenario peggiore in cui votare: se la gente voleva voltare pagina e riprendere a vivere, stanca di penose dittature e guerre, Washington, Londra e Mosca fremevano per imporsi sulla scena mondiale ridefinendo gli equilibri del potere sconvolti al passaggio del Terzo Reich. E il referendum tra Monarchia e Repubblica in Italia, Paese strategico perché centrale geograficamente, nel bel mezzo tra il Blocco occidentale e quello orientale, era di per sé un’ occasione irripetibile per influenzarla come si conveniva: l’ ipotesi dei brogli, condotti dagli agenti segreti angloamericani servendosi di politici e agenti italiani e coperti da una conduzione gestita in maniera incerta e a volte decisamente pasticciata, non pare da scartare a priori. Se poi si considera che tra il 1948 e il 1951 Roma ricevette 1.204 milioni di dollari derivanti dal Piano Marshall, mentre il 4 aprile 1949 aderì al Patto Atlantico, sorge spontaneo il sospetto che i brogli tornarono particolarmente utili agli Stati Uniti per insediare una classe dirigente collaborazionista, cosa che con un Re legittimamente seduto sul trono sarebbe stata più difficile…

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