«Non fatevi
guidare da dicerie, tradizioni o dal sentito dire. Non fatevi guidare dall’
autorità delle sacre scritture, dalla logica soltanto, dalla considerazione
delle apparenze, dal piacere della speculazione, dalla verosimiglianza e
nemmeno dalla considerazione: ‘‘Il monaco è il nostro maestro’’. Ma, quando
capite da voi stessi: ‘‘Queste cose non sono salutari ma sono sbagliate e
cattive, bandite dai saggi’’, allora abbandonatele, e quando capite da voi
stessi: ‘‘Queste cose sono salutari e buone, portano beneficio e felicità’’
allora accettatele e seguitele.» il Buddha nel Kalama Sutta;
Fin
dall’ origine dei tempi, il mondo ha assistito alla venuta di grandi figure
spirituali quali Mosè, Zarathuštra Lao Tze, il Buddha Śākyamuni, Gesù di
Nazareth e Maometto, i quali diedero un notevole impulso alla vita religiosa
della civiltà umana, ciascuno in conformità alla propria epoca e cultura e
usando parole molto diverse, spesso addirittura in opposizione alle
consuetudini in cui erano nati e vissuti.
E’
interessante notare quanto ognuno di questi maestri sia accomunato agli altri
da una vita leggendaria, basata su caratteristiche fondamentali quali una
nascita miracolosa, l’ abbandono dell’ esistenza mondana, il raggiungimento di
un elevato livello spirituale e infine la trasmissione degli insegnamenti. Nel
complesso, appare evidente quanto i racconti tradizionali delle loro vite siano
stati modellati secondo precise esigenze dottrinarie: vennero ammantate di
leggenda e tramandate allo scopo di sottolineare la grandezza delle loro
persone e, quindi, la levatura del sentiero spirituale da loro tracciato,
ispirando i seguaci a seguirlo con impegno fino in fondo. Se da una parte
questo fenomeno rappresenta un logico e persino ammirevole atto di devozione e
rispetto, dall’ altra non si può fare a meno di notare quanto rappresenti un
problema in un ambito più propriamente storico, dal momento che il più delle
volte le fonti relative alla vita e all’ insegnamento di questi personaggi sono
contenute nei soli testi religiosi e tradizionali che li riguardano, i quali
non consentono valutazioni oggettive, confermate da prove o indizi. Nemmeno
Siddhattha
Gotama, meglio noto come Buddha Śākyamuni, il noto maestro sereno e sorridente
seduto in meditazione vissuto tra il 566 e il 486 prima di Cristo, sfuggì a
questo particolare principio: nel corso della sua vita non entrò certamente
nella storia del mondo, piuttosto fu un maestro molto rispettato e famoso nella
piana del Gange intorno al quale si consolidò una comunità di monaci sempre più
folta, che però dopo la sua morte si suddivise in varie scuole di pensiero
sorte da più interpretazioni di alcuni aspetti del suo insegnamento. Quando si
parla del Buddha ci si riferisce sia ad un personaggio storico che ad una figura
ormai largamente mistica e simbolica, ad una dimensione nata in un contesto
umano e terreno e ascesa al livello celestiale e crebbe ulteriormente con lo
sviluppo delle scuole Mahāyāna e Vajrayāna, fondate su concetti filosofici che
lasciano ampio spazio al misticismo.
Copia birmana del Canone pāli; |
Concentrato
maggiormente in Asia, specialmente nel sudest, sebbene nel corso del Novecento
si sia discretamente diffuso anche in Occidente, oggi il Buddhismo è la quarta
religione al mondo per numero di credenti, dopo Cristianesimo, Islam e
Induismo. Secondo alcune stime, sommando i seguaci delle varie dottrine ai
simpatizzanti, i buddhisti sarebbero oltre un miliardo di persone in tutto il
mondo. Il Dhamma del Buddha è una via spirituale che nei suoi
duemilacinquecento anni ha avuto molta fortuna, soprattutto al di fuori dell’
originaria India. Tuttavia, la presenza di più scuole di pensiero, ognuna delle
quali sostiene di custodire la pura dottrina del Buddha, pone notevoli difficoltà
nell’ accertare chi veramente fu e cosa effettivamente insegnò. Esse infatti trasmettono
differenti versioni della sua vita, modellate da precisi criteri e percezioni
che ognuna ha di lui e di quello che si può imparare dal suo esempio, cosa che
ha oscurato il personaggio storico in favore di quello della fede. Ora che il
Buddhismo è tanto diffuso e questa è l’ era delle informazioni e della
consapevolezza, sorge spontaneo riflettere in modo più pratico sia su questo
famoso personaggio che sull’ ambiente in cui visse oltre che sul modo in cui giunse
alle conclusioni su cui fondò il suo insegnamento spirituale. Innanzitutto occorre
tenere presente che le svariate scuole che oggi vengono presentate come
Buddhismo in realtà si svilupparono molti secoli dopo la morte del Maestro, e
in circostanze diverse tra loro, attraverso le numerose successioni di maestri
e discepoli che ne interpretarono l’ insegnamento originario, che si adattò
notevolmente a situazioni nuove, adeguandosi al contesto culturale dei vari
Paesi asiatici in cui si diffuse e all’ epoca in cui tale propagazione ebbe
luogo: se da una parte questa elasticità ne garantì la sopravvivenza, dall’
altra contribuì ad oscurare le vere origini della tradizione e l’ effettiva figura
del fondatore. Ne è un esempio il fatto che in varie scuole attuali, come
quella tibetana, si considerano poco i discorsi del Buddha in favore dei commentari
dei maestri alla base dello specifico lignaggio e della relativa tradizione.
Il
Canone in lingua pāli, o Tipiṭaka, la grande raccolta di sutta,
ossia i discorsi del Buddha e dei suoi primi discepoli, fu trascritto per la
prima volta al Monastero di Mahāvihāra, in Sri Lanka, nel I secolo dopo Cristo,
ed è considerato la più antica e completa. Fino ad allora, per ben quattrocento
anni la trasmissione degli insegnamenti era avvenuta oralmente, in rispetto della
tradizione indiana. Per ovvie ragioni non dovrebbe essere considerata a priori una
trascrizione letterale, ma un insieme sviluppatosi nell’ arco di svariate
generazioni, contenente voci e stili narrativi differenti, contraddizioni
interne e intuizioni seguite da richiami su perdizione e inferno, una
cronologia di fatti a tratti incoerente sommata a noiose ripetizioni di formule
consuetudinarie, eppure preserva gli elementi più antichi dell’ insegnamento
buddhista e offre squarci della complessa situazione politica, sociale e
religiosa in cui il Buddha agì venticinque secoli fa, colma di intrighi
pericolosi e verità nascoste. Ora che Siddhattha Gotama è tanto familiare, è
importante ricostruirne un ritratto il più possibile veritiero possibile come
persona e insegnante, identificandone il carattere e l’ umanità superando le
idee ingenue e romantiche fiorite negli ambienti a lui devoti, che avendolo
promosso al rango di divinità costituiscono uno dei maggiori ostacoli alla
comprensione della sua vita: dalla sua biografia tradizionale, scritta a fini religiosi
e non storiografici, traspare l’ immagine idealizzata del maestro sereno e
infallibile su cui ogni buddhista proietta preferenze e valori, immaginando il
proprio Risvegliato, mostrando poco o nessun interesse per Siddhattha Gotama, l’
uomo in carne e ossa, gioendo innanzi ad una figura remota e idealizzata. A
seconda della tradizione, questi può essere visto come un uomo ordinario che
ottenne la buddhità per mezzo del proprio sforzo straordinario, oppure come un
essere già illuminato che manifestò le sue facoltà nella veste di principe
indiano che indicò il sentiero per il Risveglio. Separare la leggenda dal fondo
di verità e ricostruire storicamente la biografia del Buddha risulta difficile
soprattutto di fronte al fatto che nessuna fonte laica lo citi oltre a quelle
religiose, cosa che ha lasciato campo libero alla creazione della leggenda. Gli
studiosi moderni ammettono di sapere molto poco di lui come personaggio
storico, al punto da diffidare delle stesse date di nascita e morte
tradizionalmente accettate, e non manca persino chi suggerisce l’ idea che
possa essere vissuto più tardi di un secolo. C’ è anche la possibilità che non
sia mai veramente esistito un Siddhattha Gotama, quindi i vari sutta sarebbero
testi basati su insegnamenti riesaminati da vari maestri nel corso dei secoli
che diedero gradualmente vita al Buddhismo e alle sue sfumature, tuttavia l’
indagine storica condotta da valenti studiosi riconosce che quest’ uomo sia
realmente vissuto.
La
ricerca documentata sulla figura del Buddha risale alla fine dell’ Ottocento. Studiosi
come Thomas William Rhys Davids, Caroline Augusta Foley Rhys Davids e Hermann
Oldenberg analizzarono il Canone pāli per eliminarne gli evidenti contenuti
mitici e tracciare una ricostruzione storica del personaggio. Sebbene tale
approccio sia oggi ritenuto superato, la maggior parte degli esperti ritiene
certa l’ esistenza storica del Buddha, sebbene gran parte delle fonti siano
posteriori di almeno duecento anni rispetto agli eventi della sua vita, e le
cronache storiche indiane siano notoriamente tutt’ altro che rigorose nel separare
la storia dal mito. Ogni fonte tradizionale, però, concorda sul fatto che Siddhattha Gotama sia vissuto per ottant’ anni, che
appartenesse al clan dei Sakiya, della casta dei regnanti guerrieri, gli kṣatriya;
che fosse sposato e padre di un figlio; che abbracciò la vita di asceta
itinerante senza il consenso del padre; che praticò e insegnò tecniche
meditative; che andò incontro ad un fallimento quando per la prima volta
comunicò la sua esperienza del Risveglio; che unitamente ad altri rinuncianti
indiani ebbe una visione critica del mondo e delle sue illusioni; che insegnò
una vita comunitaria tra rinuncianti disciplinata da alcune precise regole e
raccolse intorno a sé altri monaci e anche laici, che ne seguivano gli
insegnamenti; che rischiò di perdere la guida della comunità da lui fondata a
causa di un cugino fattosi discepolo e monaco che propose regole maggiormente
ascetiche; che fu una personalità carismatica e morì in un luogo remoto dopo
aver mangiato cibo avariato. Soprattutto, nell’ ambito dell’ analisi logica dei
suoi insegnamenti, la sua indianità viene sempre più spesso enfatizzata: nato indiano
ed educato secondo la tradizione induista, egli preservò le credenze fondamentali
della sua terra senza confutare e inventare nulla, limitandosi ad interpretare in
modo originale le Upaniṣad, termine sanscrito che significa «sedersi vicino» suggerendo
l’ azione di ascolto di insegnamenti spirituali da parte di un guru e che
indica una serie di commentari dei Veda tenuti segreti dai bramini che da
secoli le trasmettevano per via orale a discepoli scelti. Egli quindi si
assunse il compito di divulgare le conoscenze spirituali che la casta
sacerdotale teneva riservate per ragioni di potere, e più volte mise
apertamente in discussione l’ autorità: «Non credete a ciò che è detto, né a
ciò che è scritto. Accettate gli insegnamenti che nella pratica si dimostrano
utili per voi.».
Un
modo per avvicinarsi al Buddha consiste nella lettura del Canone pāli,
nonostante la difficoltà nell’ affrontare questa raccolta. Diversamente da
quanto in seguito sarebbe accaduto a Gesù, la cui vita fu raccontata in un gran
numero di vangeli, l’ esistenza terrena del Risvegliato non venne infatti
descritta in testi appositi, ma frammentata in episodi riportati in vari sutta
e nel Vinaya Piṭaka, il «canestro della disciplina» comprendente le
norme di condotta rivolte ai monaci. Con l’ apparizione della scuola Mahāyāna,
il «Grande Veicolo», la più diffusa in Occidente per mezzo delle correnti
tibetane, cinesi e giapponesi e il cui Canone comprende testi in sanscrito, i
cenni biografici della vita del Maestro vennero ampliati e abbelliti con
particolari miracolosi in confronto al Canone pāli su cui si è sempre fondata
la corrente Hīnayāna, il «Piccolo veicolo»: se dalle descrizioni originarie dei
testi pāli emerge il ritratto di un saggio
profondamente umano vissuto in un’ epoca ardua e che fu chiamato ad affrontare
una serie di problemi sia personali che legati alla comunità monastica, in
quelli sanscriti appare come un essere illuminato già da molte vite e disceso
per l’ ultima volta nel mondo umano con lo scopo di compiere le dodici azioni
di un Buddha, come l’ insegnamento, per poi manifestarsi in molti altri regni a
beneficio di tutti gli esseri senzienti. Un’ altra versione ancora è riferita
nei testi del Buddhismo Vajrayāna, il «Veicolo del diamante», insieme di scuole
e lignaggi propri del Buddhismo Mahāyāna basati su insegnamenti così complessi
da essere tenuti segreti, trasmessi solo a praticanti di facoltà superiore,
secondo cui il Buddha appare in varie forme contemporaneamente, le «divinità di
meditazione» dai vari colori e le numerose braccia, volti e gambe nelle quali simboleggia
vari aspetti delle realizzazioni buddhiche, pur insegnando ancora in forma
umana.
Tuttavia,
per capire più correttamente chi fu Siddhattha Gotama come personaggio storico
e il Dhamma che insegnò occorre innanzitutto tenere in considerazione le
origini storiche dell’ India e dell’ Induismo. L’ India è un Paese unico, un
luogo speciale in cui ognuno dei cinque sensi si attivano. E’ una terra di
paradossi, di contrasti, che pulsa e travolge, che si ama al primo viaggio oppure
si rifugge immediatamente, destinata in ogni caso a restare impressa nella memoria
di chiunque la visiti. Poco più grande di un terzo dell’ Europa, il
subcontinente indiano, di forma triangolare la cui base è delineata dalla
catena montuosa del Karakoran e dell’ Himalaya e i cui lati si protendono nell’
oceano Indiano, è distinto in tre regioni naturali molto diverse tra loro. A
nord regna l’ Himalaya, al centro la vasta piana dell’ Indo, del Gange e del
Brahmaputra, che verso il confine attuale con il Pakistan forma il deserto di
Thar. A sud, infine, vi è l’ altopiano del Deccan, orlato a est e ovest dai
rilievi dei Ghati occidentali e orientali. L’ India è generalmente considerata
la culla della storia dell’ umanità, ma non vi è certezza. Verso il terzo
millennio prima di Cristo, per mezzo dei Dràvidi, originari
della zona del bacino indogangetico, fiorì la cosiddetta civiltà della valle
dell’ Indo nella regione nordoccidentale della penisola, in rapporti con i persiani
e i mesopotamici. Questa civiltà scomparve intorno al 1500 prima di Cristo, forse
proprio mentre da nordovest scendevano gli Indi, che parlavano in sanscrito e
si riferivano a sé stessi come ārya. Agricoltori e pastori, nonostante l’
inferiorità culturale possedevano una migliore organizzazione politica e
tecnica militare con cui riuscirono a sottomettere le popolazioni ivi presenti.
Prima occuparono il Punjab, poi le fertili pianure dell’ Hindustan e infine il
Deccan. Di questo primo lungo periodo della storia indiana, dal 1500 al 500 prima
di Cristo, si racconta nei celebri testi filosofici e religiosi quali i Veda, le
Upaniṣad e in poemi epici come il Ramayana e il Mahabharata: non sono resoconti
storici, eppure forniscono molte indicazioni sui principali avvenimenti
politici, sugli usi e sui costumi, sulla storia e sulla condizione economica
del Paese, vengono indicati i nomi dei sacerdoti, dei principi e dei guerrieri
e già vi si menziona il sistema delle caste, elemento sorto dalla mescolanza
dell’ organizzazione politica e militare ariana, distinta in tre classi ossia
guerrieri, sacerdoti e popolo a cui ogni uomo accedeva a seconda dei meriti e
delle proprie qualità, con l’ organizzazione tribale della popolazione
dravidica, dove ogni piccolo gruppo costituiva un’ unità chiusa, legata ad un
particolare territorio, a riti e etnie. Conquistato il territorio, a queste tre
classi se ne aggiunse un’ altra, quella dei vinti: sigillate per evitare
contaminazioni reciproche, si suddivisero poi in una serie di varie sottoclassi
che arrivarono poi a comprendere i fuoricasta, i pària o dalit,
ossia «intoccabili», a causa della loro impurità. Il potere venne suddiviso tra
i bramini, sacerdoti e intellettuali, coloro che conoscevano i testi sacri e potevano
compiere funzioni spirituali e rituali, e gli kshatriya, nobili e
guerrieri che governavano e proteggevano gli altri uomini. Si compì quindi l’
avvento del bramanesimo, un sistema particolare ove la religione ebbe la
preminenza su tutte le attività e regolava ogni aspetto della vita umana.
In
India, la religione è sempre stata fondamentale, e ancora oggi permea ogni
aspetto dell’ esistenza e della cultura. L’ Induismo, religione tuttora
dominante, è difficilmente definibile, priva di un fondatore specifico e non orientata
al culto di una divinità particolare: si può venerare Śiva o Visnù, come anche
Rāma, Krishna o qualsiasi altro spirito. Gli dèi indù sono immortali ma con
molte connotazioni umane. Non vi è neppure un unico libro, come l’ Antico
Testamento per gli ebrei, il Nuovo Testamento per i cristiani e il Corano per i
musulmani: il Rig Veda, le Upaniṣad e la Bhagavad Gita sono tutti testi sacri
che formano un complesso eccezionalmente ampio e importante anche se secondo la
tradizione si è conservata solo una minima parte di tutto il materiale
originario. Queste scritture furono trasmesse in scuole, chiamate
tradizionalmente rami, inizialmente quattro ma poi suddivisesi ulteriormente in
relazione agli insegnamenti particolari attraverso cui si ebbe lo sviluppo
progressivo della pratica religiosa e la sua diffusione in tutta l’ India. Lo yoga,
insieme di pratiche ascetiche e meditative atte alla salvezza spirituale, ebbe
origine al tempo dei Dràvidi, i cui sciamani entravano stati alterati di
coscienza che permettevano loro di svolgere funzioni di veggenti e guaritori. In
un secondo tempo venne adottato dall’ Induismo, in cui fu variamente
interpretato e disciplinato a seconda della scuola, e con l’ emergere del
sistema delle caste diventò un mezzo privilegiato di trascendimento del sé e di
emancipazione sociale, permettendo all’ individuo di liberarsi dagli ostacoli
della mente e dalle costrizioni di una società divenuta ormai rigida e
oppressiva. Vanta tuttora questa funzione in alcune razionalizzazioni
filosofiche indù. Il sistema delle caste emerse gradualmente come struttura
sociale in India, espressione del predominio dei conquistatori ariani sui
popoli locali, creando un rapporto gerarchico tra popolo e bramini, percepiti
come reggente dell’ universo. I riti sacrificali avevano effetti specifici che
manipolavano la vita sociale e individuale così da preservare l’ ordine cosmico
e quindi la stabilità collettiva. Si pensava che la stessa saldezza dell’
universo si reggesse grazie alla ritualità. I bramini erano responsabili dei
sacrifici e unici a conoscenza dei rituali vedici appropriati, trasmessi di
generazione in generazione: il controllo su di essi era la chiave della
stabilità sociale, morale e cosmica. Tra le regole fondamentali vi era l’
obbligo per ogni individuo di comportarsi secondo le regole della propria
casta, accettando severe restrizioni comportamentali e personali perché solo
così avrebbe goduto di una reincarnazione vantaggiosa, magari in una casta
superiore. L’ appartenenza ad una casta era reputata conseguenza del
comportamento nelle vite precedenti, e tale visione non considerava quindi
molto il destino individuale, quindi l’ identità di una persona era subordinata
alla coscienza collettiva della casta natale. In un secondo momento, però,
questo venne contestato dagli asceti, che scelsero di voltare le spalle all’
opprimente ciclo di rituali volendo cercare direttamente da sé la liberazione,
indipendentemente dalla costante ripetizione delle forme sociali. All’ interno
delle caste, una persona era così tanto identificata con la propria posizione
sociale che qualsiasi tentativo di reclamare la libertà comportava l’ abbandono
della società e dell’ identità sociale, anziché creare una personalità autonoma
al suo interno. Persino la casta degli kshatriya, al cui interno erano
scelti i rājan, era in obbligo verso i bramini. La disputa tra bramini e
kshatriya si sfociò in lunghe e intense agitazioni tra i primi, liturgicamente
puri nella loro vita sacra eppure dipendenti dai rājan nella propria
funzione mondana, e gli altri, tenuti a offrire sacrifici per la propria
prosperità.
In
un luogo così particolare, reso immobile dal raggiungimento di obiettivi ultraterreni,
isolato all’ esterno e assai variegato al proprio interno, le rivoluzioni più
importanti erano soprattutto di tipo religioso, dettate dall’ evoluzione del
pensiero religioso e dall’ esigenza di reagire allo strapotere dei bramini.
Sarnath, luogo del Discorso di Benares;
Nel
VI secolo prima di Cristo, a nord si trovava l’ antica repubblica di Sakiya,
parte orientale del potente regno di Kosala, che si estendeva dalla riva nord
del Gange fino alle colline pedemontane dell’ Himalaya. La sua capitale era
Savatthi. Attualmente questa regione fa parte del Nepal meridionale. Poco
distante si ergeva la repubblica di Vajji, governata da una confederazione di
clan, il più famoso tra dei quali era quello dei Licchavi. Sull’ altra sponda
del Gange si trovava invece il potente regno di Magadha e, a ovest del Kosala,
nell’ attuale Punjab pakistano, vi era Gandhara, satrapia dell’ impero degli
Achemenidi persiani, nel cui capoluogo Takkasīlī si trovava la più famosa
università di quei tempi, ove le idee e di cultura greca e persiana si
mischiavano con quelle indiane. Kapilavatthu, il grande capoluogo di Sakiya,
sorgeva sulla strada commerciale più importante del tempo: a ovest la Via del
Nord collegava il Kosala a Gandhara, e, continuando attraverso Sakiya, Malla e
la repubblica di Vajji, arrivando fino a Magadha.
Suddhodana,
membro del clan aristocratico dei Gotama, a sua volta parte della dinastia dei Sakiya,
ricopriva l’ incarico di governatore regionale preso Kapilavatthu. Le fonti più
antiche non riportano il nome di sua moglie, ma secondo quelle successive in
sanscrito, di scuola Mahāyāna, si chiamava Māyā, ossia «Illusione». Il
Lalitavistara Sutra la descrive come una donna di grande bellezza, e le
testimonianze Mahāyāna in generale parlano di lui come di un sovrano. Secondo
la tradizione, i due si erano sposati giovani senza però avere figli fino al
566 prima di Cristo, quando lei partorì un maschio nel parco di Lumbini, non
molto distante da Kapilavatthu, a cui diedero un nome altamente simbolico,
Siddhattha Gotama, ossia «Colui che ha raggiunto lo scopo», e Śākyamuni,
«Appartenente al ramo Gotra dei Sakiya». Il nome Siddhattha,
tutt’ altro che casuale, non appare nel Canone pāli, in cui si usa solamente
Gotama, dal nome del clan. Nelle successive versioni furono introdotti nuovi
elementi, come la storia del concepimento prodigioso, molto simile alla
successiva narrazione relativa a Gesù di Nazareth: si narra infatti che Māyā
sognò una stella scintillante che toccò terra trasformandosi in un elefante
bianco a sei zanne, manifestazione divina e di buon augurio che la benedisse
entrando in lei da un fianco. In seguito, Siddhattha venne al mondo in maniera
pura, sempre dal fianco della madre, nel boschetto di Lumbini, muovendo immediatamente
sette passi dicendo: «Sono venuto al mondo per raggiungere l’ Illuminazione e
liberare dalla sofferenza tutte le creature.». Ove posasse i piedi sbocciavano
all’ istante fiori di loto, emblema di purezza, natura divina, prosperità,
bellezza, fertilità ed eternità. L’ analogia tra la nascita del Buddha,
benedetta dagli dèi per mezzo del particolare animale che simboleggia la
fortuna, e quella del Cristo è evidente pur non tralasciando alcune differenze
importanti. Il Vangelo di Matteo e quello di Luca riferiscono infatti che al
momento del concepimento i genitori di Gesù erano fidanzati, non vivevano
ancora insieme e Maria era ancora vergine, mentre il Canone pāli afferma che quelli
di Siddhattha erano sposati da molti anni e non sostiene la verginità di Māyā,
che a differenza di Maria non visse abbastanza da vedere la realizzazione del
figlio. Nel complesso, ci si domanda se le storie buddhiste, essendo anteriori
di cinque secoli, possano avere influenzato quelle cristiane: pur legati ad un
severo monoteismo, gli israeliti monoteisti del I secolo dopo Cristo erano
ellenizzati, e già avevano subito l’ influenza babilonese e persiana ai tempi
delle relative invasioni in terra giudaica, per cui ad un certo livello erano
aperti all’ influsso delle narrazioni pagane, e la tradizione buddhista
potrebbe essere stata una delle fonti di quella cristiana.
Dopo
la nascita del suo erede, Suddhodana invitò a corte i bramini per una cerimonia
di buon auspicio, a cui presenziò il saggio e riverito Asita, un eremita e
astrologo che in tono con l’ usanza dell’ epoca tracciò l’ oroscopo del
nascituro riferendone le eccezionali qualità e la straordinarietà del suo
destino: sarebbe diventato un Cakkavattin, un monarca universale, o il
redentore del mondo in qualità di asceta rinunciante nelle cui vesti avrebbe
scoperto il sentiero che conduce al di là del costante ciclo di nascita, morte
e rinascita alla base del Saṃsāra e conseguito il Mokṣa, la
liberazione dal dolore, tra i cardini della dottrina indù. Il vecchio scoppiò
poi in lacrime, dicendosi lieto di aver veduto con i propri occhi un così
grande essere, ma anche triste perché sentiva di essere troppo vecchio per
poterlo seguire e beneficiare dei suoi insegnamenti: si fece pertanto giurare
dal nipote Nālaka che lo avrebbe seguito una volta cresciuto, imparandone e
praticandone la dottrina. In seguito, secondo il mito cristiano, il neonato Gesù
sarebbe stato protagonista di un evento analogo quando, a quaranta giorni dalla
sua nascita i genitori lo portarono al Tempio di Gerusalemme per presentarlo e
offrirlo a Dio, in tono con la tradizione ebraica: durante la visita, Simeone
il Vecchio, a cui era stato predetto che non sarebbe morto prima di incontrare
il Messia, lodò il Signore annunciando che il neonato sarebbe stato luce per le
nazioni e gloria di Israele, ma anche segno di contraddizione, profetizzando
peraltro la futura sofferenza di Maria. Questi due episodi, evidentemente di
natura puramente leggendaria, suggeriscono un tentativo di confermare Siddhattha
e Gesù nella tradizione da cui erano scaturiti: Asita e Simeone incarnano
infatti l’ ortodossia indù ed giudaica, una sua alta realizzazione da tutti
riverita, e nei due neonati essi riconoscono il compimento dello stesso sistema
spirituale senza il quale si sentirebbero sordi, ciechi e muti.
Māyā
morì ad appena sette giorni dal parto, e in tono con l’ usanza del tempo
Suddhodana ne sposò la sorella, Pajāpatī, che si
occupò del neonato come se fosse figlio proprio: anche questo episodio va
considerato in chiave mitologica anziché storica, in quanto la morte di Māyā
rappresenta letteralmente l’ illusione che scompare con la luce della saggezza
incarnata dal figlio.
Il
Canone pāli trascura quasi del tutto i primi ventinove anni di vita di Siddhattha, ossia l’ importante periodo della sua
formazione. Si dice soltanto che Suddhodana, che dal matrimonio con Pajāpatī ebbe altri
due figli, ossia il principe Nanda e la principessa Sundari Nanda, turbato
dalla predizione di Asita cercò di evitare che il figlio abbracciasse la vita
religiosa e lo fece crescere a palazzo tra le comodità e i lussi, facendolo
partecipare alla vita di corte. Quando raggiunse i sedici anni ne favorì il
matrimonio con la cugina Bhaddakaccana, figlia di Pamitā, sua sorella, e Daṇḍapāni,
un capo dei
Koliyā. Analogamente a Māyā, Bhaddakaccana, che nei testi sanscriti è
conosciuta come Yashodharā, era una donna bellissima e il suo nome significa «Portatrice
di Gloria», in riferimento ad uno dei tre poteri mistici, l’ utpala-varna.
Aveva un fratello, Devadatta, che in futuro avrebbe avuto un ruolo molto
importante nelle vicende spirituali dell’ ormai Illuminato. Siddhattha e Bhaddakaccana ebbero un figlio quando lui
aveva ventinove anni, Rāhula, nome che deriverebbe dalla prima parola
pronunciata dal padre alla sua nascita, ossia rahu, «ostacolo»: un altro
richiamo fortemente simbolico. Ignaro della realtà che si presentava fuori
della reggia, uscì dalla reggia per vedere il mondo, e incontrò un vecchio, un
malato e un morto, i cosiddetti «tre incontri» dall’ evidente valenza figurativa
in quanto riferiti alle condizioni fondamentali della vita, e dai quali comprese
improvvisamente che la sofferenza accomuna tutta l’ umanità e quindi le ricchezze,
la cultura, l’ eroismo e tutto quanto gli avevano insegnato a corte erano
valori di poca o nulla importanza: capì che la sua era una prigione dorata, e in
cuor suo iniziò a rifiutare agi e ricchezze. Poco dopo vide un asceta
mendicante, calmo e sereno, e finalmente intuì di dover rinunciare alla
famiglia, alla ricchezza, alla gloria e al potere per cercare la liberazione dal
Saṃsāra, che riconobbe come una ruota sempre in movimento che lasciava
dietro di sé soltanto sofferenza e morte.
La
versione sanscrita del racconto afferma che Chandaka, il cocchiere, lo portò in
giro per la città, ove fece i quattro incontri: il servitore gli parlò delle
loro condizioni e gli permise di capire le sofferenze dei primi tre individui e
la beatitudine del quarto, quindi egli fu finalmente in grado di provare
compassione e desiderare una via che conducesse alla salvezza. Questa
esposizione si riallaccia chiaramente al tradizione della Bhagavad Gita, in cui
Arjuna riceve istruzioni dal suo conduttore di carro, Krishna, su come compiere
il proprio dovere di guerriero e combattere in battaglia i suoi parenti. Tanto
nella leggenda induista quanta in quello buddhista emerge un preciso
significato: è utile andare oltre i limiti della vita e seguire con costanza la
scoperta della verità, e in entrambi i casi il carro equivale a un veicolo
mentale che porta alla liberazione, mentre le parole del cocchiere
corrispondono alla forza propulsiva che lo aziona.
Alcuni
studiosi ipotizzano che durante la giovinezza, Siddhattha abbia ricevuto l’
educazione tipica degli kṣatriya, tra cultura, religione e arte della
guerra. Si pensa che possa essere venuto a contatto con varie culture,
addirittura che studiò a Takkasīlī, per quanto non ve ne sia certezza assoluta.
Posto nel punto di giunzione di tre importanti rotte commerciali, il luogo svolgeva
un ruolo economico e militare molto importante ed era rinomato per la sua
università, il maggiore centro culturale della regione: vi si insegnava il
sapere vedico e numerose scienze, tra cui le tecniche militari, la medicina, la
chirurgia e la magia. Lo studente che veniva ammesso versava una retta e andava
a vivere a casa del maestro, il quale in cambio degli insegnamenti riceveva
servizi personali che, però, gli allievi facoltosi delegavano ai propri servi.
La più alta aristocrazia vi mandava abitualmente i propri figli, essendo una
sorta di Oxford del tempo e del luogo, e non è irragionevole sostenere che
possa essere stata Alma mater dello stesso Gotama, dandogli la possibilità
di approfondire quelle conoscenze spirituali che in seguito avrebbe reinterpretato.
Quest’ ipotesi peraltro spiegherebbe il tempo trascorso tra il matrimonio a
sedici anni e la paternità a ventinove, nonché le basi della sua Bodhi o
Risveglio, indipendentemente dal mito secondo cui fu risultato di un’
intuizione mistica in piena meditazione, mentre guardava serenamente e
profondamente in sé stesso e nella vita. Il medesimo scetticismo di Suddhodana trova
una logica spiegazione nella consuetudine religiosa del tempo: nell’ Induismo,
infatti, secondo la dottrina degli āśrama, ossia «sforzo,
impegno», la vita si divide in quattro stadi in base all’ età, ossia Brahmācarya,
relativa alla formazione; Grihastha, riguardante la realizzazione della
famiglia, tra matrimonio e figliolanza; Vanaprastha, ossia il ritiro; Saṃnyāsa,
la rinuncia. Secondo gli āśrama, tutto si combina con il naturale corso
dei quattro stadi garantendo realizzazione, felicità e liberazione spirituale.
La vita è come l’ alternanza delle stagioni, con le loro condizioni
particolari, e in esse l’ individuo acquista progressivamente la consapevolezza
del suo fine ultimo e si adopera per conseguirlo. La rinuncia di Siddhattha
alla famiglia e alla dimora sarebbe stata serenamente compresa e accettata in
età anziana, ma suscitò stupore e opposizione perché maturata quand’ era ancora
giovane. Inoltre, per quanto questo distacco sembri qualcosa di imperdonabile
per un occidentale, occorre calarlo nel contesto del tempo: egli non abbandonò
davvero moglie e figlio, lasciandoli soli in uno stato di povertà per pensare
esclusivamente a sé stesso, perché da una parte la sua ricca e potente ed
estesa famiglia si sarebbe presa cura di loro, e dall’ altra, come membro della
casta guerriera, un giorno se ne sarebbe dovuto andare in ogni caso per scendere
in battaglia. Il guerriero non si portava mai la famiglia sul luogo del
conflitto, e la sua parentela accettava l’ idea come parte del suo dovere.
Quella di Siddhattha fu una battaglia a tutti gli effetti: un combattimento
contro ciò che era visto come il nemico interiore, a cui si dedicò
costantemente rinunciando ad ogni piacere; un confronto sul piano spirituale in
una società ove le figure religiose erano e sono tuttora estremamente riverite
e persino ammirate.
Che
cosa spinse veramente il giovane ad abbandonare la sua vita dorata? Lui stesso
non chiarì molto l’ argomento, limitandosi a dire che se ne andò in cerca «della
suprema e immortale sicurezza dalla schiavitù» anziché trovare appagamento
nelle cose effimere. Questa è un’ evidente riproposizione della formula della
rinuncia al mondo secondo la tradizione ascetica indù, ma è possibile che
avesse affrontato una profonda crisi personale da cui capì che tutto ciò che
aveva fatto fino ad allora era stato inutile, pertanto volle abbandonare tutto
ciò che gli era comune come ultima speranza di risolvere il proprio dilemma. Le
fonti concordano sul fatto che, poco dopo la nascita di Rāhula, complice il
fedele Chandaka, Siddhattha montò sul cavallo
Kanthaka e abbandonò Kapilavatthu, attraversò il Gange e giunse nella regione
del Kosala, ove si unì alla comunità di un rispettato bramino, Āḷāra Kālāma,
che lo guidò nella meditazione e nell’ ascesi al fine di conseguire l’ ākiñcaññayatana,
la «sfera di nullità», un tipo di pratica
letteralmente incentrato sul nulla che coincideva col fine ultimo del Mokṣa.
Insoddisfatto del conseguimento, si spostò verso Pataliputra, capitale del
Magadha, retto
dal re Bimbisāra, per seguire gli insegnamenti di Uddaka Rāmaputta, per il
quale la liberazione era conseguibile attraverso una meditazione che,
esercitata tramite le quattro jhāna, portava alla sfera del nevasaññānāsaññāyatana,
la «sfera del né percepite né non percepire». Pur
avendo raggiunto la meta indicata dal maestro, Siddhattha non si sentì ancora
soddisfatto e decise di lasciare anche questa guida spirituale: pur non
provando più la sofferenza grossolana o la felicità ordinaria, questo stato
elevato gli procurava un semplice sollievo temporaneo, che non eliminava le
forme più profonde della sofferenza a cui lui invece si opponeva.
Si
ritirò come eremita sulle sponde del fiume Nerañjarā, a pochi chilometri dal
villaggio di Bodh Gaya, insieme a cinque discepoli di casta braminica, ossia Añña
Kondañña, Bhaddiya, Vappa, Mahānāma e Assaji, noti come «Gruppo di Cinque»,
oggi ritenuti una semplice metafora leggendaria indicante i cinque sensi. Per
sei anni, insieme ad essi seguì pratiche ascetiche, dietetiche e meditative
tuttora ignote, che la tradizione seguente descrisse come estremamente
rigorose: cominciò col mangiare sempre meno fino al punto che praticamente non
mangiava quasi più nulla, divenendo talmente magro che gli si vedevano le ossa
attraverso la pelle. Passò lunghi periodi senza dormire pensando che questo
avrebbe curato la pigrizia, e si vestiva di stracci. Aveva fame e sete e
soffriva molto. Era cotto dal sole in estate e gelato d’ inverno. Spesso andava
a meditare tra i cadaveri in crematorio. Anche questo sentiero si dimostrò
senza sbocco e, comprendendone l’ inutilità, si immerse nel fiume e, poco dopo
essersi vestito con alcuni abiti trovati in un cimitero tornò a una dieta
normale accettando una tazza di riso bollito nel latte con un’ aggiunta di
miele offertagli da una ragazza del villaggio, Sujātā. In questo nuovo
dettaglio leggendario vengono mescolati particolari realistici di vita
quotidiana a dettagli simbolici, in quanto il latte è l’ alimento
indispensabile per ogni neonato e un importante elemento nelle scritture indù, che
lo considerano tra le più alte forme di cibo e in possesso di poteri calmanti e
di ausilio alla meditazione. Peraltro, la regione ove sorge Bodh Gaya era
considerata ideale per il culto dei morti, analogamente ad altre aree di
confluenza dei fiumi. I riti in onore degli avi defunti, śraddhā,
consistevano nell’ offerta di piṇḍa in numero di sette o multipli a un bramino
da parte del maschio principale di una famiglia: il bramino doveva quindi
lavarsi il corpo e la bocca con acqua rituale, mangiare l’ offerta e recitare
formule a beneficio degli antenati. Siddhattha era però uno kṣatriya, e
Sujātā era donna, entrambe cose fortemente disapprovate in ambito tradizionale,
ove si sostiene che tale rito si trasformi in danno per i defunti: tale
episodio quindi significherebbe la forte disapprovazione buddhista nei
confronti del sistema castale, del ritualismo come ricerca spirituale e delle
divisioni in base al sesso. Peraltro, questo fatto gli valse la perdita del
rispetto dei suoi discepoli, che lo abbandonarono pensando che avesse
rinunciato alla ricerca. Ma Siddhattha, ora trentacinquenne, aveva capito che
il fatto di torturarsi o punirsi fisicamente non è affatto la soluzione:
avrebbe trovato la conoscenza le cause della sofferenza imperante nel mondo
solo in una meditazione di profonda visione, e questa era possibile a patto di
essere fisicamente in salute, non spossato o affamato, pertanto dopo sette
settimane di raccoglimento meditativo profondo e ininterrotto, in una notte di
luna piena del mese di maggio, seduto sotto un albero di fico passato alla storia
come «Albero della Bodhi», raggiunse la piena Bodhi, il Risveglio,
divenendo il Buddha, ossia il «Risvegliato», il Tathāgata,
il «Così Andato», consapevole delle Quattro Nobili Verità, e del Nobile
Ottuplice Sentiero. Nei racconti più antichi, egli si illuminò ottenendo tre
tipi di conoscenza: la consapevolezza completa di ogni sua vita passata; del
karma, ossia il generico agire volto a un fine, che vincola gli esseri
senzienti alle conseguenze morali delle proprie azioni e quindi al saṃsāra;
quella delle rinascite di tutti gli altri esseri. Le narrazioni più recenti,
invece, citano soprattutto Māra, un Asura che cercò invano di
distogliere Siddhattha dal suo intento tramite la seduzione delle sue tre
figlie, la Bramosia, la Noia e la Passione, e di spaventarlo con l’ apparizione
di dieci eserciti di esseri mostruosi, corrispondenti ai dieci tipi di ostacoli
della vita spirituale che però lui vinse con la sola forza della compassione e
dell’ amore. Tale confronto denota un’ ulteriore somiglianza con le tentazioni affrontate
da Gesù durante il suo ritiro nel deserto, ove si confrontò con Satana,
incarnazione del male. Māra, letteralmente «Morte», viene descritto nel Canone pāli
in molti passi, anche dopo il Risveglio: con il raggiungimento della buddhità,
il Risvegliato non sconfisse Māra e neppure lo distrusse. Esso infatti si
ripresentò sotto diverse spoglie anche dopo la Bodhi, fino a poco prima
della morte del Tathāgata: l’ idea suggerisce che Siddhattha non abbia mai
cancellato la brama e ciò che alimentava Māra dal proprio animo, ma che avesse
scoperto il modo di convivere con il maligno, a cui non era più soggetto,
avendo compreso che avidità e odio sono emozioni transitorie portate a
dissolversi da sé se non le si trattiene e non ci si identifica con esse. Se Māra
è il simbolo della morte, l’ Illuminato è quello della vita, la sua
controparte: i due sono inseparabili. Come dice l’ Antico in «Doctor Strange»: «Non
perdiamo mai i nostri demoni. Impariamo solo a vivere al di sopra di loro.».
Ramabhar, dove il Buddha fu cremato;
A
Risveglio avvenuto, il Buddha rifletté se fosse opportuno o meno trasmettere il
Buddhadhamma, il nome dato al suo insegnamento in modo da distinguerlo
da quello di altri maestri indù. Secondo la leggenda riportata nei testi
sanscriti, temeva che nessuno l’ avrebbe mai compreso, essendo radicale e
controcorrente, ma venne visitato dagli dèi Brahma e Indra, rispettivamente il
creatore dell’ universo e il re degli dèi, che lo pregarono di iniziare a
insegnare: Brahma sostenne che il mondo avrebbe sofferto senza fine se non
avesse guidato tutti gli esseri verso la Bodhi, e che una volta iniziato
a insegnare avrebbe senz’ altro trovato qualcuno capace di capire il senso dei
suoi insegnamenti. Molto probabilmente, questo espediente leggendario
corrisponde a un tentativo di evidenziare la superiorità degli insegnamenti del
Risvegliato sulla tradizione spirituale indiana del tempo, a cui comunque si
univa nel desiderio di fungere da sua naturale evoluzione: le maggiori divinità
induiste ammettevano umilmente la necessità della trasmissione del Buddhadhamma
in quanto mezzo abile per estinguere la sofferenza. Le vecchie scuole avevano
fallito, quindi supplicarono il Tathāgata di trasmettere la vera conoscenza.
Egli accettò e si recò a ovest, al Parco dei Cervi, vicino a Sārnāth, nei
dintorni di Vārāṇasī, la città sacra degli induisti sulle sponde del Gange, ove
ogni fedele deve recarsi almeno una volta nella vita in pellegrinaggio e
immergersi nel fiume sacro da almeno cinque diversi ghat, le rampe di
scale di pietra che terminano all’ interno dell’ acqua del fiume. Ogni induista
desidera che da qui, dopo la morte e la cremazione, vengano sparse le proprie
ceneri nel Gange, perciò ancora oggi le pire per l’ incinerazione ardono
costantemente, giorno e notte, ed ogni sera, al tramonto, i bramini danzano
tenendo in mano delle sculture di luce mentre le centinaia di persone che
assistono, da terra e dal fiume. Secondo la tradizione indù, la scelta di
questo luogo non fu casuale: in quanto credente, al Buddha questo era parso il
luogo più indicato per trasmettere un insegnamento riformatore ma pur sempre legato
alla tradizione, mentre in quello buddhista le gazzelle simboleggiano la
dolcezza: il Maestro insegnò un sentiero dolce che conduce alla cessazione
della sofferenza lontano da tutti gli estremi. Qui, ritrovò i cinque asceti che
un tempo lo avevano accompagnato nelle severe e quasi mortali pratiche
ascetiche, ed essi scegliersi di ignorarlo: tuttavia, come racconta il mito, il
suo aspetto radioso e completamente rilassato li vinse immediatamente, quindi
tenne loro il primo sutta, il Dhammacakkappavattana Sutta o Discorso di
Benares, dando inizio alla tradizione buddhista e mettendo in moto la Ruota del
Dhamma, il Dhammacakka: nell’ iconografia indiana, tale ruota è un’ arma
sacra, propria di Indra, lanciata dal Risvegliato per colpire gli ostacoli, gli
errori, gli attaccamenti che impediscono all’ uomo di raggiungere il Nibbāna. Come un’ arma,
questa colpisce da uomo a uomo, da luogo a luogo, da era storica a era storica
con la forza degli insegnamenti.
Dopo
l’ esposizione del Discorso di Benares, i cinque asceti vennero ordinati bhikkhu,
ossia monaci. Essi rimasero al Parco delle Gazzelle per i successivi tre mesi
dalla stagione monsonica. Per gran parte del tempo è possibile che il Tathāgata
abbia discusso le implicazioni del suo insegnamento: ora che aveva alcuni
discepoli doveva dare vita a una comunità, il saṅgha, e affrontare questioni
pratiche legate alla sopravvivenza e al sostentamento. Gli occorrevano patroni,
persone influenti che proteggessero la comunità e provvedessero alle sue
necessità materiali. L’ insegnamento dell’ Illuminato segnò sotto molti aspetti
un punto di radicale rottura con l’ ortodossia induista dell’ epoca. Infatti,
in maniera simile da quello del fondatore del Giainismo, Mahāvīra, non
riconosceva il predominio della casta dei bramini sulla religione e la
conoscenza della verità, ma sosteneva lo sforzo individuale. Quella del Buddha
si presenta come una via di mezzo che condanna le due vie estreme della mera soddisfazione
dei sensi e dell’ automortificazione. Comprendendo invece ciò che riguarda
Quattro Nobili Verità si giunge a conoscere tutto. Questi principi, cattāri
ariya-saccāni in pāli, sono principi di base, enunciati letteralmente
rivolti agli ārya, il nome che la popolazione indiana di allora usava per
riferirsi a sé stessa, sono: la verità della sofferenza, delle cause della
sofferenza, della cessazione della sofferenza e del sentiero che conduce alla
cessazione della sofferenza. Il termine dukkha è generalmente tradotto
come «sofferenza», ma questa parola non è sufficiente per rendere pienamente l’
idea del suo significato: la sofferenza è solo una parte del dukkha, che
porta in sé anche i concetti di imperfezione, di impermanenza, di vacuità, di
mancanza di sostanzialità. In questa vita si soffre e si prova dolore perché
tutto sfugge. Non esiste un sé individuale, un ātman o essenza vitale
come lo si concepisce nelle tradizionali dottrine di origine vedica, ma solo
una combinazione di forze, o energie mentali e fisiche che sono in continuo
cambiamento, un flusso energetico in continuo mutamento che può essere semplificato
nei cinque aggregati che, messi insieme, costituiscono il senso più profondo
della parola dukkha: gli aggregati della materia, delle sensazioni fisiche e
mentali, delle percezioni, delle formazioni mentali alla base del potere
concernente le attività dipendenti dalla volontà, e della coscienza, ossia le
reazioni conseguenti alle percezioni. Se nelle filosofie vediche la coscienza è
la prima manifestazione dell’ anima, come un sé individuale, nel Buddhismo è il
risultato delle condizioni esterne: si ha un occhio e una forma visibile,
dunque nasce una coscienza visibile; un palato e del cibo, dunque nasce un’
altra coscienza visibile. Ma questa coscienza non nasce se non ci sono le
condizioni. Perciò non c’ è una coscienza oggettivamente esistente. Secondo il
Buddha il mondo è un flusso continuo e non permanente di elementi: con l’ atto
di sparire, un elemento condiziona l’ apparizione del seguente, in una serie di
cause ed effetti che non conosce soste. Quindi non esiste una sostanza eterna e
immutabile, nessun sé dietro le cose, nessun io individuale subordinato o
supremo, ma solo degli aggregati fisici e mentali interdipendenti tra di loro,
che costituiscono l’ insieme psicofisico. La vita non ha inizio: è eterna, e
con essa anche il saṃsāra lo è. E la causa principale delle continuità
della vita è l’ ignoranza. Capire bene che cosa sia il dukkha era
importante per il Risvegliato: chi lo conosce vede chiaramente il suo insorgere
e ne intravede la cessazione, così come comprende quale sia il sentiero che
conduce alla perfezione dell’ esistenza. Il dukkha proviene dal
prepotente desiderio di essere e di provare qualcosa, fonte di ogni rinascita e
divenire: la voglia di piacere sensoriale e la spinta a esistere e a divenire sono
all’ origine di tutte le sofferenze, quindi della continuità degli esseri. Ma
neanche questo forte desiderio è la causa prima di tutto, in quanto il Buddhismo
rifiuta l’ idea di una qualsiasi ragione al principio di tutto: se si
ammettesse che qualcosa era al principio, questa diverrebbe indipendente. Ogni
cosa è invece interdipendente in modo totale, come una ruota che non ha un
punto dove inizia e dove finisce. Questa voglia insaziabile di esistere
proviene dall’ ignoranza, dalla falsa cognizione di un sé. In altre parole, dal
momento in cui si comincia a pensare di esistere, si inizia a provare mille
desideri. Ma non si deve pensare che questo dolore sia qualche tipo di
giustizia divina o morale, per il Buddhismo infatti non esiste una divinità che
giudichi e quindi punisca o ricompensi: ogni essere condizionato è prigioniero
di questa legge, e solo il liberato può agire in questo mondo senza che i suoi
atti producano alcun karma, essendo svincolato dalla falsa idea che esista un
sé. Per tale persona non vi è più rinascita.
Che
cos’ è la morte? Secondo le dottrine vediche, come nel Buddhismo, essa non
esiste, anche se per motivi diversi: se per i Veda l’ individuo è l’ anima e
questa essendo eterna non muore, per il Buddhismo tutto ciò che sussiste in
questa vita si trasferisce nella prossima, quindi la morte è un fenomeno
illusorio. Se quindi manca un ātman che cosa si reincarna al momento
della morte? Poiché la vita è una combinazione di elementi, di impulsi
energetici in continuo cambiamento e nulla rimane lo stesso neanche per due
istanti consecutivi, l’ istante della morte non è che uno dei tanti momenti
della vita, in cui quelle stesse forze si trasformano, per continuare ad
esistere in nuove forme: l’ esistenza di ogni cosa è un continuo rinnovarsi,
nulla è immutabile e nulla si trasmette da istante a istante. Ciò che rinasce
dopo la morte non è che la continuità della stessa serie. La differenza tra la
vita e la morte non è che un istante mentale: l’ ultimo momento di attività
mentale condiziona il primo della cosiddetta nuova vita, che porrà le basi per
la continuazione della serie, e tutto ciò andrà avanti fintanto che ci sarà la
sete di essere. Tale circolo vizioso si può spezzare solo con la saggezza, la Terza
Nobile Verità che non è altro che il Nibbāna.
Il Risvegliato ammetteva l’ esistenza del Mokṣa, la liberazione, annullando
i desideri, ragion per cui un altro attributo del Nibbāna
è tanhakkhaya, «estinzione della sete». Non si può mai essere
precisi quando si parla di cosa sia il Nibbāna, secondo una logica diffusa negli
ambienti buddhisti secondo cui definirlo in modo positivo presenta pericoli
maggiori che farlo con il processo negativo, per cui conviene sempre prima
specificarlo in rapporto a ciò che non è. Il Nibbāna è lo stato in cui
il desiderio è cessato, il non composto, l’ incondizionato, la situazione in
cui tutto è estinto, spento e così via. E’ dunque la cessazione della
continuità e del divenire. Ma, afferma la tradizione buddhista, chi dice che si
stia tentando di promuovere una qualsiasi forma di nichilismo, o di
annientamento del sé è in errore: in realtà non vi è alcun sé da annullare, né
nient’ altro da annullare. La sola cosa che deve essere annientata è la falsa
idea di un sé. Il Nibbāna non è il risultato dell’ estinzione del
desiderio, perché in tal caso diventerebbe un elemento condizionato, una
conclusione da confutare. Ci si potrebbe chiedere cosa ci sia al di là del Nibbāna,
e la risposta è ovvia: nulla. esso non è un regno, o una condizione, ma un’ estinzione.
Dunque non va immaginato come un paradiso ove si ritrovano i maestri, gli
amici, le persone care: anche i Buddha si estinguono dopo la morte. La
liberazione è parte naturale di ciò che si crede che sia il creato, quando la
saggezza è sviluppata si vedono le cose come stanno e tutte le forze che
producono il ciclo delle morti e delle rinascite si placano e diventano
incapaci di produrre nuovo karma. Cessato l’ inganno dei sensi, non esiste più
sete per la continuità: chi ha guadagnato questa posizione prova la più grande
felicità possibile, che consiste nel non provare più sensazioni. Ma il Nibbāna
è al di là di ogni logica e ragionamento, non lo si può capire con esattezza
solo discutendone: va soprattutto realizzato. Il Buddhismo sostiene una
reincarnazione nelle diverse specie di esistenza. La comparsa nel mondo può
essere interrotta, se il karma è particolarmente cattivo, da pene infernali di
lunga durata, mentre d’ altra parte le buone azioni sono premiate con la dimora
in un mondo divino. Questi cieli hanno una disposizione a piani sovrapposti, e
quanto più in alto sono collocati, tanto maggiori sono le perfezioni di coloro
che vi dimorano. Tuttavia il piacevole soggiorno nei mondi divini non è per il
saggio un fine degno d’ essere ottenuto a tutti i costi, poiché anche l’ esistenza
celeste è destinata ad aver fine, con il ritorno ai dolori della terra. La
liberazione finale dalle sofferenze e dalle passioni è garantita solo dal
raggiungimento del Nibbāna, già realizzabile in questa vita, dai tre
peccati capitali: odio, cupidigia ed illusione. Con la morte, il praticante
raggiunge una condizione in cui tutti i gruppi di fattori esistenziali che
formavano la sua personalità, vengono annientati senza possibilità che ne
sorgano di nuovi. Il Nibbāna è quindi il nulla, ma in senso relativo
poiché da quelli che lo hanno ottenuto viene sentito come una gioia ineffabile,
soprannaturale. In alcuni testi, le scuole Mahāyāna lo designano simile a una
lampada che si spegne, e il Buddha pianamente realizzato opera eternamente e in
modo costante per il bene di ogni essere senziente.
Comprese
le Quattro Nobili Verità, si può praticare il Nobile Ottuplice Sentiero, il
percorso di liberazione dalla sofferenza, basato sulla rettitudine: retta
comprensione, retto pensiero, retta parola, retta azione, retta condotta di
vita, retto sforzo, retta consapevolezza, retta concentrazione. Questo può
essere considerato la parte più importante dell’ insegnamento del Tathāgata, poiché
è quella su cui ci si è soffermato con maggiore insistenza. Le otto categorie che
compongono questo processo disciplinare non vanno praticate indipendentemente,
ma contemporaneamente, in quanto sono utili a perfezionare i tre elementi
essenziali della disciplina buddhista, ossia moralità, disciplina mentale e saggezza.
La moralità è amore e compassione nei confronti di tutti gli esseri viventi,
che però deve tradursi in un aiuto reale, non sentimentale. La disciplina mentale
è invece l’ essere sempre coscienti di ciò che si pensa, dice e fa, la volontà
energica di prevenire gli stati mentali cattivi e malsani, di sbarazzarsi di
quegli stati negativi che siano già sorti nell’ individuo e naturalmente di
produrne di positivi e una giusta concentrazione. La saggezza, infine, è il
controllo delle proprie riflessioni, che devono essere educate a focalizzarsi
su soggetti come la rinuncia e l’ amore universale, nello sforzarsi di capire
come stanno le cose in realtà e che possono essere comprese con le Quattro
Nobili Verità. Riepilogando il tutto, la prima Verità consiste nel capire la
natura vera della vita, che è dukkha. La seconda nella comprensione
precisa dell’ origine del dukkha, che è il desiderio. La terza nel
trovare il modo di estirpare il dukkha. La quarta nell’ analisi del
sentiero che conduce al Nibbāna.
Nel
Buddhismo, la meditazione è lo strumento grazie al quale si può liberare la
mente da ogni interferenza, da ciò che provoca turbamento, come i desideri
materiali, l’ odio e le preoccupazioni. Grazie ad essa, il praticante può
giungere alla verità più alta, il Nibbāna. L’ originalità meditativa dell’
Illuminato è insita nel suo rifiuto della mistica yogica tradizionale meditante
l’ applicazione di una nuova tecnica di meditazione, chiamata vipassanā,
che in pāli significa «visione profonda»: più che nella ricerca di una
condizione assoluta di quiete estatica, essa consiste nel contemplare il corpo,
le sensazioni, la mente e gli oggetti mentali, percependo il flusso stesso
dell’ esperienza, e l’ originazione interdipendente, in pāli paṭicca
samuppāda, come la base della vita mentale. Secondo il Buddha, questo
metodo è atto a sviluppare consapevolezza della realtà attraverso la percezione
continuativa degli stimoli sensoriali e mentali, per fare esperienza della loro
natura, che è transitoria, come è transitorio e impermanente tutto ciò che
esiste, tramite la contemplazione del corpo, delle sensazioni, della mente e
degli oggetti mentali.
Il
Risvegliato, fiero oppositore al sacrificio di animali, tipico della tradizione
induista, non diceva di essere divino, ma sosteneva di essere un uomo qualsiasi
e che qualunque risultato dovesse essere ottenuto grazie al proprio sforzo. Il
ruolo individuale è fondamentale. Non essendoci alcuna divinità da realizzare,
il perno della ricerca filosofica è la persona, la cui posizione è irrinunciabile:
solo l’ individuo può infatti accedere al più alto stadio, la buddhità, ognuno
è il rifugio di sé stesso. L’ importanza dei maestri sta nell’ insegnare la
via, che poi però deve essere percorsa dal praticante. La cosa più importante è
la giusta conoscenza: il maestro non deve essere accettato prima che abbia dato
prova di possedere la conoscere corretta, e solo allora il discepolo deve
accettare di porsi sotto la sua guida. E il discepolo deve avere un forte
desiderio di conoscere. La base della sapienza è la fede, ma non quella cieca comune
alle religioni, bensì quella fondata sull’ esperienza. Infatti, disse il Tathāgata,
la fede è quella che scaturisce dalla conoscenza: se si conosce, si crede, e non
si può credere a qualcosa che non si conosce. Il Maestro criticava il
bramanesimo proprio per questa pretesa di far credere ciò che poi non poteva
essere realmente conosciuto e paragonava quei bramini degradati a tanti ciechi
che volevano trascinare altri nel loro stesso baratro. A un esponente della
casta sacerdotale che lo interrogò su chi fosse un bramino rispose che è tale
chi sradica il male e parla in accordo con il Dhamma, smentendo che sia una
condizione dettata dalla nascita e dall’ appartenenza a una classe. Ma non si
deve neanche essere attaccati alla conoscenza stessa, la quale può diventare un
fardello. E’ come una zattera: quando il fiume è attraversato, questa va
abbandonata, senza bisogno di portarsela dietro. Tuttavia, il Buddhismo rimane profondamente
legato al modello religioso induista, incentrato sulla rinuncia e la cessazione
del divenire: la liberazione che conduce al divino consiste nel liberarsi dei
desideri e al termine della reincarnazione. Il saṃsāra è una catena
eterna di nascita, morte e rinascita fondata sul dolore in cui l’ individuo
soffre e aspira alla liberazione che gli renderà l’ esenzione dalla sofferenza.
Se la rinascita è dolore, ogni sforzo dovrà tendere a sfuggirla e vi si
sfuggirà con la soppressione dell’ attività, il distacco dal mondo, l’
inazione, lasciando fluire lo scorrere degli eventi senza attaccarsi o repellere
nulla. Se in Occidente si tende a spingersi sempre avanti, a eccellere in ogni
cosa e a cogliere il momento, percependo il valore intrinseco e prezioso della
vita, il popolo indiano, forse perché perennemente a contatto con una natura
poco ospitale, in condizioni di vita difficili, ha più viva di altre popolazioni
la sensazione fisica del male dell’ esistenza e ne conclude che l’ essenza
della vita è soprattutto il dolore. Perfino il Buddhismo Mahāyāna, corrente che
si sviluppò in India nel corso del I secolo prima di Cristo e attualmente
sostenuto dal Dalai Lama e altri maestri Zen, con tanta insistenza sulla
compassione, indica come meta finale la fine della reincarnazione e dunque
della vita come le persone comuni la intendono. La sola differenza è che il bodhisattva,
a differenza dell’ originario arahant che pratica solo per sé stesso e
vuole raggiungere la buddhità il prima possibile, l’ aspirazione a porre fine
al saṃsāra si estende ad ogni creatura vivente. Il Mahāyāna non è quindi
una corrente più ottimistica dell’ Hīnayāna, il «Piccolo Veicolo» a cui
pretende di sostituirsi.
Monaci buddhisti di varie tradizioni in Italia nel 2006;
Il
termine pāli bhikkhu, ossia «monaco», e bhikkhunī, «monaca», non
ha la stessa significato del contesto cristiano, essendo stato importato dal
Medio Oriente. Indica la figura del mendicante e del cercatore, e non implica l’
aderenza ad un ordine religioso. I monaci buddhisti sono infatti persone che si
pongono al di fuori delle convenzioni sociali per dedicarsi alla via del
Buddha. Ricevendo l’ ordinazione, si impegnano a rispettare duecentoventisette
voti, molti dei quali richiedono precise norme comportamentali come il celibato,
la povertà e, per tradizione, uno stile di vita nomade e basato sull’
elemosina. Monaci e monache, soggette a trecentoundici voti, ottantaquattro più
dei monaci maschi, accettano di insegnare su esplicito invito, guidando e
consigliando chiunque si rivolga a loro. La solitudine della condizione
monastica era ritenuta fondamentale per chiunque desiderasse raggiungere il Nibbāna,
seguendo l’ esempio del Maestro che aveva rinunciato allo stato laico per
dedicarsi ad un obiettivo arduo ed elevato senza distrazioni. Vi erano anche
motivi dettati dalle circostanze sociali ed economiche di quei tempi, in quanto
il saṅgha originario dipendeva materialmente dalle elemosine dei laici,
cosa che ovviamente rendeva difficile provvedere ad un’ eventuale prole. Pareva
logico che chi seguisse la religione rinunciasse al matrimonio, e con l’ andare
del tempo quella del monaco si impose come la privilegiata nella pratica buddhista.
Attualmente, però, il celibato e la castità sono argomenti molto discussi nel
Buddhismo quanto nel Cristianesimo. Chi li sostiene afferma che il Buddhadhamma
è sopravvissuto grazie a un ordine celibe che ha formato maestri esperti che di
generazione in generazione hanno garantito una corretta trasmissione della
parola del Tathāgata. Nelle società buddhiste
tradizionali, il monachesimo dava accesso agli studi: monasteri come quello di
Sera in Tibet o Songgwangsa in Corea del Sud si basavano più sull’
organizzazione di centri di studio che di comunità chiuse di quieti
contemplativi, con monaci dediti a tempo pieno alle acutezze e complessità della
via dell’ Illuminato mentre invece i laici dovevano limitarsi alle pratiche
devozionali, alle suppliche e all’ osservanza fideistica e morale in vista di
una rinascita favorevole. Altri, invece, fanno notare che nell’ originaria in
India si estinse a causa della debolezza delle istituzioni monastiche su cui si
fondava: vivendo in comunità isolate dai centri urbani e tenuti al voto di non
violenza e di non portare armi, i monaci erano esposti a qualsivoglia attacco,
come nel caso dei musulmani in India e delle Guardie rosse in Cina.
Trascorsa
la stagione delle piogge, il Buddha attirò un piccolo gruppo di seguaci, che
ordinò monaci e riunì in una comunità, il saṅgha, indipendentemente
dalla casta di appartenenza. Non tutti però venivano ammessi al nuovo ordine
monastico, in quanto il Risvegliato impose determinate restrizioni nel
desiderio di evitare controversie con le autorità e garantire al Buddhadhamma
e al saṅgha il rispetto delle popolazioni: rifiutò coloro che erano al
servizio dei rājan come servi e militari, gli schiavi, i malati
contagiosi, i banditi e i giovani al di sotto dei vent’ anni.
Quando
udì parlare di questo nuovo e grande insegnante, Mahali, un membro del clan dei
Licchavi, suggerì al re Bimbisāra di invitarlo a
corte: il Tathāgata e i suoi monaci si incamminarono fino alla capitale Rajgir,
ove il sovrano fu impressionato dagli insegnamenti del Risvegliato, tanto da
fargli dono di un parco caduto in disuso, il Veluvana, il «Boschetto di Bambù»,
dove lui e i bhikkhu avrebbero potuto trascorrere la stagione delle
piogge monsoniche. Poco dopo, i due principali seguaci di un guru locale,
Sariputta e Moggallana, scelsero di unirsi all’ Illuminato, di cui divennero i
discepoli più vicini, tanto che il primo gli domandò di formulare un voto per
il saṅgha. Per un trentacinquenne originario
di una provincia rurale di un regno rivale fu un risultato davvero
straordinario: non solo aveva l’ appoggio di un grande re dell’ epoca, ma tra i
suoi discepoli vi erano bramini convertiti, alcuni anche guide rispettate.
Anche Bimbisāra gli consigliò di accogliere certe usanze di altre comunità
spirituali di mendicanti quali i giainisti, come il tenere quattro assemblee al
mese per discutere gli insegnamenti. Il Maestro assentì, dimostrando apertura
verso le usanze dei suoi tempi: vari aspetti del Buddhadhamma e hanno
molto in comune con il Giainismo, altra via spirituale sorta proprio in quegli
anni in opposizione all’ ortodossia indù e al bramanesimo. Ben presto,
Sariputta chiese al Buddha di formulare un codice di regole per la disciplina
monastica, ma egli preferì aspettare che i problemi si manifestassero per poi
introdurre un voto con cui impedirne la ripetizione, proibendo peraltro le
azioni eticamente neutre a seconda delle situazioni e delle ragioni: in tal
modo prevedeva l’ adozione di regole pragmatiche e su misura, capaci di evitare
problemi e comportamenti offensivi, e una volta introdotte si sarebbero recitati
voti alle quattro assemblee monastiche mensili, in cui i monaci avrebbero ammesso
apertamente le eventuali infrazioni, le più serie delle quali avrebbero anche
comportato l’ espulsione dalla comunità, mentre le altre avrebbero imposto l’
esigenza di sottomettersi a un periodo di prova. Successivamente, tali incontri
si sarebbero tenuti solo ogni due mesi.
Il
Tathāgata era generalmente restio a formulare regole, e accettava di sopprimere
dettami minori quando si rivelavano inutili. Tale modo di agire illustra la
dinamica di due verità, una profonda e una convenzionale in accordo alle usanze
locali. Nondimeno decise che un monaco dovesse indossare un abito giallo che
lasciasse scoperto il braccio destro e si tosasse il capo: egli stesso aveva il
cranio rasato, possedeva una ciotola di metallo o terracotta, ago e filo, un
rasoio, un filtro per l’ acqua e alcuni medicinali in caso di malattia, e indossava
abiti fatti di stracci sporchi gettati nell’ immondizia, materiale bruciato dal
fuoco, tarlato, rosicchiato dai topi, utilizzato per i cadaveri. Questi stracci
erano recuperati lungo le strade, o anche nei luoghi di cremazione delle salme.
Le parti non più utilizzabili venivano tagliate via, e i pezzi rimanenti erano
lavati e cuciti insieme senza seguire nessun motivo preciso, fino a formare un
rettangolo di grandezza sufficiente ad avvolgere e coprire il corpo del
mendicante, che veniva tinto mediante radici, tuberi, cortecce, foglie, fiori o
frutti: il risultato era una tinta neutra e variegata, definita in sanscrito
genericamente kashaya e comprendente tutte le tonalità del colore della
terra. Veniva definito un colore impuro e brutto, quindi adatto a chi sceglieva
di rinunciare a ciò che la società considerava di valore. Tale abito, che
rappresenta con chiarezza il distacco dai beni materiali, è indossato ancora
oggi in India dai mendicanti. Tolleranza e compassione divennero concetti
fondamentali del Buddhadhamma: il Risvegliato incoraggiava i nuovi
monaci provenienti da altre comunità a continuare a sostenere tali valori, e
all’ interno del saṅgha impose di occuparsi gli uni degli altri. Se per
esempio un monaco si ammalava, gli altri si sarebbero dovuti occupare di lui,
poiché facevano tutti parte della stessa comunità, senza distinzioni. Tale
precetto è importante anche per i buddhisti laici.
Il Buddha in una thangka tibetana;
La
vita di Siddhattha Gotama/il Buddha non è comprensibile se non si tiene conto sia
della tradizione induista che delle condizioni socioeconomiche del tempo e del
luogo in cui visse. Il Buddhismo non si sarebbe mai affermato nella piana
gangetica se l’ economia indiana di allora, che aveva visto sorgere la realtà
urbana e la classe media di mercanti e banchieri, oltre che eserciti stabili
con cui i regnanti esercitavano il potere su reami sempre più vasti, non avesse
creato un’ eccedenza di ricchezza tale da consentire il sostentamento di una
comunità contemplativa: le figure spirituali come lui godevano abitualmente di
uno o più benefattori, che tramite offerte materiali speravano di accumulare
benedizioni e benefici spirituali, anche per mezzo di insegnamenti e consigli
in privato. Qualche tempo dopo, infatti, un ricco mercante di nome
Anathapindika, proveniente da Shravasti, capitale del Kosala, venne a Rajgir per
prendere importanti accordi. Incontrò il Buddha e ne rimase favorevolmente
impressionato, tanto da offrirgli un luogo in cui passare la stagione delle
piogge a Shravasti. Il Risvegliato e la sua comunità di monaci andarono nel
Kosala, ma trascorsero anni prima che Anathapindika poté mantenere la sua
promessa di un soggiorno adatto loro un luogo adatto, dunque l’ Illuminato andò
a visitare la famiglia a Kapilavatthu: il padre Suddhodana, che non aveva mai
cambiato idea circa la scelta del figlio, minacciò di morte la nuora Bhaddakaccānā
se avesse rivelato a Rāhula che il Tathāgata era suo padre. Il vecchio
aristocratico si incontrò con il Maestro, che gli rivelò che anche nelle vite
precedenti erano stati padre e figlio. Suddhodana si fece presto suo discepolo,
e Bhaddakaccānā scelse di non andare a incontrare il consorte, pensando che se avesse
acquisito qualche virtù egli si sarebbe certamente presentato a lei, cosa che
avvenne nelle sue stanze, in compagnia di due dei suoi discepoli, occasione in
cui lei corse a lui prostrandosi con la testa ai suoi piedi, mostrandogli
riverenza e rispetto. Nelle narrazioni successive dell’ incontro tra il Risvegliato
e la sua famiglia si dice che egli sfoggiò il proprio potere sovrannaturale per
ascendere al Cielo dei Trentatré Dei o, secondo altre fonti, a Tusita, la Terra
Pura in cui risiedono gli esseri destinati a conseguire la buddhità nella vita
successiva, per dare insegnamenti alla madre Māyā, rinata in quel luogo, lo
stesso ove attualmente sta impartendo insegnamenti Metteyya, il futuro Buddha
in attesa di manifestarsi in questo mondo lasciando il trono al bodhisattva seguente,
Siṃha. Rāhula, che ormai aveva otto anni e finalmente conobbe il padre, prese
eccezionalmente i voti monastici, divenendo novizio: non avendo potuto evitare
la sua ordinazione, Suddhodana strappò al figlio la promessa che in seguito non
avrebbe accettato nessun giovane come seguace senza il consenso dei genitori. L’
ordinazione di Rāhula ancora bambino gettò le basi di una lunga tradizione
tuttora seguita nei Paesi asiatici, ove i bambini vengono accettati nei
monasteri. Molti altri nobili di Sakiya divennero monaci buddhisti, come
Ānanda, Anuruddha e Devadatta, cugini del Risvegliato, e il fratellastro Nanda,
detto «il Bello».
Quattro
anni dopo, l’ Illuminato tornò ancora a Kapilavatthu alla notizia dell’ imminente
trapasso del padre, che assistette spiritualmente e dandogli insegnamenti sul
letto di morte. Ormai rimasta vedova, Pajāpatī, zia e matrigna del Maestro, fu
alla base di una vera e propria rivoluzione se si tiene conto della proverbiale
misoginia del tempo: fu la prima donna a richiedere direttamente al Risvegliato
l’ ordinazione monastica. In quel tempo, infatti, la donna era considerata
inferiore, e secondo un dogma radicato avrebbe dovuto incarnarsi in un corpo
maschile per ascendere alle massime realizzazioni spirituali. Il Maestro diceva
che chiunque poteva raggiungere la Bodhi, senza discriminazioni di
casta, ceto sociale, sesso e altro, quindi anche le donne, che però rifiutava
tra i monaci in tono con il sessismo imperante. Nel «Buddhacarita», il
celeberrimo poema epico sulla sua vita scritto dal monaco indiano Aśvaghoṣa nel
II secolo dopo Cristo, gli vengono attribuite parole poco lusinghiere, ma molto
chiare: «Impura e distorta: tale è la condizione naturale delle donne in questo
mondo; ma l’ uomo, ingannato da vesti e ornamenti, per le donne incorre nella
passione.». Peraltro, si riferisce di una conversazione in cui rincara la dose:
«Di tutti i profumi che possono rendere schiavi, nessuno è più letale di quello
di una donna. Di tutti i sapori che possono rendere schiavi, nessuno è più
letale di quello di una donna. Di tutte le voci che possono rendere schiavi,
nessuna è più letale di quella di una donna. Di tutte le carezze che possono
rendere schiavi, nessuna è più letale di quella di una donna.». In genere si
afferma che la sua maggiore preoccupazione fosse il rischio di attirarsi una
brutta reputazione, tanto da mettere a repentaglio la sopravvivenza del Buddhadhamma
in futuro: già era stato criticato da persone esterne al saṅgha per aver rovinato
svariate famiglie consacrando gli uomini, ma con la presenza delle monache
avrebbe inevitabilmente perduto ogni rispetto, in quanto avrebbe esposto i
monaci maschi al rischio di comportamenti immorali. Pajāpatī, però, non si
arrese: insieme a ben cinquecento donne, tra cui Bhaddakaccānā, si rasò la
testa e si vestì di giallo, seguendo il nipote e figliastro ovunque andasse. Per
tre volte, Ānanda, divenuto attendente del Tathāgata e suo confidente in quanto
cugino, per tre volte lo pregò di ordinare la zia matrigna, ma lui rifiutò.
Allora il discepolo gli domandò se le donne potessero giungere alla buddhità, e
alla risposta positiva del Buddha incalzò dicendo che poiché le donne era in
grado di raggiungere la liberazione e Pajāpatī era stata cosi generosa con lui
da allevarlo come una madre, sarebbe stata cosa buona se le donne potessero
ordinarsi. Colpito dalle parole di Ānanda, il Risvegliato finalmente acconsenti
all’ ordinazione: la comunità monastica femminile era nata. Tuttavia, le bhikkhunī
furono soggette a maggiori regole in confronto ai bhikkhu, venendo
addirittura sottomesse all’ autorità maschile: ad esempio, una monaca con venti
anni di anzianità doveva, e in alcune tradizioni deve tuttora, obbedienza a un monaco
maschio indipendentemente dal tempo della sua ordinazione. Sebbene molti
storici siano concordi nel ritenere che tale sottomissione non sia stata
istigata direttamente dal Buddha ma da interpretazioni successive, le monache lottarono
duramente per secoli per praticare il Buddhismo: potevano essere consacrate
soltanto con il permesso di un uomo di famiglia, che spesso veniva negato, e in
molti monasteri non erano le benvenute perché si temeva che la loro bellezza
potesse distrarre i monaci. Nel saṅgha ci
sono tuttora più regole per le monache che per i monaci, perché se tutti devono
controllare i propri desideri, le donne devono evitare di stimolare i desideri
sensuali degli uomini. I testi descrivono ripetutamente i monaci come pure
incarnazioni del Dhamma mentre le monache sono definite insaziabili e
lussuriose incarnazioni del saṃsāra.
Il Buddha in un dipinto giapponese;
Finalmente,
dopo il ritorno del Maestro nel Kosala, il generoso mercante Anathapindika
comprò in cambio di un ingente quantitativo di oro un parco a Shravasti,
chiamato Jetavana, «il Boschetto di Jeta», dove fece costruire una splendida
abitazione per il Buddha e i monaci in occasione della stagione delle piogge,
quando gli spostamenti non erano possibili: il Tathāgata stabilì quindi per
tutta la comunità monastica la tradizione di un ritiro di tre mesi durante la
stagione monsonica, in cui i monaci sarebbero rimasti in un luogo praticando
intensivamente il suo insegnamento. Fu l’ origine dei monasteri fissi e dei
ritiri intensivi di meditazione, tuttora praticati in ogni tradizione. Lo
stesso Illuminato trascorse ben diciannove ritiri della stagione delle piogge
nel Boschetto di Jeta, secondo le cronache impartendo ben
ottocentoquarantaquattro insegnamenti. Evitando di viaggiare, peraltro, i
monaci non calpestavano le colture quando dovevano attraversare i campi a causa
delle strade inondate. Secondo le fonti Mahāyāna, a Jetavana avvennero tanti
dei grandi eventi della vita del Risvegliato, come ad esempio una competizione
a suon di poteri miracolosi con sei grandi maestri, che si convinsero solo alla
dimostrazione delle sue superiori capacità.
Anathapindika
continuò per anni ad essere un grande benefattore del saṅgha finché, sul
finire della sua vita, si impoverì.
Il
Buddha si spostò continuamente a piedi lungo la pianura del Gange, come asceta
mendicante. Nel Canone pāli vi sono vari riferimenti alle questioni mistiche su
cui evitava sempre di pronunciarsi, a discepoli che gli ponevano domande alle
quali la religione organizzata tende invece a rispondere, aspettandosi una
risposta più convincente di quella tradizionale: l’ universo è eterno o un
giorno cesserà? La persona continua a esistere dopo la morte, o cessa? Il Maestro
non rispondeva mai, nella convinzione che questi argomenti non servissero in
alcun modo a percorrere la via che insegnava. Paragonava chi si addentra nei
temi mistici ad un guerriero colpito da una freccia che, anziché estrarla,
perde tempo domandando da dove venga, chi l’ abbia tirata, come sia fatta e di
quale tribù porti i colori: allo stesso modo, il praticante di fronte al dolore
deve comprendere che per eliminare la sofferenza bisogna agire qui e ora.
Peraltro,
nel Kalama Sutta viene elucidato in modo chiaro e diretto il carattere non
dogmatico dell’ insegnamento buddhista originario. Il Risvegliato disapprovava
i metodi tradizionali con i quali si faceva affidamento a un dato insegnamento
religioso o filosofico in favore dell’ approccio diretto dell’ esperienza
soggettiva, basata sulla comprensione e valutazione personale. Lasciando
opportuno spazio allo scetticismo e al dubbio riguardo alla reincarnazione e al
karma, credenze tradizionali che comunque non confutò mai, indicò le certezze
morali conquistate dal saggio. Fu una vera rivoluzione per l’ epoca, che pose
il Buddhadhamma in aperta opposizione alle correnti ortodosse dell’
Induismo: piuttosto che onorare la tradizione e il lignaggio, si esaltava l’
autonomia. Anziché aderire alla dottrina, sottolineava il bisogno di verificare
in pratica un principio. Invece di abbandonarsi alla mistica, si insinuava che
questo mondo potrebbe essere l’ unico. Emerge quindi un atteggiamento pratico e
per nulla speculativo, a differenza invece delle successive generazioni di
maestri e discepoli secondo cui non ci si può ritenere buddhisti senza
accettare che la mente sia diversa dal corpo e l’ individuo sia quindi
destinato a rinascere e, soprattutto, senza l’ autorità di un maestro. Nelle
correnti Mahāyāna, specialmente il Buddhismo tibetano e Vajrayāna, si è infatti
verificato un ritorno al misticismo e ad una sorta di culto della guida
spirituale, che deve essere sempre vista come un autentico Buddha, la sola che può
fare da tramite agli insegnamenti diretti del Buddha e renderli comprensibili al
discepolo. Il maestro deve quindi essere considerato il più gentile tra tutti i
Buddha proprio perché è l’ unico mezzo a disposizione per poter superare la
sofferenza, quindi va compiaciuto, propiziato con offerte e ascoltato in ogni
indicazione in quanto personificazione della buddhità. Persino i suoi difetti
ed errori vanno visti come una percezione erronea da parte del discepolo:
avendo ricevuto e correttamente compreso il Buddhadhamma prima del
discepolo, un maestro è così al di sopra di lui che qualsiasi cosa faccia deve
apparire positiva e sensata, anche quando non è comprensibile.
Un
modo molto importante per comprendere più a fondo la figura del Buddha sta nel
considerare il suo rapporto con Pasenadi, il sovrano del Kosala, il più potente
regno a nord del Gange. Uomo grasso, notoriamente goloso di riso e curry, dal
temperamento sensuale, sempre pronto a discutere con i propri funzionari su
come soddisfare i propri piaceri nel modo più raffinato e notoriamente crudele,
si diceva che legasse i nemici con corde e catene e impalasse i ribelli e gli
assassini, ordinando cruenti sacrifici di buoi, capre e pecore preparati da
schiavi, servi e operai che venivano costretti con punizioni e intimidazioni
alle quali gemevano con volti mesti. Pareva che preservasse il potere persino
con l’ infiltrazione di spie travestite da monaci e asceti nelle comunità
religiose. Un giorno, proprio al Boschetto di Jeta, il Tathāgata, circa
quarantenne, fu visitato da Pasenadi, che maturò un profondo rispetto per lui,
divenendone un devoto seguace e un generoso benefattore, sebbene la loro
relazione poggiò sempre su delicati equilibri: il rājan
era colto e un protettore degli studi ma anche un edonista abitualmente
spietato. Fu il momento fondamentale nella carriera del Maestro, che dopo aver
passato anni a insegnare e ottenere seguito qua e là per l’ India
settentrionale ora riceveva il sostegno del signore del Kosala, di cui era
stato suddito per tutta la vita. La devozione di Pasenadi, tuttavia, non operò
mutamenti miracolosi sulla sua personalità: stufo della pletora di magistrati
facoltosi che mentivano per arricchirsi in continuazione, un giorno decise di
affidare il potere giudiziario a Bandhula, il comandante della guarnigione,
proveniente dal Malla e suo amico personale. Subito dopo, però, i magistrati
offesi sparsero la voce secondo cui Bandhula e i figli stessero complottando
per assassinare Pasenadi e salire al trono. Il rājan, in preda al
panico, mandò Bandhula e i figli a sedare una rivolta al confine
settentrionale, per poi farli uccidere a tradimento sulla via del ritorno. La
notizia raggiunse Mallika, moglie di Bandhula, mentre era impegnata a preparare
un pranzo per l’ Illuminato e i monaci: conservata la calma, ammonì le nuore di
non screditare Pasenadi, sicura che avrebbe provato rimorso per aver fatto
morire il suo più vecchio alleato e amico. E infatti il rājan
risparmiò la vita alle donne e concesse loro di ritirarsi nelle proprietà
di Bandhula a Kusinara, e come ulteriore atto di riparazione promosse a
comandante militare a Dīghakārāyāna, nipote dell’ amico tradito. La reazione
del Risvegliato al brutale assassino perpetrato dal suo principale patrono non
viene riferita nei testi. Poiché non poteva permettersi di mettere a
repentaglio la propria posizione a Savatthi, è improbabile che mai criticò
apertamente l’ operato del sovrano, pur coltivando un atteggiamento prudente:
per quanto Pasenadi stimasse qualcuno, se cambiava umore poteva farlo morire da
un momento all’ altro, indipendentemente dal suo prestigio personale. E’
possibile che avesse conosciuto Bandhula di persona, in quanto i rispettivi
padri governavano regioni orientali del Kosala tra loro confinanti. Non potendo
ritirarsi sui monti o nella foresta con tutti i suoi monaci, ove sarebbero
stati esposti a briganti, cannibali e bestie feroci, nonché privi di cibo e
offerte, era quindi tenuto a rimanere nelle vicinanze delle grandi città, e ciò
lo obbligava a ricorrere alle offerte di Pasenadi, il solo in grado di
garantirgli protezione e accesso a risorse materiali.
Il
rājan aveva bisogno di un erede al trono, dal momento che la sua prima
moglie, sorella del re Bimbisāra del Magadha, non gli aveva dato figli. Prese
perciò una seconda moglie, Mallika, una seguace di incantevole bellezza del Tathāgata,
appartenente però ad una casta inferiore, cosa che infastidì i bramini di
corte. La donna però ebbe una figlia, Vajiri, quindi Pasenadi volle una terza consorte,
Vasabha, figlia di Mahanama, cugino del Buddha e fratello di Ānanda e
Anuruddha, divenuto governatore di Sakiya alla morte di Suddhodana. Vasabha era
figlia illegittima, nata da una schiava, ma il padre la fece passare per una
nobile purosangue: ella diede finalmente a Pasenadi il figlio tanto sperato,
Vidadabha, ma l’ inganno non durò per sempre, con il rischio di porre anche l’
Illuminato, ormai anziano, in una posizione difficile vista la sua parentela
con Vasabha. Giunto all’ età di sedici anni, infatti, il giovane Vidadabha, che
non sospettava di essere illegittimo, visitò il reame di Sakiya e il nonno
Mahanama. In tono con il proprio rango, entrò a Kapilavatthu a dorso di
elefante, in testa ad un corteo di soldati e servitori. Fin da bambino aveva
chiesto di fare quella visita, e non capiva perchè non ricevesse mai alcun dono
dal nonno materno. Vasabha rispondeva mentendo che vi erano problemi di
lontananza: in realtà le due corti distavano solo centotrenta chilometri. Il
giovane venne accolto calorosamente da Mahanama, e domandò come mai solo lui e
uno zio gli stessero dando il benvenuto. Gli si rispose che quasi tutti i
nobili erano impegnati al di fuori della regione. Al termine del soggiorno,
durante il quale fu trattato con immenso riguardo, il giovane ripartì ma uno
dei soldati si accorse di aver dimenticato una spada, e corse a riprendersela.
Entrando nella foresteria, vide una donna che lavava con il latte il seggio di
Vidadabha dicendo con sprezzo che era stato occupato dal «figlio della schiava
Vasabha». Quando il miliziano riferì la cosa al comandante Dīghakārāyāna
scoppiò il finimondo. Il giovane principe, disonorato e umiliato nell’
apprendere questo fatto, giurò di lavare con il sangue delle gole dei Sakiya il
seggio che loro stavano lavando con il latte. Pasenadi si infuriò a sua volta
con gli Sakiya, togliendo poi alla moglie e al figlio i titoli reali
riducendoli in schiavitù, facendoli rasare e vestire di sacco. Il Maestro
stesso si rese conto che la sua posizione nei dintorni era seriamente
compromessa dalla scoperta dell’ inganno di Manhama, che l’ idilio al Boschetto
di Jeta, luogo ove aveva tenuto gran parte dei suoi discorsi e trascorso la
maggior parte dei ritiri durante la stagione dei monsoni, era finito. Si recò
quindi alla reggia per difendere la loro causa, ammettendo che i Sakiya avevano
sbagliato e sottolineando che nel caso della regina e del principe ereditario
la condizione della madre era irrilevante: il vero metro della levatura sociale
erano i natali paterni. Vasabha aveva per padre Manhama, un capo e un
nobiluomo, e Vidadabha era figlio di Pasenadi, quindi il problema non
sussisteva. Affezionato alla moglie e al figlio, il rājan ascoltò il
Buddha e restituì loro la dignità reale, evitando una guerra contro i Sakiya.
Tuttavia non restituì al figlio il rango di erede al trono, consapevole che la
corte e i bramini non avrebbero accettato un futuro re figlio di una schiava. Gli
era ormai chiaro di non poter più assicurare una successione pacifica.
Quando
tutto finì, la posizione del Risvegliato rimase piuttosto insicura.
Probabilmente i suoi nemici ritennero lui e i monaci della sua cerchia, come Ānanda
e Anuruddha, complici del tradimento dei Sakiya, quindi tornò a Rajgir, e anziché
nel Boschetto di Bambù volle sostare, probabilmente per farsi curare, nel
boschetto di mango di Jīvaka, medico personale di Bimbisāra
che da qualche tempo aveva accettato anche lui come paziente.
Due
anni dopo, Bimbisāra, il primo mecenate del Buddha e del Saṅgha, rinunciò al
trono a favore del figlio Ajatasattu, che lo imprigionò e lo fece morire di
fame. Devi, vedova del sovrano e sorella di Pasenadi, morì per il dolore.
Desideroso di vendicarla, Pasenadi scatenò una feroce guerra contro il nipote
Ajatasattu, cercando di riconquistare i villaggi intorno alla città sacra di Vārāṇasī,
che erano stati offerti come dote di Devi: la guerra entrò però in uno stato di
stallo, e volendo ristabilire la pace, Pasenadi offrì la figlia Vajiri in sposa
ad Ajatasattu.
Nel
frattempo, il rispettato monaco Devadatta, maestro di Ajatasattu nonché cugino
e cognato del Tathāgata in quanto fratello di Bhaddakaccānā, convertitosi e
ordinatosi dopo aver ascoltato un suo discorso, cercò di prendere il potere
sulla comunità dei bhikkhu: tentò di convincere il Maestro di imporre ai
monaci alcune norme di disciplina più rigorose, come il vivere nei boschi, il
dormire solamente sotto gli alberi, il non entrare nelle case dei laici, l’
indossare solo stracci, il non accettare nuove vesti offerte in dono e l’
essere rigorosamente vegetariani. Il Buddha rifiutò nel timore che il saṅgha
sarebbe divenuto troppo ascetico e isolato dalla società, e anche perché tra le
regole monastiche vi era il nutrirsi solo delle offerte ricevute all’ interno
della propria ciotola durante la questua rituale nei luoghi abitati, dunque se
in essa vi era carne non era necessario rinunciarvi sebbene una dieta
vegetariana fosse considerata più adatta alla via spirituale. I bhikkhu
avrebbero perso molta mobilità sociale e sarebbero divenuti troppo simili agli
asceti giainisti. Tenuto in grande stima dagli altri monaci, Devadatta sfidò
quindi apertamente la sua autorità: molti giovani monaci erano attratti dalle
sue idee, e così diede vita ad uno scisma da cui sorse una comunità di monaci
avversari. Dopo lunghi e intensi sforzi, Sariputta e Moggallana riuscirono tuttavia
a convincere questi monaci a rientrare in seno alla comunità originaria, cosa
che indusse Devadatta a tentare più volte di assassinare l’ Illuminato, ma
senza riuscirvi. Pare che ad un certo punto comprese sinceramente il suo sbaglio,
e che si fosse deciso a chiedere perdono al cugino, tuttavia morì prima di
poterlo raggiungere al Boschetto di Jeta: secondo le fonti sanscrite la terra
si aprì sotto di lui facendolo precipitare direttamente negli inferi.
Indipendentemente dal mito, si racconta che nonostante tutto il Maestro non
cedette mai alla collera e al risentimento verso il cugino, e che Ajatasattu
rimpianse a sua volta di aver provocato la morte del padre: ascoltando il
consiglio di Jīvaka ammise il parricidio al cospetto del Buddha e se ne pentì.
Nel suo fondo di verità storica, l’ episodio evidenzia le tensioni e i
disaccordi all’ interno della comunità monastica buddhista, in quanto Devadatta
potrebbe non essere stato il solo tra i monaci anziani a temere che i bhikkhu
non seguissero una condotta sufficientemente austera. Il Risvegliato era ormai
anziano e la sua autorità era stata apertamente contestata. Curiosamente, il
personaggio di Devadatta può essere interpretato come una sorta di predecessore
di Giuda Iscariota, colui che tradì Gesù mandandolo a morire: nell’ immaginario
buddhista è infatti l’ essere senziente con il più alto carico spirituale
negativo, sebbene destinato, come spiegato personalmente dal Buddha nel Sutra
del Loto, a raggiungere la piena buddhità con il nome di Devarāja, ossia
«Re del Cielo o Re dei Deva», dal momento che in una precedente esistenza era
stato un asceta che gli aveva insegnato lo stesso Sutra del Loto, contribuendo
al suo risveglio. Allora, il futuro Illuminato era un semplice re.
Un
anno dopo, il Buddha tornò nella regione natale di Sakiya. Pasenadi lo incontrò
sulla strada per onorarlo, e, sfruttando la sua assenza, il generale Dīghakārāyāna
attuò un colpo di Stato per vendicare l’ uccisione dello zio Bandhula, e pose
sul trono del Kosala il principe Vidadabha. Pasenadi si recò a Rajgir per domandare protezione ad Ajatasattu, suo
nipote e genero, che invece gli negò il permesso di entrare in città: il rājan
fu trovato morto appena il giorno dopo.
Vidadabha,
frattanto, iniziò una guerra contro Sakiya per vendicarsi dell’ inganno con cui
il nonno Mahanama aveva celato la sua vera discendenza. In virtù dei suoi
stretti legami parentali, il Tathāgata tentò per tre volte di convincere il
sovrano a rinunciare alla contesa, ma inutilmente: le truppe del Kosala
ricevettero l’ ordine di sterminare la popolazione di Kapilavatthu. Impotente
di fronte all’ imminente massacro, l’ Illuminato fuggì verso Rajgir per
domandare la protezione di Ajatasattu, come aveva Pasenadi prima di lui. La via
per giungere fino al Magadha percorreva la repubblica di Vajji, ove il caro
discepolo Sariputta, lo attendeva presso la Vesali, ma nel frattempo
Sunakkatta, un aristocratico originario proprio di Vesali che era stato monaco
buddhista finché aveva deciso di tornare alla vita laica, apparve davanti al
parlamento di Vajji per gettare discredito sul Maestro, affermando che era un
uomo comune, privo di poteri sovrumani e che insegnava a estinguere i desideri
bramosi su basi logiche, ma non si pronunciava mai su come arrivare a un
qualsivoglia stato trascendente. Il Buddha lo prese come un complimento, ma a
queste accuse si aggiunse il fatto che aveva fondato un ordine di monache, cosa
che gli fece perdere il supporto e la considerazione di cui aveva
tradizionalmente goduto nel Vajji. Messo alle strette, il Risvegliato accelerò
il passo lungo la zona de Gange alla volta di Rajgir, fermandosi nelle vicine
grotte sul Gijjhakuta, il Picco dell’ Avvoltoio. Vassakara, Primo ministro di
Ajatasattu, si incontrò con lui, informandolo che il re intendeva espandere il
suo potentato invadendo la repubblica di Vajji. L’ Illuminato cercò di
sconsigliarlo dicendo che Vajji non poteva essere sconfitta militarmente, ma
nemmeno questa volta fu in grado di evitare l’ attacco imminente.
A
tale tragedia se ne aggiunse un’ altra: Sariputta e Moggallana, i suoi due
discepoli più stretti, morirono. Il primo, già anziano, venne a mancare per
malattia, mentre l’ altro fu picchiato a morte dai banditi durante un ritiro
solitario.
Non
avendo trovato supporto e seguito nel Magadha, il Buddha volle spingersi a
nord, alla volta di Sakiya, volendo vedere che cosa fosse rimasto dopo l’
attacco delle milizie Kosala. Era sempre più solo, avendo peraltro perduto il
figlio Rāhula e poi la moglie Bhaddakaccānā, il primo ancora relativamente
giovane e l’ altra a settantotto anni. Prima di partire chiese ad Ānanda di
radunare i monaci sul Picco dell’ Avvoltoio, volendo dare un ultimo consiglio:
disse di organizzare la comunità monastica sull’ esempio del sistema
democratico del parlamento di Vajji, e suggerì di tenere assemblee abituali,
vivendo in armonia, condividendo le elemosine e rispettando i più anziani. Non
voleva che si seguisse il modello dei regni di Kosala e Magadha, con un unico
monaco alla guida dell’ intera comunità. Lasciato il Picco dell’ Avvoltoio e il
Magadha, si fermò a Vesali per passarvi il ritiro della stagione delle piogge.
La società di Vajji era però avviata verso la decadenza, sull’ orlo di una
guerra, e avendo perduto il favore del parlamento locale il Tathāgata volle
trascorrere il ciclo monsonico da solo, congedando i monaci invitandoli a farsi
ospitare da amici o sostenitori. Ormai ottantenne, si ammalò gravemente,
avviandosi verso la fine dei suoi giorni. Ānanda gli domandò di dare un ultimo
consiglio: il Risvegliato rispose di aver già insegnato tutto ciò che sapeva, e
che in futuro l’ insegnamento stesso sarebbe stato il loro rifugio principale e
una direzione sicura. Alla sua morte, il Buddhadhamma stesso sarebbe
stato il loro maestro, e per ottenere la liberazione dalla sofferenza avrebbero
dovuto perfezionare la pratica da sé stessi, senza dipendere da un saggio o da
una comunità. Poi presagì che sarebbe morto presto. Terminate le piogge, il
Maestro si unì ai discepoli e cugini Ānanda e Anuruddha, e si mise nuovamente
in viaggio alla volta di Sakiya. Durante una sosta a Pāvā, una delle due città
principali di Malla e patria del generale Dīghakārāyāna, che aveva condotto il
massacro a Sakiya, un fabbro di nome Chunda gli servì un piatto di maiale
avvelenato. L’ Illuminato ebbe un presentimento e disse ai cugini di non
mangiarlo, cibandosene da solo e domandando loro di seppellirne i resti. Forse
Chunda intendeva uccidere Ānanda, noto per aver imparato a memoria tutti i sutta
del Buddha: se fosse venuto a mancare, il Buddhadhamma e il saṅgha
non sarebbero sopravvissuti.
Colto
da una forte diarrea indotta dal veleno e che gli fece perdere molto sangue, il
Tathāgata chiese ad Ānanda di essere portato nella vicina città di Kushinagar,
ove, sdraiato in un letto tra due alberi, sul fianco destro, in una posa
simbolica che indicava la presenza mentale anche nel sonno, chiese ai monaci
con lui se avessero domande o dubbi. Vinti dal dolore, Ānanda e gli altri
rimasero in silenzio, finché il Maestro, dopo aver ricordato che tutte le cose
composte sono destinate a disintegrarsi ed essersi raccomandato di dedicarsi
con diligenza alla propria salvezza, morì. Correva l’ anno 486 prima di Cristo.
Aveva ottant’ anni. Mallika, l’ anziana vedova di Bandhula, ne coprì il corpo
con il più bel manto che aveva, tempestato di gemme.
La Ruota del Dharma al Jokhang, in Tibet;
La
morte del Buddha fu un evento drammatico, che ebbe importantissime conseguenze
sul saṅgha, organizzato in modo che le
decisioni si prendessero collegialmente dalle assemblee dei monaci, e sulla
trasmissione del Buddhadhamma. Il clan dei Malla approntò un funerale
degno di un sovrano universale: le spoglie mortali furono avvolte in
cinquecento pezze di cotone e immerse in una vasca di ferro piena d’ olio.
Quindi, con l’ accompagnamento di una folla che portava ghirlande di fiori,
ballava e suonava, attraversarono la città. Passarono sette giorni prima che si
approntasse la pira funeraria. Questo diede tempo a Kassapa,
un monaco di classe braminica originario del Magadha, il più autorevole dei
monaci dopo la morte di Sariputta e Moggallana, di giungere da Pāvā e presenziare
ai riti funebri. Si diceva che al suo primo incontro con il Tathāgata, che
lo reputava
il migliore discepolo nel mantenere attenzione ai minimi dettagli delle regole,
questo insigne bhikkhu avesse ricevuto in dono il suo vecchio abito,
ormai usato, in cambio delle nuove vesti da bramino, fatto interpretato da
alcuni come una trasmissione di autorità. In seguito si era distinto per la sua
intuizione profonda, manifestata quando il Risvegliato si era presentato per un
insegnamento ad un gruppo di monaci tenendo in mano un fiore e restando in
silenzio: Kassapa aveva sorriso, unico a comprendere ciò che il Maestro stava
insegnando, si era illuminato senza una parola, ma solo tramite un gesto e un
sorriso, in una trasmissione senza parole, da maestro a maestro, da mente a
mente. Ānanda, dopo essere stato per tutta la vita l’ attendente del Buddha, si
fece carico anche di tutta l’ organizzazione delle cerimonie inerenti al suo
corpo. Il giorno della cremazione diede la precedenza alle donne Malla, che per
prime a circoambulare attorno al corpo del Risvegliato, a lanciare fiori e
bagnare di pianto i suoi piedi. Quindi, contrariamente alle prescrizioni braminiche,
le spoglie, vestite con abiti da principe, furono portate in processione dentro
la città da Ānanda, dal re di Malla e, secondo un abbellimento mitologico
tradizionale, da Brahmā e Indra. La pira fu accesa da Kassapa. Una volta
che il fuoco si estinse, furono raccolte le sarīra, reliquie di forma
irregolarmente sferica, di vari colori e di materiale duro e dalla natura
indeterminata, considerate secrezioni tipiche di una persona particolarmente
dotata spiritualmente, e conservate in una scatola d’ oro al centro di Kushinagar.
La
notizia del parinibbāṇa, ossia l’ estinzione del Buddha, e della
permanenza delle sarīra attirarono un’ intensa competizione per
impossessarsene: oltre ai Malla di Kushinagar le reclamarono anche i Malla di
Pāvā, il rājan Ajatasattu
del
Magadha, i Bulaka di Calakalpa, i Krauḍya di Rāmagrāma, i bramini di Viṣṇudvīpa,
i Lichchavi di Vaiśālī e i Sakiya di Kapilavastu. Le richieste furono
sottolineate dall’ invio di eserciti a Kushinagar, e il bramino Droṇa fu scelto
come arbitro: divise le sarīra in otto parti per gli otto pretendenti,
per sé tenne l’ urna con cui aveva eseguito la partizione, le ceneri della pira
andarono al bramino Pippalāyana, giunto dopo la cremazione. Una volta
distribuite le reliquie, ciascuna parte costruì un grande stūpa, ossia un
monumento funerario, per venerarle. Terminati i riti e con la stagione delle
piogge ormai vicina, Kassapa convocò un concilio a Rajgir nel desiderio di
ricordare e confermare gli insegnamenti trasmessi dal Maestro. Lo stesso monaco
anziano vi ammise la presenza dei soli praticanti che avevano ottenuto il
Risveglio, ossia quattrocentonovantanove monaci. Benché fosse il discepolo che
aveva memorizzato i discorsi del Buddha meglio di tutti, Ānanda venne escluso:
si disse che non ne avesse il diritto perché non ancora illuminato, ma il vero
motivo, ben più pratico e terreno e che minacciava di avere conseguenze molto
serie, era il fatto che avesse convinto il Tathāgata a concedere l’ ordinazione
alle donne, ed era un aperto sostenitore del principio, espresso dall’
Illuminato in persona, secondo cui il saṅgha non dovesse avere una sola
guida, dovendosi affidare innanzitutto all’ insegnamento che lo stesso Maestro
aveva trasmesso per quarantacinque anni dal conseguimento della buddhità. Ebbe
quindi luogo una forte lotta di potere, un conflitto tra il sistema
tradizionale indiano rappresentato da Kassapa, in cui il potere era trasmesso
da maestro a discepolo, e un nuovo modello, sostenuto da Ānanda, più
democratico ed egualitario, costituito in piccole comunità di monaci
mendicanti, che seguivano insieme una serie di valori e pratiche comuni. I
monaci anziani si opposero all’ esclusione di Ānanda, ma Kassapa
rimase irremovibile: secondo la narrazione tradizionale, la notte prima che
iniziasse il concilio, Ānanda si incontrò con Vassakara, il Primo ministro di
Ajatasattu, da cui apprese che le truppe del Magadha si preparavano non solo a
invadere la repubblica di Vajji, ma anche a difendersi da un eventuale attacco
da parte del re Pajjota di Avanti, il regno a ovest del Magadha. Subito dopo, si
ritirò nella propria capanna e meditò con impegno senza però riuscire a raggiungere
la Bodhi: ormai stanco vi rinunciò e si pose a riposare, ma proprio in
quel momento, avendo abbandonato il desiderio, raggiunse la piena buddhità. Fu
quindi ammesso al concilio, ove recitò a memoria la maggior parte dei sutta
pronunciati dal Buddha, mentre Upāli espose le regole disciplinari, raccolte
nel Vinaya Piṭaka, e Kassapa ripeté i temi cosmologici, che vennero
organizzati nell’ Abhidhamma Piṭaka. Fu l’ origine del canone buddhista,
trasmesso oralmente e poi messo per iscritto quattrocento anni dopo, in lingua
pāli. Si noti peraltro che Ānanda è un termine sanscrito che letteralmente
significa «beatitudine», e che esso indica uno stato spirituale e trascendente,
non paragonabile alle gioie transitorie del mondo fenomenico. Spesso ci si
riferisce ad Ānanda come a quello stato di profonda, imperturbabile «gioia
beata» che si raggiunge negli stadi più elevati della meditazione.
Per
quanto il Risvegliato non avesse voluto che i suoi monaci fossero guidati da un
lignaggio di patriarchi, l’ ascesa di Kassapa quale nuovo capostipite ebbe l’
indubbio merito di permettere la sopravvivenza del Buddhadharma e del saṅgha
in un contesto politico sempre più insicuro e denso di pericoli soprattutto grazie
alla formazione di un’ ortodossia che tenesse unita la comunità spirituale. Ma
fu proprio a questo punto che il Buddhismo iniziò, anche se inconsapevolmente,
a muovere i primi passi verso l’ evoluzione in una religione autonoma e
indipendente dall’ Induismo, contrariamente ai propositi originari del Buddha,
desideroso piuttosto di riformare l’ antica tradizione in cui lui stesso era
nato e vissuto, senza peraltro alcun bisogno di predicare ai non indiani. Tutto
il suo insegnamento si fondava sul confronto tra kshatriya e bramini, in
risposta alla domanda su quel che accade quando un uomo realizza la propria
armonia con l’ assoluto secondo i propri sforzi e senza l’ intervento della
casta sacerdotale: ai suoi occhi l’ intera struttura della visione braminica
era fondamentalmente priva di ogni realtà effettiva, i bramini avevano potere
solo perché la gente credeva in loro, e lui, uno kshatriya, si era fatto
asceta errante, al di fuori della società, che anziché rimanere in solitudine
volle influire sulla società con la creazione di una comunità spirituale che esercitasse
influenza presso le corti dei rājan. Come indiano, era stato educato ai
valori fondamentali dell’ Induismo, e di conseguenza si rivolgeva ai
compatrioti nella veste di riformatore religioso: non a caso che scelse proprio
Vārāṇasī, il cuore della tradizione induista, come luogo del suo primo
insegnamento e neppure che parlasse di reincarnazione, karma, saṃsāra e Nibbana,
confermando in tal modo le credenze di base della sua tradizione ma al tempo
stesso assumendo i toni di convinto oppositore alla casta braminica, alla
ritualità e ai sacrifici di animali in favore dello sforzo individuale e
nonviolento. I testi canonici riferiscono persino l’ invito di Brahmā e Indra
ad insegnare pubblicamente le sue scoperte, beneficiando tutti gli esseri
senzienti, vincendo i suoi dubbi iniziali sul fatto che il Dhamma da lui
scoperto fosse troppo difficile e rivoluzionario per essere compreso e
accettato dalla gente, legata alle consuetudini. Il fatto che Siddhattha Gotama
rappresenti un elemento calato strettamente nel contesto indiano è confermato
anche dal fatto che ancora oggi certi ambienti induisti sia identificato come
la nona incarnazione in forma di avatara di Visnù, protettore del mondo e del
Dharma: poiché il Buddhismo si poneva in alternativa alla tradizione indù, per
alcuni questa incarnazione aveva l’ obiettivo di ingannare e quindi condurre a
rinascite sfavorevoli i suoi seguaci, intesi come traditori dei Veda, per altri
è intesa positivamente per insegna l’ ahiṃsā, la nonviolenza e la
gentilezza d’ animo soprattutto verso gli animali. L’ unica vera innovazione
del suo insegnamento fu il concetto relativo alla Bodhi, la beatitudine
finale e traguardo di una pratica spirituale basata sulla meditazione e la
comprensione delle Quattro Nobili Verità e del Nobile Ottuplice Sentiero, in
quanto il Mokṣa, la tradizionale liberazione spirituale, non poteva
essere concessa da niente nessuno, neppure dalla più raffinata liturgia o dal bramino
più celebre e ineguagliabile: solo l’ individuo può liberare sé stesso, e per
mezzo di saggezza, moralità e disciplina mentale. L’ insegnamento che trasmise
ai suoi discepoli si basava essenzialmente su di un’ interpretazione originale
delle Upaniṣad, secolari concetti alla base della scuola vedica, e non su
concetti appositamente formulati. Lo stesso Risveglio del Buddha, se
considerato da un’ ottica storica e culturale anziché religiosa e fideistica, pare
più il risultato di un lungo percorso di studi e riflessioni culturali e
religiosi anziché il frutto di un’ esperienza mistica maturata nel contesto di
una vita ascetica e della pratica meditativa. Il Risvegliato fu una figura così
straordinaria sulla scena spirituale induista che, cosa poco nota in Occidente,
le sue innovazioni seppero influenzare profondamente lo stesso Induismo: il suo
rifiuto della speculazione metafisica e il suo pensiero logico introdussero
infatti un’ importante tendenza analitica che fino ad allora era mancata nell’
ortodossia indù.
Analogamente
a tutte le altre tradizioni religiose in generale e a quella induista in
particolare, nel Buddhismo si può notare un certo pessimismo nei riguardi della
vita, considerata essenzialmente come una costante fonte di dolore: come l’
Illuminato disse tanto chiaramente nel Discorso di Benares, la nascita, la
vecchiaia, la malattia, la morte, l’ unirsi con cose non gradevoli, il
separarsi da cose gradevoli e il non ottenere ciò che si desidera sono tutte
fonti di sofferenza, e la stessa rinascita dipende dal prepotente desiderio di
essere e di provare qualcosa. Quindi, per fermare ogni tipo di divenire occorre
eliminare la radice della sofferenza, annullando i desideri. Tale pessimismo
trova la sua spiegazione nel particolare contesto dell’ era antica, in cui
vissero le più note figure religiose di cui noi abbiamo il ricordo: allora la
vita era assai più precaria di oggi e il dolore era un’ esperienza costante,
soprattutto nelle classi più basse, tra carestie, guerre, mancanza di civiltà e
di libertà. Una vita libera dal dolore, non necessariamente felice, era quindi
il massimo che allora la maggioranza poteva augurarsi, in quanto ogni attimo di
felicità era una condizione del tutto eccezionale. Buona parte delle
affermazioni buddhiste sono quindi assai difficili da accettare al giorno d’
oggi, se non si è pessimisti o portati alla depressione. Se poi si considera il
fenomeno delle caste imperante nell’ India di venticinque secoli fa, appare
ancor più evidente quanto il Buddhadhamma fu concepito come riparo sotto
il quale si può contemplare serenamente un temporale, senza bagnarsi e comunque
senza riuscire a risolvere il problema rappresentato dalla precipitazione
atmosferica. Peraltro, ad un’ attenta analisi, nella via del Buddha si può
notare una contraddizione molto particolare, in quanto durante la sua
predicazione egli invitò più volte i suoi discepoli a valutare il suo
insegnamento così come l’ orefice saggia la qualità dell’ oro prima di iniziare
a lavorarlo. Da allora, le numerose generazioni di maestri che si sono
succedute fino ad oggi hanno spronato sul suo esempio a non credere in nulla
per fede, ma ad affidarsi al proprio giudizio, eppure la tradizione puntualizza
ogni volta che il Tathāgata e i maestri delle varie scuole sono tutti maestri
pienamente illuminati, dunque incarnano un’ autorità assolutamente esatta,
sicura e sincera, qualcosa di cui non si può e non si deve mai dubitare.
Quindi, esattamente come ogni altra religione, il Buddhismo induce alla
dipendenza dal pensiero altrui e all’ autorità dei testi canonici e dei
maestri.
Una moderna raffigurazione del Buddha; |
Siddhattha
non disse mai di voler fondare una religione che portasse il suo nome e neppure
di volerla diffondere in ogni luogo conosciuto, semplicemente pensava di condividere
le proprie intuizioni con chiunque desiderasse ascoltarle e metterle in pratica.
Voleva fondare una nuova civiltà, e le attuali forme di Buddhismo a noi note
sono le vestigia di una civiltà che in India non riuscì ad imporsi. Il suo
insegnamento era una prassi e un modo di vivere, trasmesso solo dai monaci e
rigorosamente applicato nei monasteri. I laici che lo seguivano erano invitati
a condurre una vita moralmente corretta, ma a causa delle distrazioni e degli
impegni tipici della vita terrena si pensava che per loro fosse molto difficile
illuminarsi, quindi il Buddhadhamma rimase una prerogativa di chi
rinunciava a tutto e aderiva alle regole monastiche. Con il passare dei secoli,
lo stesso Risvegliato venne visto in un modo che oscilla tra realismo e
idealismo, da essere umano a principio cosmico ed eterno. Si diede grande
importanza anche ad altre figure, quindi il Buddha non venne più ritenuto il
primo illuminato a manifestarsi: nei testi Hīnayāna si riferisce che in
ciascuna delle sei ere precedenti si manifestò un solo Buddha, mentre nel
Mahāyāna ci sono infiniti Buddha in ogni tempo.
Da
dove viene allora tutto il complesso apparato di norme, cariche, vestimenti,
liturgie, formule, che caratterizza le comunità monastiche delle numerose
tradizioni che a lui si richiamano? La complessa avventura del Buddhismo ebbe il
suo punto di svolta nella figura di Aśoka il Grande, il terzo re della dinastia
bengalese dei Maurya, che nel 268 prima di Cristo, duecentodiciotto anni dopo
il periodo in cui tradizionalmente si indica la morte del Buddha, salì al trono
e in pochi unificò l’ India, aderendo poi al Buddhadhamma, ormai molto
diffuso principalmente nelle città e nel ceto mercantile, facendogli vivere un
periodo molto fortunato, tanto da farne la religione ufficiale della nazione.
Volendo pentirsi delle lunghe guerre che aveva sostenuto prima di allora, regnò
secondo i valori buddhisti fondamentali, peraltro promulgando gli insegnamenti,
finanziando i monasteri, costruendo stūpa e monumenti, introducendo leggi e
istituzioni compassionevoli e nonviolente, favorendo relazioni pacifiche con i
regni vicini, costruendo ospedali per persone e animali, assicurando il
benessere delle popolazioni locali, assicurando luoghi confortevoli per i
visitatori e così avanti. Scrisse molti editti per sostenere il Buddhadhamma
e inviò vari monaci nelle nazioni vicine perché lo diffondessero, come
missionari. Ebbe quindi un’ importanza analoga a quella che, seicento anni
dopo, avrebbe vantato l’ imperatore romano Costantino per il Cristianesimo. Tuttavia,
quando Aśoka morì nel 232 prima di Cristo, complici alcune difficoltà
interpretative circa determinati aspetti della dottrina, le divergenze tra le
varie correnti buddhiste aumentarono portando alla formazione di tre scuole, l’
Hīnayāna, legato agli insegnamenti del Buddha così come li aveva trasmessi, e
improntato su di una prerogativa razionale e autoritaria e sull’ idea che il
praticante debba agire per la liberazione individuale; il Mahāyāna, basato un
contenuto filosofico e mistico secondo cui il praticante deve orientarsi per
liberare dalla sofferenza dapprima gli altri, e poi sé stesso; e il Vajrayāna,
comprendente insegnamenti esoterici trasmessi a pochi praticanti scelti.
In
seguito, a poco a poco, a causa di varie invasioni, come quella degli unni
durante il V secolo e quella dei turchi di seicento anni dopo, in cui il
celebre Monastero di Nālandā, famoso per i suoi diecimila monaci, venne
distrutto, il Buddhadhamma, particolarmente legato a monasteri che
sopravvivevano soltanto con il sostegno statale, sparì dall’ India e i bramini
recuperarono il terreno perduto contribuendo a imporre nuovamente l’ antica
tradizione indù, assistendo tuttavia alla diffusione dell’ Islam, importato dai
turchi. Il Buddhadhamma sopravvisse solo tramite la predicazione al di
fuori degli originari confini indiani, divenendo qualcosa di comprensibilmente
sradicato dal contesto induista originario, assumendo varie forme molto diverse
tra loro dovendosi integrare con svariate realtà storiche, culturali, sociali e
spirituali a seconda delle nazioni raggiunte, affrontando enormi difficoltà
derivanti dalla traduzione dei testi canonici nelle altre lingue, dalla
spiegazione dei principi caratteristici alle popolazioni non indiane e dalla necessità
di preservare i valori fondamentali della disciplina sia monastica che laica: da
sud a nord, fra Sri Lanka e Himalaya, ad ovest in quelle zone che formano oggi
l’ Afghanistan e l’ Iran, ad est, Birmania, Thailandia, Laos e Cambogia, fino
alla Cina, a Sumatra e Giava, in Giappone, Corea, Vietnam, Tibet. Le molte
forme di Buddhismo maturarono ciascuna con il proprio stile e approccio, i
popoli locali adottarono quegli aspetti che risultavano in armonia con le
credenze locali. Ognuna di esse sostiene di custodire la pura dottrina del
Buddha, ma tale affermazione appare evidentemente inverosimile agli studiosi
poiché oggigiorno le dottrine che si definiscono buddhiste sono così tante che
al Maestro sarebbero state necessarie almeno dieci reincarnazioni consecutive
da vivere insegnando costantemente. Anche i monasteri mutarono a seconda del
luogo: in uno in Corea, Paese confuciano, ogni individuo deve accettare ruolo
assegnatogli, che cambia nel tempo, e svolgerlo con diligenza per preservare l’
armonia generale, mentre in uno in Tibet, di tradizione feudale, i lama formano
un’ aristocrazia spirituale privilegiata, il lamaismo, che vive e mangia
separata dai monaci comuni, esercitando un’ autorità assoluta sui discepoli e
assomigliando in quasi tutti gli aspetti al bramanesimo tradizionalmente
confutato dal Buddha. Analogamente a quanto avvenuto nel contesto di tutte le
altre filosofie indiane, tutto ciò pose un’ enorme difficoltà nell’ accertare
cosa fosse stato veramente indicato dal maestro originario e quali fossero
invece le interpretazioni dei suoi seguaci e discendenti, quindi all’ avvento
di un clero soggetto a regole sempre più elaborate e indossante abiti
differenti da quelli prescritti originariamente dal Buddha: si pensi ad esempio
ai monaci tibetani, soggetti a duecentocinquantatrè regole se uomini e
trecentosessantaquattro se donne, indossanti tonache gialle con manto rosso, e ai
lama che portano copricapi elaborati di vario colore a seconda della
realizzazione spirituale. Da corrente minoritaria dell’ Induismo, Il Buddhismo
era ormai una realtà a sé e sulla strada per divenire una delle religioni più
diffuse al mondo.
Tuttavia,
non tutta quanta l’ ortodossia indù è stata cancellata nei secoli Una delle sue
tracce più evidenti, oltre a concetti religiosi come karma, reincarnazione, saṃsāra
e liberazione, è il dibattito. Il dibattito filosofico tradizionale buddhista è
una delle cose più suggestive a cui si possa assistere, soprattutto nel
Buddhismo tibetano, ove è una disciplina fondamentale nella formazione dei
monaci. La pratica infatti prevede che il sostenitore della tesi sia seduto e
coloro che sfidano la tesi rimangano in piedi, e la disputa, animata da
continui riferimenti ai testi sacri, continua fino a quando uno non contraddice
sé stesso, venendo dichiarato sconfitto. Questi dibattiti si svolgono urlando,
con ampi movimenti delle braccia, battiti di mani e di piedi che spesso
lasciano interdetto colui che assiste e ha una visione del Buddhismo come una
religione silenziosa e quieta, dai movimenti lenti e dal fare pacifico. Nell’
India antica, infatti, la filosofia veniva studiata in forma scolastica nei
luoghi di pratica dominati dalle varie scuole di pensiero, tra cui spesso e
volentieri esistevano rapporti conflittuali, sia di natura filosofica perché ai
tempi sostenere una visione ritenuta errata significava condannare le persone a
un’ esistenza di sofferenza e tormenti, sia di natura politica ed economica in
quanto le sette più forti e con maggiori seguaci avevano più benefattori. Il
dibattito costituiva quindi un vero e proprio sistema di guerra tra le scuole induiste
e chi perdeva era costretto a convertirsi alla dottrina dell’ avversario oppure
morire. Molte volte, infatti, i perdenti praticavano vere e proprie forme di
suicidio collettivo, come durante il dibattito che dal 792 al 794 ebbe luogo al
Monastero di Samye, in Tibet, quando i monaci cinesi si arsero vivi in massa
dopo aver perso pur di evitare la conversione. E come in ogni sistema di guerra
che si rispetti, venivano anche praticate strategie scorrette come spionaggio e
controspionaggio, avvelenamenti e altro: in una guerra non è importante come si
vince, ma vincerla, in quanto con questo sistema, si poteva estendere il
potere, l’ influenza e il prestigio della propria scuola filosofica. Il dibattito
buddhista sembra un vero e proprio combattimento, infatti la sua origine è
essenzialmente guerresca.
Le
cronache più antiche della vita del Buddha apparvero a ben tre secoli dalla sua
venuta, pertanto oggi risulta piuttosto arduo valutarne l’ esattezza e la
precisione, pur non volendo a priori confutarne la validità. Da un’ analisi
logica delle fonti antiche, in particolar modo il Canone pāli, emerge un
ritratto incoerente: in alcuni passi appare come un personaggio appartato, che
vaga da solo per le remote zone forestali della pianura gangetica, in altri
come un personaggio pubblico eroico, riverito da sovrani e finanziato da
mercanti e intento a insegnare a vaste assemblee di monaci e discepoli laici
con grande autorevolezza, in altri ancora come un gran taumaturgo capace di
attraversare i muri e volare come un uccello, un esperto meditante in grado di
accedere a volontà ai più profondi stati di assorbimento. In altri ancora come
un essere messianico dalle caratteristiche fisiche sovrumane come un’
escrescenza sulla testa, ruote del Dhamma sui palmi delle mani e dei piedi, una
lingua che leccava le orecchie e un pene che si ritraeva nel bacino. Altrove è
invece un monaco di aspetto comune, infastidito dalle ambizioni del suo
parentado e frustrato dalle polemiche tra discepoli, vagante per la piana del
Gange insegnando e impedendo che la comunità si disgregasse. Aveva anche un
senso dell’ umorismo: quando il monaco Pukkusāti, ex
aristocratico di Takkasīlī, giunse a Rajgir, trovò ricovero nella bottega di un
vasaio, ove poi si presentò un altro monaco che gli domandò se non gli sarebbe
spiaciuto dividere l’ asilo con lui. Pukkusāti ne fu lieto e i due passarono
molte ore a meditare. Il mattino dopo, il monaco chiese a Pukkusāti chi fosse
il suo maestro, e questi rispose di essere allievo del Buddha, pur non avendolo
mai incontrato di persona. Il monaco chiese dove il Maestro vivesse, e Pukkusāti
rispose che era in una città del nord: solo a quel punto il monaco rivelò di
essere il Risvegliato, e tenne un discorso sugli elementi dell’ esistenza a
beneficio dello stupefatto bhikkhu.
Fu
una guida spirituale carismatica, per certi versi anche tragica, che si applicò
con costanza e diligenza nella trasmissione di un degno insegnamento e nella
garanzia del benessere della sua comunità in circostanze sociali, politiche e
tradizionali molto complesse. Fu quindi trasformato da filosofo e asceta riformatore
induista a mistico ed entità spirituale più propriamente buddhista, un essere
realizzato dotato di innumerevoli poteri miracolosi, come l’ onniscienza: nei thangka,
ossia i dipinti tibetani, è raffigurato con un’ aurea e di energia curativa che
si irradia dalla testa in tutto il corpo, indirizzata alla cura delle malattie
e a diffondere un nuovo benessere psicofisico a chiunque guardi l’ opera. Tale
fenomeno di mitizzazione e divinizzazione, comprensibile e rispettabile sul
piano della fede, rappresenta comunque un ostacolo alla comprensione storica. Siddhattha
Gotama era certamente un uomo colto e intelligente, ma aveva scopi differenti
da quanto la successiva tradizione gli attribuì, e visse in un mondo imperfetto
e imprevedibile. Non poteva avere idea di cosa sarebbe accaduto il giorno o il
mese dopo, o prevedere l’ umore o i sospetti che avrebbero potuto colpire uno
dei suoi patroni, convincendolo a ritirare il proprio appoggio da un momento
all’ altro. Non era in grado di presagire una calamità naturale, una guerra, un
colpo di Stato o una malattia che l’ avrebbero potuto condurre alla fine. Non
si deve nemmeno cedere all’ idea che fosse un monaco ritirato dal mondo, un
mistico contemplativo e sereno il cui solo scopo era indicare ai discepoli la
via per la Bodhi e il Nibbāna, perché si oscurerebbe il suo ruolo
di critico e riformatore che irrideva la casta dei bramini e il suo sistema
liturgico confutando alcune tra le principali idee della tradizione induista.
Si paragonava piuttosto a un uomo che addentrandosi nella foresta aveva
scoperto «un antico sentiero battuto in passato dalle genti, fino ai resti di
un’ antica città con parchi, giardini, laghetti e bastioni, un luogo ameno».
Sapeva bene che per diffondere il proprio insegnamento doveva contare non solo
sul suo seguito di monaci e monache, ma anche su uomini come il rājan Pasenadi
del Kosala, dunque doveva evitare di esporsi a situazioni pericolose e
riflettere molto bene ogni volta che si relazionava in pubblico, soprattutto
con i potenti.
Indipendentemente
dall’ adesione o meno al suoi insegnamenti, il Buddha rimane senz’ altro come
un personaggio molto affascinante. Intervenne in una grande rivoluzione
religiosa allora in corso, affrontò complotti e guerre, visse il massacro della
sua gente, fu denunciato davanti a un governo e contestato come guida da alcuni
dei suoi monaci, visse il dramma dell’ assassinio di uno dei suoi discepoli più
cari e, infine, morì avvelenato: eppure, fatto sorprendente che un devoto
indica comprensibilmente come degno di un Risvegliato, preservò sempre la pace
interiore, senza sconfortarsi, mostrando sempre al mondo come liberarsi dal
dolore e giungere alla buddhità e consigliando di perseverare nella pratica
fino alla dimostrazione di che ciò che si fa è giusto, credendo solo di fronte
ai risultati. Attualmente, i buddhisti in India sono una netta minoranza, per lo
più appartenenti ai Paesi asiatici ove il Buddhismo si è imposto e stabilitisi
essenzialmente nei luoghi di culto sorti nei pressi dei luoghi principali della
vita del Buddha. La legge indiana dichiara il diritto alla libertà di religione
come uno dei più importanti dell’ essere umano, non riconosce alcuna religione
ufficiale di Stato e neppure il sistema delle caste. Le cose in realtà sono
molto più complicate: l’ Induismo è tuttora la religione maggioritaria, seguita
dall’ Islam, dal Cristianesimo, dal Sikhismo, dal Buddhismo e dal Giainismo, e
accanto alla libertà religiosa garantita dalla Costituzione vi sono leggi
adottate dal Bharatiya janata party, partito conservatore con venature razziste
e fondamentaliste, fondato sull’ idea che gli indiani sono induisti e i non
induisti non sono veri indiani. Il sistema delle caste è ancora una realtà, in
particolare nelle zone rurali del Paese, pertanto le conversioni all’ Induismo
sono facilitate e osannate mentre le leggi ferreamente proibiscono il passaggio
dall’ Induismo ad altra religione: il sottofondo reale di tali normative, anche
se non sempre dichiarato, si basa sul fatto che i musulmani e i cristiani sono
la maggioranza in varie zone dell’ India, dunque è giusto che il Paese appartenga
agli induisti, con le loro millenarie tradizioni locali. In quest’ ottica, i
non induisti, pur essendo indiani al cento percento, sarebbero cittadini meno
importanti. I propositi riformatori di Siddhattha Gotama/il Buddha Śākyamuni
paiono pertanto frustrati da una società chiusa basata su valori intransigenti,
poco o per niente interessata al bene comune dei suoi figli, oggi più di un
miliardo e trecento milioni…
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