«Apri le braccia
al cambiamento, ma non lasciar andare i tuoi valori.» XIV Dalai Lama;
Il XIV Dalai Lama; |
Tra
le guide spirituali mondiali dei nostri giorni, il Dalai Lama occupa a buon
diritto un posto di rilievo. Anche in Occidente risulta una delle figure più
note, suggestive e rispettate. Appena cinquant’ anni fa, negli Anni Sessanta,
all’ indomani della sua fuga in India dal natio Tibet, veniva generalmente
indicato come uno strano giovane mistico proveniente da un lontano e misterioso
Paese di monti colossali e monaci dagli abiti e copricapi variopinti, dediti a
un’ oscura spiritualità animata da spiriti protettori e demoni sui quali
troneggiava il sereno e sorridente Buddha. Oggi, invece, soprattutto in seguito
alla consegna del Premio Nobel per la pace nel 1989, quest’ uomo dalla tonaca
rossa e gialla e il costante e radioso sorriso rientra a pieno titolo tra gli
uomini più influenti e stimati al mondo. Nessun Dalai Lama prima di lui ha mai
riscosso una simile notorietà all’ estero, altrettanto consenso accompagnato
talvolta da giudizi ostili. Con tanta allegria e un pizzico di ironia, lui
stesso afferma di essere visto in modi assai differenti da persone assai differenti:
secondo i buddhisti tantrici è la reincarnazione di Avalokiteshvara, il Bodhisattva
della Compassione, mentre i tibetani lo considerano il loro quattordicesimo re
divino e il governo cinese lo ritiene un monarca feudale dal quale ha generosamente
liberato il Tibet. Per il resto del mondo corrisponde al Premio Nobel per la
pace, erede del Mahatma Gandhi, che venera fin dalla più tenera età. Da parte
sua, questo particolare individuo, diviso tra il suo ruolo di uomo, mistico e
religioso, ama definire sé stesso «un semplice essere umano, incidentalmente
tibetano, che ha scelto di essere un monaco buddhista». A dispetto della sua
sincera umiltà occorre notare che l’ Occidente ha imparato a conoscerlo e
apprezzarlo come simbolo di un cammino non violento teso a una duplice liberazione,
politica per il Tibet, e spirituale per ogni essere vivente.
Il Dalai Lama in gioventù; |
La
figura del Dalai Lama, appartenente alla scuola Gelug, i Cappelli Gialli, ha
un’ origine piuttosto antica, risalente al 1578, quando il condottiero mongolo Altan
Khan strinse uno stretto legame spirituale con il monaco tibetano Sonam Gyatso,
a cui attribuì per la prima volta il titolo, derivante dal mongolo dalai, ossia «oceano», e dal tibetano lama, ovvero «maestro spirituale»,
tradizionalmente tradotto come «Oceano di Saggezza». In quanto lama
reincarnato, Sonam Gyatso attribuì l’ appellativo alle proprie precedenti
incarnazioni, divenendo in tal modo il III Dalai Lama, e da allora il metodo di
successione di tale istituzione si basa sulla reincarnazione.
Fino
al 1959 dimorante nell’ immenso e maestoso palazzo del Potala, in cima a un
colle della capitale, la città santa di Lhasa, il Dalai Lama divenne presto la
massima autorità spirituale del Buddhismo tibetano e il sovrano assoluto del
Tibet, caposaldo e simbolo della civiltà tibetana. Il suo popolo si riferisce a
lui come Kyabgon, «Salvatore», o Yeshe Norbu, «Gemma che realizza i
desideri», e gli si rivolge usando il termine Kundun, «Presenza». A dispetto dell’ assoluta venerazione di cui
gode, occorre precisare che non è il capo della scuola Gelug, che attribuisce
la propria guida ufficiale al Ganden Tripa, il «Detentore del Trono di Ganden»,
un lama scelto tramite elezione dagli abati dei più autorevoli monasteri e che
in genere rimane in carica per tre anni.
Il Dalai Lama e il Pandit Nehru, Primo ministro indiano; |
L’
attuale Dalai Lama, il quattordicesimo, nacque nel 1935 a Taktser, un piccolo
villaggio nelle regioni nordorientali, presso il confine cinese, in una
famiglia di contadini, e all’ età di due anni fu visitato ed esaminato da una
delegazione di alti lama e monaci alla ricerca della reincarnazione del XIII
Dalai Lama, morto nel 1933, e che riconobbe in lui il nuovo Salvatore. Il
piccolo Lhamo Dondrub, come si chiamava, ossia «Dea che esaudisce i desideri», fu
pertanto portato nel 1940 a Lhasa, ove fu proclamato XIV Dalai Lama e
consacrato come monaco novizio, venendo peraltro ribattezzato Jetsun Jamphel
Ngawang Lobsang Yeshe Tenzin Gyatso, ovvero «Sacro Signore, Gloria gentile,
Compassionevole, Difensore della fede». Mentre alla sua famiglia veniva
concesso un titolo nobiliare con tanto di una sostanziosa proprietà fondiaria,
in tono con le antiche tradizioni riguardanti i lama reincarnati, il nuovo
Oceano di Saggezza iniziò il duro percorso religioso sotto le più eminenti
guide spirituali del tempo, particolarmente severe ed esigenti nei suoi
riguardi in quanto Dalai Lama.
Mentre
il Prescelto si divideva tra i giochi e gli studi, rigorosamente isolato dal
resto del mondo nelle mille stanze della reggia e del monastero entro il Potala,
il Tibet subiva gli effetti nocivi di una serie di governi retti da Reggenti
ambiziosi e corrotti che, inavvertitamente, esposero sempre più il Regno delle
Montagne all’ interesse della Cina, che da secoli faceva di tutto per
annetterlo al proprio territorio sostenendo che ne fosse una parte integrante. Il
Dalai Lama studiò con costante diligenza, dando ripetutamente prova di grande
intelligenza e capacità e denotando notevoli abilità nel dibattito, peraltro maturando
un certo interesse per l’ Occidente e la modernità stimolati dai suoi frequenti
incontri con l’ alpinista austriaco Heinrich Harrer, che divenne suo buon amico
e insegnante di inglese. Nel 1959, ormai ventiquattrenne, sostenne gli esami
preliminari a Drepung, Sera e Ganden, le maggiori università monastiche
tibetane, conseguendo con onore al termine del grande esame al Tempio di
Jokhang, a Lhasa, il titolo di Ghesce Lharampa, equivalente a un dottorato in
filosofia buddhista. Ma molto presto la situazione precipitò assai
drammaticamente: tra il 1949 e il 1959 la Repubblica Popolare Cinese aveva
infatti invaso gradualmente il Paese delle Nevi, sostenendo pubblicamente che
oltre ad esserle sempre appartenuto desiderava sottrarlo all’ imperialismo
angloamericano, colpevole di aver sostenuto il dominio feudale del Dalai Lama, che
da parte sua sostenne fin dall’ inizio una politica conciliante, comprendente perfino
un Tibet all’ interno della Cina purché dotato di autonomia, ma senza successo.
Con l’ inasprimento delle brutalità da parte dei cinesi in territorio tibetano,
tra il 1954 e il 1956 visitò con i maggiori lama al suo seguito e i ministri
del suo governo la Cina, incontrandosi più volte con il Presidente Mao, ma i
tentativi di pacificazione non diedero alcun risultato. Nel 1959, infine, a
seguito di una grande sollevazione popolare motivata dal timore che il presidio
cinese volesse rapirlo e portarlo in Cina, o persino assassinarlo, fuggì in
India, seguito da migliaia di tibetani di ogni ceto sociale ed età, dai più
influenti e ricchi aristocratici ai più umili sudditi, ove ottenne la
protezione del governo di Nuova Delhi. Da allora vive a Dharamsala, con lo
stato di rifugiato politico, riconosciuto soltanto come guida spirituale e non
più come capo di Stato. Si prodiga costantemente e di persona a vantaggio degli
esuli tibetani che tuttora ogni anno sfuggono in massa alle persecuzioni in
patria, facendo del proprio meglio nella preservazione delle millenarie
tradizioni sociali e religiose della sua gente, dando insegnamenti religiosi e
promuovendo la causa politica del Tibet all’ estero. La propaganda cinese lo
descrive accanitamente come un traditore, un secessionista ostile alla nobile
causa comunista e desideroso di riappropriarsi degli antichi e dispotici
privilegi feudali.
Le
numerose e costanti avversità non hanno mai minimamente scalfito la sua
attitudine diplomatica e conciliante, il suo ottimismo e la sua pratica dell’
insegnamento del Buddha. Parla spesso in favore del popolo cinese,
sottolineando l’ inutilità della tendenza autoritaria del regime comunista non
solo in Tibet ma in tutta la Cina, e condannando ogni soluzione che comprenda
l’ impiego della violenza. Dal 1967 viaggia costantemente per il mondo: nell’
autunno del 1991, per esempio, visitò gli Stati baltici su invito del Presidente
della Lituania, divenendo il primo capo straniero a rivolgersi al Parlamento
lituano. Nel 1973, in Vaticano, incontrò papa Paolo VI, e alla conferenza
stampa di Roma nel 1980 espresse la speranza di incontrare papa Giovanni Paolo
II:
«Viviamo
in un periodo di grande crisi e di problematici sviluppi mondiali. Non è possibile
trovare la pace nell’ anima senza la sicurezza e l’ armonia tra le persone. Per
questa ragione aspetto con fede e speranza l’ incontro con il Santo Padre: per
uno scambio d’ idee e sentimenti e per i suoi consigli, così da poter aprire la
porta a una progressiva pacificazione tra gli individui.». L’ Oceano di
Saggezza e il Vescovo di Roma si incontrarono più e più volte, soprattutto nel
1980, 1982, 1986, 1988 e 1990, divenendo sinceri amici uniti dalle analoghe
esperienze con il comunismo, che tanto scompiglio aveva creato nei rispettivi Paesi
di provenienza. Il Dalai Lama stabilì peraltro duraturi rapporti amichevoli con
l’ Arcivescovo di Canterbury e altri capi della Chiesa anglicana, oltre che con
le guide delle comunità cattoliche ed ebraiche, affermando in un evento
interreligioso tenutosi in suo onore al World Congress of Faith:
«Credo
che sia sempre assai preferibile che esista una varietà di religioni e
filosofie in luogo di una singola religione o filosofia. Tutto ciò è necessario
a causa delle differenti predisposizioni mentali di ogni singolo essere umano.
Ogni religione prevede proprie idee e tecniche, il cui apprendimento non può che
arricchire la fede di ognuno.».
Nella
sua lunga vita di monaco e guida spirituale e politica non si è mai minimamente
allontanato dai principi buddhisti fondamentali a cui è stato educato,
denunciando con fermezza costante la decennale repressione cinese in terra tibetana
senza però mai incitare il suo popolo o i Paesi del mondo ad adottare un
atteggiamento ostile contro la Cina, pertanto la decisione della Commissione
norvegese del Nobel di assegnargli il Premio della Pace nel 1989 riscosse lodi
e plausi in tutto il mondo, fuorché in territorio cinese. Così recitava la
motivazione della Commissione:
«La
Commissione intende enfatizzare il fatto che il Dalai Lama, nella sua lotta per
la liberazione del Tibet, si sia coerentemente opposto all’ uso della violenza.
Ha invece propugnato soluzioni pacifiche basate sulla tolleranza e sul rispetto
reciproco, in modo da preservare l’ eredità storica e culturale della sua
gente.». Il 10 dicembre 1989, accettando il prestigioso riconoscimento a nome
di tutti gli oppressi e di tutti coloro che si battono per la libertà e
lavorano per la pace nel mondo e i tibetani, affermò:
«Il
Premio ribadisce la nostra convinzione che il Tibet sarà liberato usando come
proprie armi la verità, il coraggio e la determinazione. La nostra battaglia
deve rimanere non violenta e libera da ogni odio.».
Il Dalai Lama e papa Giovanni Paolo II; |
Ora che Sua Santità il Dalai Lama ha superato gli ottant’ anni,
inevitabilmente si è aperta la questione della sua successione. Dal 2011,
quando si dimise da capo politico, la sua posizione è chiara e netta: spetta al
popolo tibetano decidere se mantenere il suo lignaggio di reincarnazione o
meno, e nel caso di un parere favorevole si limiterà a reincarnarsi per
esercitare la sola guida religiosa, magari anche in forma femminile, lasciando
le funzioni politiche al governo e al parlamento tibetani in esilio, mentre in
caso contrario sceglierà di non reincarnarsi più. A dispetto del carattere tipicamente
tibetano dell’ istituzione che incarna, però, il governo di Pechino ha deciso
di assumersi personalmente il diritto di nominare le future incarnazioni. Nel
1995, ad esempio, gli agenti cinesi rapirono la reincarnazione del X Panchen
Lama, la seconda autorità religiosa del Tibet, soggetta solo al Dalai Lama, con
cui aveva stretti legami spirituali, al punto che uno ricercava la
reincarnazione dell’ altro, fungendo successivamente da maestro. Dopo la
sparizione del candidato riconosciuto dall’ Oceano di Saggezza, un bambino di
appena sei anni di cui si fece abilmente perdere ogni traccia, Pechino impose
un proprio candidato, un bambino cinese di cinque anni figlio di influenti
esponenti del Partito comunista, affermando che tutti gli alti monaci tibetani
dovranno essere nominati dal governo cinese, i quali dovranno designare ed investire
ufficialmente il XV Dalai Lama sotto la supervisione del Panchen Lama gradito alla
madrepatria socialista: poiché il Tibet è sempre stato cinese, la nomina del
Dalai Lama è sempre dipesa dal governo cinese. In risposta, il rappresentante
del Dalai Lama in Europa fece sapere che tali elezioni saranno del tutto prive
di valore:
«Non si possono imporre imam o vescovi alle altre religioni. La
decisione di nominare lama e monaci spetta ai tibetani. I cinesi possono usare
la loro forza politica, ma le loro decisioni saranno comunque senza valore.
Così è stato per l’ usurpatore del Panchen Lama, così sarà per ogni carica non
eletta dai tibetani.».
Da parte sua, il Dalai Lama rispose con un sorriso accompagnato
dalla sua proverbiale ironia:
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