venerdì 21 dicembre 2018

Papa Francesco, il Santo Padre scelto per riparare l’ immagine pubblica della Chiesa cattolica

Papa Francesco, il cui personaggio simboleggia la bontà;


«La Chiesa Romana non ha mai errato, né, secondo la testimonianza delle Scritture, mai errerà per l’ eternità.» papa Gregorio VII;

Secondo il mito evangelico, così come riferito nel testo di Matteo, Gesù si trovava nei pressi di Cesarea di Filippo quando domandò ai suoi discepoli chi pensassero che lui fosse. San Pietro rispose spontaneamente di reputarlo il Cristo, il Figlio del Dio vivente. Il Maestro, di conseguenza, gli replicò: «Tu sei beato, o Simone, figlio di Giona, perché né la carne né il sangue ti hanno rivelato questo, ma il Padre mio che è nei cieli. Ed io altresì ti dico che tu sei Pietro, e sopra questa roccia io edificherò la mia chiesa e le porte dell’ inferno non la potranno vincere. Ed io ti darò le chiavi del regno dei cieli: tutto ciò che avrai legato sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che avrai sciolto sulla terra sarà sciolto nei cieli.».
San Pietro viene quindi riconosciuto dalla Chiesa cattolica come suo primo papa, termine derivante dal greco pàppas, ossia «padre», adottato a partire dal III secolo e indicante una particolare autorità che nel tempo divenne vescovo della comunità cristiana di Roma, fondata da San Paolo e poi retta dallo stesso San Pietro. A partire dal 376, quando l’ imperatore Graziano, convinto cristiano, rinunciò alla carica di pontefice massimo, che lo rendeva capo del collegio dei sacerdoti, i pontefici, che sorvegliavano e guidavano il culto religioso, questa divenne il titolo del vescovo di Roma, tuttora chiamato «romano pontefice», o «sommo pontefice». Dopo la caduta dell’ Impero d’ Occidente, il papa divenne la guida politica dello Stato Pontificio, nuova nazione sovrana che si estendeva nell’ Italia centrale, dotata di una popolazione e un ordinamento giuridico formato da istituzioni e leggi proprie, che esercitò il potere temporale per oltre un millennio, dal 756 al 1870, durante il pontificato di Pio IX, quando con la presa di Roma durante il Risorgimento Casa Savoia ne fece la capitale del nascente Regno d’ Italia. Nonostante la perdita della sovranità temporale su Roma e i territori pontifici in favore dell’ Italia riunificata per la prima volta dal 476, la figura del papa rimase particolarmente influente nel panorama sia religioso che politico dell’ Occidente cristiano, soprattutto in Europa, benché attualmente regni sul più piccolo Stato sovrano al mondo sia per popolazione che per estensione territoriale, la Città del Vaticano, in cui vige un regime di monarchia assoluta teocratica, ierocratica ed elettiva, nato ufficialmente l’ 11 febbraio 1929 a seguito della firma dei Patti Lateranensi tra il Primo ministro Benito Mussolini e il cardinale Pietro Gasparri, rappresentanti del Regno d’ Italia e della Santa Sede.
La Basilica di San Pietro vista dal Tevere;

Benché sia uno Staterello particolarmente ridotto, incapace di sostenere una guerra per insufficienza di mezzi militari, il Vaticano può contare su di un potere immenso derivante dall’ autorità del Santo Padre, visto da milioni fedeli educati ai principi cattolici e sparsi in tutta Europa, nonché nelle Americhe, in Africa e in Oceania, come la propria guida morale: le sue affermazioni, specialmente quelle improntate su temi di grande importanza sociale quali separazione e divorzio, fecondazione assistita, aborto e adozioni, unioni omosessuali, razzismo e accoglienza di profughi e migranti, ottengono sempre una grande sonorità e non di rado influiscono enormemente sui vari processi di riforma in corso in più Paesi. Curiosamente, però, il più delle volte questa particolare autorità politica, talmente elevata da rendere il sommo pontefice uno dei dieci uomini più potenti al mondo e ovviamente soggetta a sottili alchimie strategiche e materiali, viene scarsamente valutata o addirittura completamente ignorata in favore di quella spirituale, ragion per cui tutto quello che fa e dice viene accolto come assolutamente buono e meraviglioso: come con forza sostenuto da Gregorio VII, il papa è l’ uomo più santo al mondo per i meriti di San Pietro, il solo a cui tutti i potenti debbano baciare i piedi.
Benedetto XVI mentre annuncia il proprio ritiro;

L’ 11 febbraio 2013, Benedetto XVI, duecentosessantacinquesimo papa della Chiesa cattolica e settimo sovrano dello Stato della Città del Vaticano, stupì il mondo intero annunciando la rinuncia al ministero petrino, l’ atto raramente invocato di cessazione di un papa dal proprio ufficio per dimissioni volontarie, disponendone l’ entrata in vigore dal successivo 28 febbraio, permettendo la convocazione di un conclave per l’ elezione di un successore. Espresse personalmente l’ intento in latino durante il concistoro per la canonizzazione dei martiri di Otranto e altri tre beati, seguendo i dettami stabiliti dal diritto canonico, secondo il quale la rinuncia va fatta liberamente e debitamente manifestata: «Dopo aver ripetutamente esaminato la mia coscienza davanti a Dio, sono pervenuto alla certezza che le mie forze, per l’ età avanzata, non sono più adatte per esercitare in modo adeguato il ministero petrino. Per questo, ben consapevole della gravità di questo atto, con piena libertà, dichiaro di rinunciare al ministero di Vescovo di Roma, Successore di San Pietro, a me affidato per mano dei cardinali il 19 aprile 2005.». Ritiratosi con il titolo di «papa emerito», divenne l’ ottavo pontefice rinunciatario della storia della Chiesa cattolica, dopo Clemente I, Ponziano, Silverio, Benedetto IX, Gregorio VI, Celestino V e Gregorio XII.
L’ abbandono del Soglio di Pietro da parte del pontefice tedesco, allora ottantacinquenne, venne giustificato ufficialmente da ragioni di anzianità e salute: egli non si sentiva più in grado di reggere il pesante fardello della responsabilità di guida della cristianità, sentendosi ormai un papa debole e privo di valore. Tuttavia, per mezzo di quanto emerso in occasione sia dello scandalo Vatileaks, legato alla fuga di informazioni riservate dalla corte pontificia, che di una vasta serie di rivelazioni più autonome, si può tuttavia affermare con una certa sicurezza che la situazione fosse molto più complicata di quanto il papato avesse lasciato opportunamente intendere: la Chiesa era caduta da lungo tempo in un oscuro e profondo abisso animato da scontri intestini tra fazioni cardinalizie per il potere, sottrazioni massicce di documenti segreti, corruzione, finanze occulte e riciclaggio di denaro. Il cuore della cristianità pareva drammaticamente ridotto ad un inquietante nido di vipere, un labirinto di immoralità particolarmente lontano dal Cielo ma vicino ai peccati terreni, privo di limiti, entro il quale si fomentavano intrighi e tradimenti atti a conservare prerogative e privilegi molto antichi e vantaggiosi.
Il Vaticano era uno degli Stati più opachi al mondo, quasi impossibile da modernizzare o risanare, e le notizie trasmesse a più riprese parlavano chiaro: la corte del vicario di Cristo era profondamente divisa su come gestire lo IOR, la banca vaticana, e lo scandalo si addensò attorno alla figura del cardinale Tarcisio Bertone, Segretario di Stato vaticano e presidente della commissione cardinalizia di vigilanza dello IOR, che venne indagato dalle autorità vaticane per aver autorizzato a sottoscrivere obbligazioni della società cinematografica Lux Vide, diretta dall’ amico Ettore Bernabei, per un totale di quindici milioni di euro, causando una perdita corrispondente nel bilancio dello IOR. Altre divulgazioni fecero scoprire i dettagli di svariate lotte di potere all’ interno del Vaticano, con la formazione di veri e propri potentati cardinalizi la cui forza trascendeva l’ autorità del papa, e alcune irregolarità nella gestione finanziaria dello Stato e nell’ applicazione delle normative antiriciclaggio, tanto che nel marzo 2012 il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti aggiunse per la prima volta il Vaticano alla lista di Paesi monitorati perché possibili centri di riciclaggio di denaro illecito. Tra i gli elementi che più suscitarono sorpresa vi furono i dettagli relativi ad un presunto piano omicida nei confronti di Benedetto XVI, da compiersi entro un anno in favore dell’ ascesa al papato del cardinale Angelo Scola. Successivamente, nel maggio 2012, la gendarmeria vaticana arrestò un uomo in possesso di carteggi riservati del pontefice: si trattava di Paolo Gabriele, dal 2006 Aiutante di camera di Sua Santità, una delle persone più vicine a Benedetto. Il suo arresto per furto aggravato, il primo in assoluto compiuto dalla gendarmeria vaticana, avvenne il giorno stesso dell’ allontanamento di Ettore Gotti Tedeschi dalla presidenza dello IOR. Gli inquisitori sollevarono ben presto seri dubbi in merito al fatto che Gabriele avesse agito da solo, ritenendolo piuttosto un «corvo», termine ripreso dalla «stagione dei veleni» di Palermo che aveva nel mirino il magistrato Giovanni Falcone, e affermando che le persone coinvolte fossero in tutto una ventina.
Il Conclave, l’ assemblea atta a scegliere il nuovo pontefice;

L’ anzianità e la salute in costante indebolimento di Benedetto XVI furono pertanto una scusa credibile dietro la quale nascondere un clima di divisione e ingiustizia che stava compromettendo sempre di più la Chiesa, che il Successore del principe degli apostoli non era più in grado di guidare adeguatamente, essendo circondato da dignitari politici e religiosi avidi e litigiosi, ambiziosi e disonesti, che non rispondevano alle sue disposizioni. Come confermato da determinate fonti legate ad ambienti a lui vicini, la sua decisione di rinunciare al ministero petrino non fu improvvisa, ma il frutto di attente considerazioni rese gradualmente note nel tempo ai suoi stretti collaboratori, e che solo alla fine vennero confermate e tradotte in pratica. Peraltro, il papato era cosciente che la propria immagine pubblica fosse ormai profondamente compromessa, aggravando una crisi delle fedi già in atto: il cattolicesimo non si era mai trovato in una condizione peggiore, in quanto non solo i giovani ma anche le persone anziane stavano perdendo la fede nella religione organizzata, sia per ragioni dottrinarie che per il cattivo esempio di prelati coinvolti in faccende poco limpide. Entro le mura vaticane, alle autorità governative e alle guide spirituali era ormai chiaro che occorreva un Santo Padre più forte, un uomo carismatico che recuperasse il consenso perduto, qualcuno che fungesse da simbolo dietro cui schierarsi e che attuasse le riforme necessarie a guidare la Chiesa oltre la bufera in cui si era addentrata. Benedetto XVI manifestò pertanto il desiderio di ritirarsi pur continuando a risiedere nella Città del Vaticano, nel monastero Mater Ecclesiae, dedicandosi alla preghiera e alla liturgia, ma mentre alcuni sostengono che prese questa decisione concordemente con le più alte autorità vaticane, molti altri affermano che avrebbe subito forti pressioni da parte di alcuni esponenti dei potentati in cui la corte vaticana si era frazionata, ansiosi di dare il via ad una nuova era per la Chiesa cattolica.
Il saluto del nuovo papa, Francesco;

Fu a questo punto che entrò in scena il cardinale Jorge Mario Bergoglio, arcivescovo di Buenos Aires, che già nel conclave del 2005 era stato uno dei candidati più in vista per la successione a Giovanni Paolo II, e che alla fine era risultato il più votato dopo Joseph Ratzinger. L’ ascesa del cardinale argentino, figlio di migrati italiani, fu prontamente salutata con entusiasmo da tutto il mondo, e una forte ventata di ottimismo prese a soffiare in Vaticano e dintorni, incoraggiata dallo stile molto informale e simpatico dello stesso personaggio, che non a caso assunse un nome dalla profonda valenza simbolica, ossia Francesco, in onore al celebre santo di Assisi. La sera del 13 marzo 2013, la stessa della sua elezione, il nuovo pontefice si affacciò alla loggia: «Fratelli e sorelle, buonasera! Voi sapete che il dovere del conclave era di dare un vescovo a Roma. Sembra che i miei fratelli cardinali siano andati a prenderlo quasi alla fine del mondo, ma siamo qui. Vi ringrazio dell’ accoglienza. La comunità diocesana di Roma ha il suo vescovo: grazie! E prima di tutto, vorrei fare una preghiera per il nostro vescovo emerito, Benedetto XVI. Preghiamo tutti insieme per lui, perché il Signore lo benedica e la Madonna lo custodisca. E adesso, incominciamo questo cammino: Vescovo e popolo. Questo cammino della Chiesa di Roma, che è quella che presiede nella carità tutte le Chiese. Un cammino di fratellanza, di amore, di fiducia tra noi. E adesso vorrei dare la Benedizione, ma prima vi chiedo un favore: prima che il vescovo benedica il popolo, vi chiedo che voi preghiate il Signore perché mi benedica: la preghiera del popolo, chiedendo la Benedizione per il suo Vescovo. Facciamo in silenzio questa preghiera di voi su di me.».
Il meccanismo delle pubbliche relazioni, atto a riparare l’ immagine pubblica della Chiesa cattolica, si era efficacemente messo in movimento, e i mezzi di comunicazione di massa diedero ampiamente risalto a questo nuovo notabile, così umile, aperto, gioioso e spontaneo, che si comportava chiaramente come una persona qualunque, analogamente ad un parroco di paese o ad un vicino di casa.
Un Santo Padre informale e vicino alla gente;

La sua elezione fu una vera rivoluzione per il papato, essendo il primo latinoamericano, nonché il primo dopo cinquecentonovantotto anni a succedere ad un papa rinunciatario e quindi ancora vivo e, soprattutto, il primo appartenente all’ ordine dei gesuiti, la celebre Compagnia di Gesù, congregazione fondata nel 1540, in pieno scisma protestante, attualmente tra le più importanti di tutta la Chiesa e tra quelle con la storia più ricca. Dotati di una forte impronta militaresca lasciata dal fondatore, Ignazio di Loyola, in passato i gesuiti esplorarono nuovi mondi, combatterono guerre e organizzarono complotti, venendo soppressi e poi rifondati, ed ergendosi a guardie dei papi più intransigenti ed avanguardie del progressismo. Già prima dello scisma di Lutero, all’ interno della Chiesa di Roma si erano sviluppate molte correnti che chiedevano una riforma e un ritorno a un maggiore distacco dalle faccende temporali, e i gesuiti si distinsero come il gruppo più radicale, divenendo una delle fazioni più importanti, in grado di esercitare la propria influenza dall’ Europa all’ Estremo oriente, e in seguito anche sul continente americano. L’ istruzione era un requisito fondamentale per loro, sia nella preparazione dei singoli aderenti, che dovevano essere esperti di teologia e diritto canonico ma spesso erano anche linguisti, storici e scienziati, che come strumento per diffondere il cattolicesimo. La loro fedeltà andava direttamente al Santo Padre, cosa che spesso li portò a scavalcare vescovi e cardinali, mentre il loro Superiore Generale, il capo dell’ ordine, per secoli fu ritenuto il capo occulto della Chiesa, che muoveva il pontefice come un burattino e per questo era chiamato il «Papa Nero». Per questo motivo i gesuiti furono spesso oggetto di svariati pregiudizi: fanatici e devoti al papa e al loro Superiore Generale, consiglieri dei potenti da dietro le quinte e manipolatori di fanciulli. Prima che esistesse la massoneria, il complottismo vedeva la mano dei gesuiti dietro le epidemie, le carestie e le morti sospette che colpivano i nemici della Chiesa cattolica. Nell’ Inghilterra di Shakespeare e di Elisabetta I, quella dei gesuiti era una vera e propria paranoia. Anche nella loro attività missionaria i gesuiti si portarono spesso dietro l’ accusa di essere troppo vicini ai potenti.
Quello che non tutti sanno è che al momento di prendere i voti un gesuita accetta la regola che vieta di diventare vescovo, quindi cardinale e infine papa, ma a Bergoglio fu concessa una dispensa in quanto l’ arcivescovo di Buenos Aires, Antonio Quarracino, nel 1992 domandò al Vaticano di avere proprio lui come vescovo ausiliare.
Il papa con alcuni migranti;

All’ indomani della sua intronizzazione, il 19 marzo 2013, a sei giorni dall’ elezione, il nuovo pontefice, costantemente al centro di una colossale celebrazione mediatica sconosciuta ai suoi predecessori, venne soprannominato «Papa rivoluzionario», particolare appellativo destinato a saldarsi con lui come «Flagello di Dio» con Attila, «Magnifico» con Solimano o «Re Sole» con Luigi XIV. Il termine venne da subito confermato con tanta insistenza da far facilmente intuire una vera e propria campagna debitamente orchestrata: qualunque cosa Francesco facesse o dicesse era rivoluzionaria. Non fu mai definito riformista o progressista.
Ad una attenta analisi si può intuire quanto la campagna fosse predisposta e studiata nel dettaglio ormai da tempo, perché fin dal primo giorno, ancor prima di avere il tempo di esprimersi su qualcosa in particolare, Bergoglio fu indicato come il papa della rivoluzione, soprattutto per la semplicità dei suoi gesti: salutare dicendo buonasera, portare la croce in argento anziché in oro, comprare personalmente le scarpe ortopediche, andare dall’ ottico a farsi riparare gli occhiali, risiedere alla Domus Sanctae Marthae anziché nei tradizionali Palazzi Apostolici, avvicinarsi costantemente alla gente per stringere mani e rivolgersi direttamente ai fedeli, compiere la lavanda dei piedi in occasione del Giovedì Santo, aprire le porte agli omosessuali e ai divorziati, in particolare circa la concessione della comunione ai divorziati risposati civilmente o conviventi, e persino battezzare personalmente i bambini in determinate occasioni. Tutto ciò catturò inevitabilmente l’ attenzione e il consenso del pubblico, incantandolo e riempiendolo di entusiasmo all’ idea che, finalmente, il Soglio di Pietro fosse occupato da un vero santo che avrebbe rimesso le cose a posto. Francesco ha qualcosa che piace alla gente, uno stile profondamente diverso dai suoi predecessori che ha portato allegria e simpatia in un ambiente tradizionalmente severo, metodico e distaccato. Perfino il suo nome venne indicato come rivoluzionario: «Nell’ elezione, io avevo accanto a me l’ arcivescovo emerito di San Paolo e anche prefetto emerito della Congregazione per il clero, il cardinale Cláudio Hummes. Quando la cosa diveniva un po’ pericolosa, lui mi confortava. E quando i voti sono saliti a due terzi, viene l’ applauso consueto, perché è stato eletto il Papa. E lui mi abbracciò, mi baciò e mi disse: ‘Non dimenticarti dei poveri!’. E quella parola è entrata qui: i poveri, i poveri. Poi, subito, in relazione ai poveri ho pensato a Francesco d’ Assisi. Poi, ho pensato alle guerre, mentre lo scrutinio proseguiva, fino a tutti i voti. E Francesco è l’ uomo della pace. E così, è venuto il nome, nel mio cuore: Francesco d’ Assisi. E’ per me l’ uomo della povertà, l’ uomo della pace, l’ uomo che ama e custodisce il creato; in questo momento anche noi abbiamo con il creato una relazione non tanto buona, no? E’ l’ uomo che ci dà questo spirito di pace, l’ uomo povero...».
Nel frattempo, si espresse anche a parole, come nel viaggio di ritorno dal Brasile. Oltre ad essere ripreso mentre portava da solo la celebre borsa non di marca, che divenne oggetto di numerosi servizi e destinata a diventare un oggetto di culto, affermò: «Se una persona è gay e cerca il Signore e ha buona volontà, ma chi sono io per giudicarla?». Fu una riflessione assai amplificata dai giornalisti e salutata da autorevoli commentatori come una sfida al Sinodo sulla famiglia in programma per l’ anno successivo, che sebbene si sarebbe concluso senza rivoluzioni, ribadendo la dottrina tradizionale della Chiesa, non vietò al papa di promette profonde, dunque rivoluzionarie, riforme della curia: «Ah, come vorrei una Chiesa povera e per i poveri!».
Rito della lavanda dei piedi a Regina Coeli;

Negli ultimi tempi, tuttavia, le azioni sorprendenti e carismatiche che lanciarono il mito di Francesco quale riparatore di una Chiesa compromessa sono gradualmente diminuite. Oggi è infatti molto raro che sentir parlare di infrazioni al protocollo o di proposte rivoluzionarie. Anzi, spesso e volentieri conferma la dottrina cattolica convenzionale a proposito di famiglia, composta da genitori sposati e con figli, e di matrimoni eterosessuali, ed esprimendosi sia contro l’ aborto, che paragona all’ affitto di un sicario, che contro l’ omosessualità, che definisce un fenomeno da curare con la psichiatria. Nell’ aprile 2015, ad esempio, il Vaticano rifiutò la nomina da parte del governo francese del diplomatico Laurent Stefanini a nuovo ambasciatore presso la Santa Sede, in quanto omosessuale dichiarato. Il ruolo di ambasciatore francese restò conseguentemente vacante per un anno fino alla nomina di Philippe Zeller, eterosessuale.
Nel corso degli anni seguenti alla sua istituzione, la Pontificia commissione per la tutela dei minori, sorta per volere di Francesco allo scopo di rispondere pubblicamente ad un antico e spinoso scandalo legato agli abusi sessuali rimasti impuniti a carico di minorenni da parte di alcuni sacerdoti di ogni livello, uno dei più gravi crucci che segnò il pontificato di Benedetto XVI, è stata oggetto di una serie di defezioni dei propri membri, seguite da polemiche e critiche sull’ effettiva utilità della stessa. Il 6 febbraio 2016, ad esempio si dimise Peter Saunders, attivista britannico nella lotta contro la pedofilia e lui stesso vittima di abusi da bambino, che criticò l’ impotenza della Commissione nei confronti del cardinale George Pell, ex arcivescovo di Sydney, che aveva protetto molti sacerdoti pedofili in Australia e non rispondeva alle richieste di comparizione dei tribunali australiani inviando certificati medici da Roma. Il 1 marzo 2017 si dimise anche l’ irlandese Marie Collins, molestata quando era tredicenne da un cappellano in ospedale, protestando contro la vanifica del lavoro della Commissione da parte degli stessi dicasteri vaticani, come ad esempio per la semplice proposta di dover rispondere alle lettere inviate alla Santa Sede dalle vittime di abusi oppure per la richiesta di istituire un tribunale per giudicare i vescovi negligenti nel perseguire questi crimini.
Il celebre e unico esorcismo attribuito a Francesco;

Se un calcolo va fatto, si può affermare con una certa sicurezza che la «rivoluzione di Francesco» tanto enfatizzata dai mezzi di comunicazione si sia ormai estinta, per quanto l’ attuale pontefice sia rimasto saldamente al suo posto essendo ormai una figura abituale e costante, forte della sua simpatia e singolarità, mentre l’ era di Benedetto XVI, con tutte le sue luci e le sue ombre, è stata definitivamente consegnata al passato, con il papa emerito che vive gli ultimi anni della sua vita in un tranquillo e silenzioso ritiro spirituale. Ora che il vicario di Cristo germanico, caratterialmente freddo e teologicamente schietto ed erudito, costituisce un ricordo sbiadito, non vi è più bisogno di confrontare con lui il suo successore, sull’ esempio del vecchio confronto tra sbirro buono e cattivo. Più che quella di rivoluzionare la Chiesa, l’ utilità di Francesco consiste nel sanare certe sue imperfezioni che ne minano la credibilità, come dimostrato dalla pulizia frettolosa nello IOR e dai regolamenti di conti interni nella curia romana, che hanno portato al rinnovo delle alte gerarchie politiche e spirituali, nonché nel riproporre sul fronte dottrinario i consueti dogmi incrollabili del cattolicesimo, con l’ accortezza di un linguaggio alla buona, invitante e a volte meno diretto, evitando le questioni più imbarazzanti, giocando le proprie carte migliori con battute espresse a margine di eventi o discorsi ufficiali, prontamente amplificate e su cui molto si gioca per mezzo di equivoci e commenti: spesso, infatti, ci si dimentica delle «contestualizzazioni» che subito il Vaticano si affretta abitualmente a precisare, come accaduto proprio per lo IOR, con la rassicurazione dell’ arcivescovo Angelo Becciu, sostituto alla Segreteria di Stato: «Il papa è rimasto sorpreso nel vedersi attribuite frasi che non ha mai pronunciato e che travisano il suo pensiero.». Allo stesso modo si smentirono anche le presunte aperture di Francesco per concedere la comunione ai divorziati risposati.
Autoscatto con il papa;

Al fine di individuarne un senso, gli eventi relativi all’ attuale capo della Chiesa vanno considerati prevalentemente in un contesto politico e pubblicitario, anziché spirituale. Si tratta infatti di un papa che, analogamente a Pio X e Giovanni XXIII, si mostra assai vicino al fedele: la sua venuta, per certi versi paragonabile a quella di Mary Poppins, discesa magicamente dal cielo al momento in cui vi era più bisogno di lei, le sue parole e i suoi gesti, in cui i più pii riposero grandissime aspettative, la sua capacità di incantare e attrarre a sé le folle, costituiscono oltre ogni ragionevole dubbio un estremo vantaggio per i custodi della cristianità.
Benedetto XVI e Francesco;

Ma la tanto sospirata rivoluzione altro non rimane che un inganno, dal momento che in termini di dottrina, di visione della storia e della politica Francesco conferma un approccio per nulla moderno, in quanto saldamente ancorato ai principi classici del cattolicesimo. Di nuovo vanta piuttosto il potere della costruzione dell’ immagine e il rapporto privilegiato con i mezzi di comunicazione. Analogamente ai suoi predecessori sarà a sua volta giudicato dai fatti, ma per ora si rimane alle prese con un personaggio dotato di potere assoluto negli ambiti in cui opera, appoggiato dai vari potentati cardinalizi interni da cui è stato chiamato a riformare il papato attuando soluzioni che possano andare bene per il maggior numero possibile di persone, consentendo alla Chiesa di restare a galla, con pochi scossoni. Si è di fronte ad un Santo Padre che nonostante le esigenze delle apparenze non deve fare i conti con un’ opposizione particolarmente agguerrita, in quanto le crisi e le necessità di farvi fronte sono solite a generare nuove e impensabili alleanze nel nome del bene comune. Proprio come sostiene il principio fondamentale del gattopardismo: «Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi.»…

venerdì 7 dicembre 2018

Quando il Natale veniva più decorosamente festeggiato in trincea

Una casa pronta per i festeggiamenti natalizi;


Pur essendo la seconda festività cristiana più importante dopo la Pasqua, il Natale è da sempre il giorno più sentito e atteso dai due miliardi e quattrocento milioni di cristiani attualmente sparsi in tutto il mondo. Per settimane, se non addirittura per mesi, soprattutto in Occidente ogni famiglia si prepara con cura e solennità a questa speciale ricorrenza, comprando abeti o sempreverdi, addobbi, cibi e infine doni, preparando i presepi e identificando gli abiti migliori con cui presentarsi. Le strade vengono gradualmente riempite di luci e immagini di Babbo Natale e, ovviamente, della Natività. Quella del Natale è un’ atmosfera generale e molto potente che cala su tutto, senza risparmiare apparentemente nessuno, nemmeno le famiglie meno praticanti, lontane dall’ ambiente parrocchiale, e in certi casi neppure i non credenti: tutti quanti a modo proprio subiscono il suo richiamo e si assicurano di fare qualcosa, per quanto minimo, concorrendo all’ atmosfera collettiva.
Corsa alle spese natalizie;

Si deve tuttavia riconoscere che il Natale di oggi non è più quello di una volta. Sempre più persone, infatti, si allontanano dal Cristianesimo perché non soddisfatte dai suoi princìpi fondamentali, mentre altre pur continuando ad aderire al suo credo mettono in dubbio la parola dei sacerdoti di qualsivoglia livello, dal parroco di provincia al Santo Padre assiso sul Soglio di Pietro. Vi sono cristiani che si sentono vicini a Dio e Gesù ogni giorno della propria vita senza alcun bisogno di recarsi in chiesa oppure di festeggiare una ricorrenza, mentre molti altri, forse la maggioranza, si definiscono «cristiani» semplicemente per convenzione, senza tuttavia esserlo veramente in quanto del tutto prive di fede, e si riducono a festeggiare il Natale soltanto per abitudine, per un puro riflesso automatico: lo si è sempre festeggiato e sempre lo si festeggerà, non importa il motivo che si trova alla base di questo particolare giorno, basta solo scambiarsi i doni, sedersi a tavola in compagnia di parenti e amici e mangiare e bere.
Il Natale, insomma, è stato ridotto ad una festa vuota, ad un pranzo collettivo dal movente che può tranquillamente essere ignorato, ad una gara a chi acquista meglio e di più. Si è tramutato in una giornata povera e insensata. Appena pochi decenni fa, invece, soprattutto durante gli Anni Ottanta e Novanta, le cose erano molto diverse: si andava in chiesa per la messa, e se ciò non era possibile ci si radunava a tavola recitando una preghiera con cui si tributava con semplicità ma con partecipazione e consapevolezza un pensiero al fatto del giorno, per poi dare giustamente inizio ai festeggiamenti. Erano entrambe forme più che valide di vivere propriamente il Natale, con spirito cosciente e gioioso, in cui l’ aspetto degli acquisti generali e della preparazione della festa materiale acquisivano uno scopo funzionale e di secondo piano, ossia quello della forma che racchiudeva una precisa sostanza, come un vaso che include la terra in cui far germogliare i fiori. Ma dal momento che oggi del Natale importa a ben poca gente ha davvero senso dedicare tanto tempo alla sua preparazione e buona parte della settimana in cui ricade visitando amici e parenti pronunciando il fatidico augurio? Serve veramente a qualcosa curare tanto finemente e vigorosamente il vaso se il fiore non è più considerato?
Natale a New York;

Una volta il Natale era profondamente sentito dai cristiani. Era vissuto come un giorno speciale, unico nel suo genere, in cui i credenti si sentivano più buoni trasmettendo all’ ambiente una speciale carica di positività ed ottimismo che, non soggetta a limitazioni, si propagava in ogni direzione nell’ ambiente come un profumo o un’ onda luminosa o sonora, peraltro tornando indietro al mittente apportando risultati amplificati in accordo alla purezza e all’ intensità con cui era stata generata. Non di rado allietava con effetti riequilibranti e risananti persino i pochi non credenti, oggi aumentati a dismisura. Era un giorno talmente particolare che durante i penosi anni della distruttiva Grande Guerra seppe compiere un vero e proprio miracolo: il giorno di Natale dell’ anno 1914 venne attuata una tregua durante la quale le trincee si rasserenarono vedendo il cessate il fuoco, e i soldati di entrambi gli schieramenti si raggiunsero fraternizzando e festeggiando insieme, peraltro scambiandosi doni e cibo.
Soldati britannici e tedeschi durante la Tregua di Natale, 1914;

Il 25 dicembre 1914, tedeschi e britannici uscirono dalle rispettive fosse trincerate per festeggiare insieme la festività. Si tende tuttora a credere che questa storia sia soltanto una bella e commovente favola di Natale, paragonabile ad un miracolo, e nei libri di storia quasi non viene menzionata, eppure il tema è stato ampiamente ripreso in romanzi e film, nonché in una canzone popolare di Mike Harding, intitolata «Christmas 1914», i cui versi recitano: «I fucili rimasero in silenzio […] senza disturbare la notte. Parlammo, cantammo, ridemmo […] e a Natale giocammo a calcio insieme, nel fango della terra di nessuno.». La partita a pallone ebbe veramente luogo, venendo giocata nei pressi della cittadina belga di Ypres, e si tenne entro la «terra di nessuno», lo spazio che divideva le trincee britanniche da quelle germaniche: fu il momento fondamentale di quella che sarebbe passata alla storia come «Tregua di Natale».
Nell’ estate 1914 l’ Europa era divenuta teatro di una guerra senza precedenti per dimensioni e combattimenti che vedeva opposti due grandi schieramenti: Gran Bretagna, Francia e Impero russo contro l’ Impero tedesco, quello austro-ungarico e infine quello ottomano. Più tardi sarebbero scesi in campo anche Bulgaria, Giappone, Italia, Stati Uniti e una serie di altri Paesi trasformando la contesa nella prima guerra su scala mondiale della storia. Inizialmente, il fronte più caldo fu proprio quello occidentale, tra Francia settentrionale e Belgio, ove britannici, francesi e belgi contrastarono l’ avanzata tedesca. Dopo una sanguinosa battaglia nei pressi di Ypres, a fine autunno gli eserciti si ritrovarono impantanati sia qui che in altri fronti in un’ estenuante guerra di logoramento combattuta soprattutto intorno ai trinceramenti. Da questi fossati profondi un paio di metri e rinforzati alla buona con tavole di legno, i soldati si lanciavano quotidianamente all’ assalto del nemico, guadagnando o cedendo ogni volta pochi metri di terreno e trascorrendo il resto della giornata tra fango, pioggia e cadaveri in decomposizione. Tali condizioni coinvolgevano tutti e il «mal comune» indusse presto a svariati episodi di solidarietà tra nemici, che si trovavano ad appena pochi passi di distanza gli uni dagli altri. I soldati di entrambi gli schieramenti cominciarono a scambiarsi favori, come ad esempio il non aprire il fuoco durante i pasti: quel che contava era salvare le apparenze agli occhi dei superiori, evitando l’ accusa di tradimento e quindi la fucilazione, e tornare a casa sani e salvi. Il compito di punire i soldati che si fossero mostrati troppo concilianti con i nemici spettava agli ufficiali dei vari comandi, i soli autorizzati a stabilire una tregua, principio che sia a Ypres che in altre zone del fronte sarebbe però stato infranto nel dicembre 1914.
Brindisi tra nemici;

Dopo aver dato ordine alle truppe di non interrompere per nessun motivo i combattimenti, i comandi britannico e tedesco fecero arrivare nelle prime linee alcuni piccoli pacchi dono natalizi contenenti dolci, liquori, tabacco, alberelli natalizi e candele. La sera della vigilia, a Ypres i tedeschi addobbarono le postazioni scambiandosi gli auguri e cantando vari motivetti natalizi. In una trincea qualcuno intonò la canzone «Stille nacht», la versione germanica della celebre «Silent night» britannica. Da quel momento, e per buona parte della serata, i soldati dei due eserciti non smisero di cantare, ognuno nella propria lingua e al riparo della propria postazione. Come testimoniò in seguito il soldato tedesco Kurt Zehmisch, nel libro «Silent night: the story of the World war I Christmas truce», firmato dallo storico statunitense Stanley Weintraub, che negli Anni Ottanta ricostruì la vicenda: «Quando addobbammo gli alberi e accendemmo le candele, dall’ altra parte giunsero fischi di gioia e applausi. Poi cantammo tutti quanti assieme.». Al momento di andare a dormire, un po’ tutti erano ormai convinti che qualcosa di straordinario stesse per verificarsi, e infatti all’ alba del giorno dopo i tedeschi esposero piccoli cartelli con le scritte «Buon Natale» e «Non sparate, noi non spariamo.». Era il segnale d’ inizio: ripresero i canti e gli applausi, poi dalla trincea tedesca uscì un uomo, che nella nebbia i britannici intravidero appena, quanto bastava per notare che era disarmato. Increduli, uscirono dai loro ripari e si incamminarono verso i tedeschi, che fecero altrettanto. Come scrisse il soldato britannico Dougan Carter in una lettera alla famiglia: «Ho visto la cosa più straordinaria che si possa vedere: stavamo per sparare a quel tedesco e poco dopo eravamo tutti in festa.».
La vita in trincea;

Dopo aver sepolto i cadaveri dei commilitoni uccisi nei combattimenti dei giorni precedenti, i due schieramenti fraternizzarono, organizzando una festa vera e propria. Come canta Mike Harding nella sua canzone: «Fritz portò sigari e brandy, Tommy della carne di manzo e sigarette.». Parole assolutamente veritiere, in quanto nel diario di campo del 133° Reggimento sassone si parla infatti di un tedesco di nome Fritz e anche di Tommy, un britannico che si mise a tagliar capelli ai nemici in cambio di qualche sigaretta. Nel frattempo, attorno a lui tutti si scambiavano abbracci e visite di cortesia. Britannici e germanici si regalarono caffè e cioccolata, marmellata e sigari, tè e whisky, nonché alcuni accessori delle divise. Ci fu persino chi si fece fotografare in gruppo. Come disse il soldato britannico Bruce Bairnsfather: «Non vi fu un solo momento di odio: per un po’ nessuno pensò più alla guerra.». Pareva una scena degna di un film, che in effetti si sarebbe ritrovata nel copione di «Joyeux Noël», film del 2005 di Christian Carion.
Prima che gli alti comandi potessero intervenire interrompendo la tregua, i soldati fecero un patto solenne: nel caso di ripresa dei combattimenti nessuno avrebbe mirato ad altezza uomo, rendendo inoffensive le munizioni «sparando alle stelle in cielo». La notizia della tregua non tardò a diffondersi, e in appena poche ore la febbre da armistizio contagiò ben due terzi del fronte occidentale: quasi ovunque britannici e germanici si tesero la mano e festeggiarono insieme, e il simbolo di quell’ insolito Natale di guerra divenne la partita di calcio che si tenne a Ypres fra le truppe britanniche del reggimento Scottish seaforth highlanders e quelle tedesche del Reggimento sassone, benché quel giorno le partite di calcio furono moltissime, giocate con palloni realizzati con stracci pieni di sabbia legati con lo spago e porte delimitate da pile di cappotti. Per alcune ore la «terra di nessuno» si tramutò in un campo di calcio, e nei giorni successivi i familiari dei soldati furono inondati di lettere e foto dell’ evento, che finirono ai quotidiani. La stampa di Torino, posseduta e diretta dal biellese Alfredo Frassati e sottoposta alla censura, ne ritardò la pubblicazione, quindi le prime notizie vennero trasmesse dalla stampa statunitense, soprattutto il New York Times. Subito dopo, la stampa europea dedicò ampio risalto all’ avvenimento, tanto che il 1 gennaio 1915 il Times di Londra pubblicò un articolo su quella partita, riportando anche il risultato finale: 3 a 2 per i tedeschi. Le notizie della tregua natalizia trovarono in seguito sempre più spazio sui giornali dell’ Europa settentrionale, con titoli euforici e commossi come: «Straordinario: inglesi e tedeschi si stringono la mano». In alcuni casi la tregua durò fino a Capodanno, ma quasi ovunque tutto finì la sera stessa di Natale, come avrebbe in seguito ricordato con una punta di malinconia il capitano britannico J. C. Dunn: «Ci salutammo e rientrammo nelle trincee, poi udimmo dei colpi: la guerra era ricominciata.».
Gli alti comandi dei rispettivo fronti non provarono la minima nostalgia per quell’ evento, dandosi ampiamente da fare affinché altre scandalose tregue si ripetessero in futuro: si minacciò di istituire la corte marziale contro chiunque avesse avuto contatti con il nemico, e si considerò persino l’ idea di bombardare le trincee nei giorni precedenti ogni Natale. Inoltre, per evitare che i soldati familiarizzassero con il nemico, si decise di spostarli a turno in diverse zone del fronte, e in un secondo momento si compì un atto di censura contro ogni notizia che riguardasse la tregua del 1914, negando ufficialmente che fosse mai avvenuta. Tutti questi sforzi, tuttavia, non seppero impedire nuovi atti distensivi, per quanto lo spirito di quel primo Natale in tempo di guerra non venne mai più effettivamente eguagliato, come riassunto dai ricordi del soldato britannico George Eade: «Un tedesco mi sussurrò con voce tremante: ‘Oggi abbiamo avuto la pace, ma da domani tu combatterai per il tuo Paese e io per il mio. Buona fortuna.’. Poi, in silenzio, tornò dalla propria parte.». Il miracolo era finito.
L’ esterno di una trincea;

Nel 1915 la guerra peggiorò, e negli anni successivi Ypres divenne famosa per i bombardamenti con armi chimiche che coinvolsero anche la popolazione: la cittadina diede infatti il nome a uno dei gas utilizzati, l’ iprite. Ad annunciare il ritorno alla normalità guerresca, tra i britannici, fu un secco comunicato alle truppe: «Mai più tregue, partite di calcio incluse. In guerra non bisogna mai interrompere l’ uccisione del nemico». E così, in pochi mesi, quella bella storia di Natale fu destinata all’ oblio, ma non tutti la presero male: un giovane soldato austriaco arruolato nell’ esercito tedesco di nome Adolf Hitler, all’ epoca dei fatti di stanza proprio nella zona di Ypres, fu ben lieto di ricominciare a sparare, avendo criticato con impetuosità quella che ritenne senza mezzi termini una «stupida tregua». Di opinione opposta, invece, rimase sempre Bertie Felstead, un signore britannico morto il 22 luglio 2001, a centosei anni, ultimo reduce ancora in vita ad aver preso parte a una certa partita di calcio giocata in quello speciale giorno di Natale: la meno famosa, ma forse la più straordinaria di tutta la storia.
Sul fronte italiano, vennero segnalati casi di fraternizzazione con il nemico il 25 dicembre 1916. Le tregue italiane consistevano solo nel deporre le armi rimanendo a debita distanza, ma in alcuni casi italiani e austro-ungarici brindarono addirittura gomito a gomito, per esempio sui monti Kobilek, in Friuli, e Zebio, sull’ altopiano di Asiago. Della tregua approfittò anche il poeta Giuseppe Ungaretti, che quel giorno scrisse la poesia «Natale». Tuttavia, anche fuori dai periodi festivi accadeva che fra sudditi sabaudi e asburgici ci si scambiasse cibo e sigarette, o che si stabilissero lealmente turni per l’ uso di una fonte d’ acqua. Nel febbraio del 1916, sui monti del Carso, ci fu una tregua spontanea proposta dagli austriaci al grido di: «Venite, non spariamo.». In seguito, nel maggio del 1917, sulla vetta Chapot, in Friuli, alcuni ufficiali sorpresero un gruppo di alpini intenti a parlare, bere e fumare in compagnia
del nemico.
Pranzo natalizio servito in tavola;

Oggi, a cento anni di distanza dalla cessazione del gigantesco conflitto che mise l’ Europa a ferro e fuoco, sconvolgendola radicalmente e portandola a maturare un contesto sociale, politico e militare profondamente diverso da quello vissuto fino a quel momento, viene spontaneo riflettere sul legame che la popolazione cristiana conserva attualmente nei riguardi del giorno scelto nel III secolo dalla Chiesa come quello in cui avvenne la nascita di Gesù.
Al giorno d’ oggi si può beatamente affermare che sarebbe del tutto impensabile interrompere anche solo per un’ ora i combattimenti di una qualunque delle guerre in corso «perché è Natale»: la sola idea susciterebbe una certa ilarità. Generazione dopo generazione, le persone si sono sempre vantate di essere più moderne e progredite in confronto ai propri antenati, quindi quel che è accaduto in passato non tornerà mai più. L’ unica costante in questo mondo è il cambiamento, pertanto si cerca istintivamente di cambiare in meglio. Ma purtroppo, se un calcolo va fatto, negli ultimi cento anni l’ umanità non si è evoluta veramente: oggi esistono tante comodità che un tempo non erano neppure immaginabili, c’ è stato un indubbio sviluppo materiale tuttavia accompagnato da un’ altrettanto profonda degenerazione sociale e individuale. Se oggi si può viaggiare fino alla luna in appena una settimana a bordo di una navetta spaziale, per contro si sono perduti per strada importanti valori come l’ amicizia, l’ altruismo, la lealtà e l’ empatia, quindi nessuno pensa più alle altre persone come compagni di viaggio uguali a noi seppur nella propria natura specifica, ma come concorrenti e possibili rivali nella grande competizione della vita. Tale clima di ricchezza materiale unita a povertà interiore ovviamente non ha risparmiato neppure il Natale, tramutandolo in una sorta di spettacolo di varietà, in una desolante giornata ai limiti del farsesco dedita ad abbondanti scorpacciate e bevute, a lunghe conversazioni apparentemente brillanti ma in realtà prive di argomenti sensati e degni di stima, agli scambi di regali il più possibile appariscenti e costosi, all’ albero più vistoso e addobbato, al presepio più suggestivo.
Anziché affannarsi tanto in numerosi e costosi acquisti, senza peraltro sentirsi mai veramente soddisfatti dei risultati, quando si approssima il Natale e si decide di festeggiarlo in ottemperanza alla propria fede religiosa, perché non ha alcun senso celebrare una qualsiasi ricorrenza senza seguire veramente la relativa tradizione spirituale, sarebbe salutare imparare la grandissima lezione di quei valorosi combattenti che lottarono e morirono lungo le linee trincerate della Grande Guerra, uomini coraggiosi e degni di rispetto oggi purtroppo estinti e che trovarono spontaneamente il modo di cessare le ostilità tra i rispettivi governi per festeggiare in pace e tutti insieme una giornata importante come questa, dividendo come fratelli quel poco che avevano, dando alla ricorrenza un significato particolarmente profondo e commovente in un contesto tutt’ altro che scontato, e ottenendo risultati infinitamente superiori a quanto la gente di oggi potrà mai purtroppo vantare pur nel pieno della grande epoca della modernità, del progresso e del benessere. E’ più che evidente che il Natale venne ahimè più decorosamente festeggiato nel biasimato inferno delle trincee piuttosto che nella lodata civiltà dei centri urbani…

lunedì 19 novembre 2018

Gangchen Rinpoche, gli intrighi, il doppio gioco e le faccende poco limpide di un lama tibetano

Gangchen Rinpoche;
«Visto che va tanto di moda il pettegolezzo, io vi porto un pettegolezzo di pace. Il nostro corpo e la nostra rinascita non sono indipendenti dalle condizioni ambientali e la cultura violenta di oggi influisce su di noi. Bisogna trovare valori comuni e la base può essere la pace, un valore che ognuno dovrebbe coltivare dentro di sé. La pace è la giusta medicina che fa bene alla salute mentale e anche il messaggio autentico per le future generazioni.» Gangchen Rinpoche;


Secondo la tradizione, e così come viene riferito nel canone pāli, la più antica raccolta di testi buddhisti pervenuta integralmente fino ad oggi, nel 530 prima di Cristo, il principe Siddhattha Gotama, che a seguito di un’ intensa ascesi spirituale scandita da faticosi autocontrolli fisici e intense meditazioni aveva da poco raggiunto il Risveglio ai piedi di un albero di pippal nei pressi di Bodh Gaya, nell’ India settentrionale, giunse a Benares, a circa dieci chilometri a nord di Varanasi, la città sacra degli induisti, meta costante di pellegrinaggi votivi, ove tenne il Dhammacakkappavattanasutta, ossia il Discorso di Benares, il suo primo insegnamento, rivolto ai a cinque discepoli di famiglia brahmanica con cui precedentemente aveva condiviso alcune severe pratiche ascetiche volte alla realizzazione della buddhità, ma senza successo. In tale discorso, sutta in lingua pāli, spiegò i principi delle Quattro Nobili Verità, secondo le quali la sofferenza esiste, trae la sua origine nel desiderio egoistico e cessa eliminando l’ ego attraverso il Nobile Ottuplice Sentiero, una via di addestramento spirituale basata su di un’ esistenza virtuosa orientata alla rettitudine: retta comprensione, retto pensiero, retta parola, retta azione, retta condotta di vita, retto sforzo, retta consapevolezza, retta concentrazione.
Nei duemilacinquecento anni dalla venuta del Buddha Śākyamuni, come Siddhattha venne ricordato a seguito di questo originario sermone, il suo insegnamento, detto Buddhadharma oppure Buddhismo, si è suddiviso in numerose scuole di pensiero ciascuna contraddistinta da specifiche tecniche meditative e visioni mistiche, tuttavia accomunate dalla stessa filosofia di base, nonché dalla dottrina del Nobile Ottuplice Sentiero, che ha preservato per intero il proprio valore tanto per i maestri e i monaci quanto per i praticanti laici. A onor del vero, appare evidente quanto non sia necessario aderire ad una religione o ad una filosofia in particolare per comprendere che un’ esistenza lontana dagli eccessi tanto del piacere quanto dell’ ascetismo sia la migliore se si vuole trascorrere una vita serena, priva di dolore inutile: dalla culla alla tomba si affronta già abbastanza sofferenza, senza bisogno di cercarne altra con una condotta inadeguata o eccessiva. Saggezza, moralità e disciplina mentale sono pertanto valori universali che ogni persona, credente o no, può e deve sviluppare per essere felice e possibilmente contribuire al bene di chi la circonda. Chi invece sceglie di aderire ad una particolare religione dovrebbe seguirne diligentemente i principi, e i maestri che la tramandano alle nuove generazioni dovrebbero dare per primi l’ esempio praticando tutto ciò che insegnano. E’ un dato di fatto che le guide spirituali godono di enorme potere, in quanto possono influenzare assai facilmente il pensiero di moltissime persone presentandosi abbigliati in un determinato modo, esponendo idee filosofiche esotiche e complesse, promettendo miracoli tramite poteri maturati durante intensi ritiri spirituali nel cui corso hanno padroneggiato tecniche meditative articolate e misteriose trasmesse in segreto da maestro a discepolo.
Durante il Novecento, tutte le scuole buddhiste hanno suscitato un profondo interesse in Occidente, incuriosendo studiosi e gente comune e riscuotendo generali consensi tra la popolazione, prevalentemente di tradizione cristiana, quale modo di vivere pacifico in armonia con tutte le cose viventi, animato in modo particolare dal principio della reincarnazione, secondo il quale ogni essere che muore rinasce in eterno assumendo forme e sesso differenti fino al compimento della buddhità, la piena maturazione spirituale sull’ esempio del Buddha Śākyamuni che apre le porte del Nirvana, stato di perfetta beatitudine che porta alla cessazione della sofferenza e quindi del ciclo di nascita, morte e rinascita alla base dell’ esistenza. Il Buddhismo tibetano è oggi una delle scuole più note e seguite a livello mondiale, complice l’ invasione del Tibet tra il 1950 e il 1959 da parte della Repubblica Popolare Cinese, le cui dure condizioni costrinsero il XIV Dalai Lama a rifugiarsi in India settentrionale, a Dharamsala, ove, sostenuto dal governo di Nuova Delhi, lavora costantemente per promuovere la causa del suo Paese pur senza scagliare l’ opinione pubblica mondiale contro la Cina comunista. Molto attivo a vantaggio dei rifugiati tibetani di ogni classe sociale ed età che ogni anno sfuggono tuttora alla proverbiale rigidità del sistema cinese, procurando tutto ciò che occorre loro per vivere e integrarsi nella nuova nazione, l’ Oceano di Saggezza, traduzione letterale del suo titolo nelle lingue occidentali, sostiene da sempre una lotta basata sulla nonviolenza e la disobbedienza civile sull’ esempio del Mahatma Gandhi, di cui si definisce tuttora un grandissimo ammiratore, e negli Anni Settanta visitò per la prima volta l’ Occidente, impegnandosi nella divulgazione a livello internazionale del dramma del suo popolo e condividendo insieme ad altri lama e monaci i principi della tradizione buddhista tibetana, contribuendo alla fondazione di monasteri e centri spirituali che da allora sono aumentati per numero e importanza. I più noti di questi luoghi di trasmissione e pratica sono i centri legati alla Fondazione per la Preservazione della Tradizione Mahayana, quelli del movimento Rigpa nonché quelli del Buddhismo della Via di Diamante, ispirati a tutte e quattro le scuole di pensiero sorte durante i secoli in Tibet.
In Italia in particolare è presente l’ Unione buddhista italiana, un’ associazione formata da centri e associazioni confessionali che operano sul territorio, il cui impegno portò nel 2012, dopo un lungo percorso, all’ approvazione da parte dello Stato di un’ intesa nella quale il Buddhismo venne riconosciuto ufficialmente tra le religioni praticate dal popolo italiano e non più soltanto dalle minoranze di provenienza asiatica, cosa che consentì di devolvere l’ Otto per mille a favore dei centri e al sostentamento dei monaci e dei maestri di ogni tradizione.

Gangchen Rinpoche in ricche vesti;
Nel variegato panorama buddhista italiano spicca l’ attività di un particolare lama tibetano, Gangchen Rinpoche, nominato Messaggero di pace dalle Nazioni Unite e molto impegnato come guaritore, famoso per la sua amicizia con vari volti noti dello spettacolo, soprattutto Marco Columbro, a capo di un movimento dalla consistente e articolata struttura organizzativa. Una figura purtroppo assai controversa all’ interno del mondo tibetano, che essendo stato retto per secoli da una teocrazia risulta ovviamente soggetto a dinamiche politiche, sociali e spirituali ben più complesse e meno ovvie di quanto la propaganda solitamente lasci intendere. Da molti anni è in dissidio con il Dalai Lama a causa di una forte controversia spirituale dalle dinamiche tutt’ altro che semplici e scontate, che ad un certo punto lo ha visto stringere intensi legami con le autorità cinesi, contribuendo ad animare non poco la già penosa questione tibetana e portando ancora una volta a domandarsi se il fine giustifichi i mezzi…
Gangchen Rinpoche con Song Rinpoche;

Nato in una famiglia di contadini di Dakshu, minuscolo villaggio dello Tsang, regione del Tibet occidentale, all’ età di tre anni venne riconosciuto come la reincarnazione di Kacen Sapenla, un famoso lama guaritore appartenente a un antico lignaggio di maestri reincarnati iniziato con Darikapa, uno degli ottantaquattro maggiori Mahāsiddha venerati in Tibet, e in cui figurano Zango Tashi, uno degli abati del Monastero di Tashilhunpo, residenza del Panchen Lama, la seconda figura più importante in Tibet dopo il Dalai Lama, e molti lama che in vita ebbero rapporti stretti con i vari Panchen Lama.
A cinque anni entrò come novizio di scuola Gelug, la stessa dei Dalai e dei Panchen Lama, nel Monastero Gangchen Choepeling, distante dodici chilometri dal villaggio natio, ove fu ribattezzato Thinley Yarpel Lama Shresta, oppure Gangchen Rinpoche, ossia «il Prezioso di Gangchen», e iniziò la propria educazione religiosa tradizionale sotto la guida di alcuni grandi lama quali Song Rinpoche e in particolare Trijang Rinpoche, una personalità molto potente e rispettata in quanto insegnante giovane del XIV Dalai Lama. Il suo percorso di studi lo portò a ricevere tutte le maggiori iniziazioni meditative e rituali tipiche della sua scuola, soprattutto quella del Buddha della Medicina, in conformità alla sua preparazione quale futuro lama guaritore. Successivamente si trasferì a Tashilhunpo, distante quaranta chilometri da Dakshu, dove nel corso di un’ antica cerimonia ricevette appena dodicenne l’ importante titolo di kacen, normalmente conferito dopo circa venti anni di studi. Fino all’ età di diciotto anni condusse gli studi di filosofia, meditazione, medicina e astrologia dividendosi tra Tashilhunpo e il Monastero di Sera, a Lhasa, capitale del Regno delle Montagne.
Con l’ invasione del Tibet da parte della Repubblica Popolare Cinese, a cavallo degli Anni Cinquanta, Gangchen Rinpoche venne imprigionato e costretto ai lavori forzati analogamente a molti monaci e lama, oltre che nobili e gente comune, ma nel 1963 fu in grado di raggiungere l’ India, che dal 1959 dava asilo al Dalai Lama e al governo tibetano in esilio, dove completò i suoi studi in uno dei molti monasteri riedificati al di fuori della terra natia al fine di garantire la sopravvivenza del Buddhismo tibetano. Nel 1970 ricevette il titolo di Ghesce Rigram al Monastero di Sera, e in seguito lavorò come lama guaritore presso le comunità tibetane in India, Nepal e soprattutto in Sikkim, dove divenne medico dei Namgyal, la famiglia reale.
Dal 1981 iniziò a viaggiare in tutto il mondo, Europa soprattutto, insegnando varie pratiche di meditazione e il mantra del Buddha Śākyamuni, oltre che i concetti legati all’ educazione alla pace interiore e la cura dell’ ambiente, guarendo e guidando vari pellegrinaggi nei luoghi sacri più importanti delle diverse religioni del mondo, dedicandosi inoltre ad un progetto di integrazione fra la medicina tibetana e l’ allopatia. Nel 1983 si stabilì permanentemente in Italia, risiedendo dapprincipio a Gubbio e poi a Milano, iniziando a dare regolari insegnamenti in grandi centri come l’ Istituto Lama Tzong Khapa di Santa Luce e il Ghe Pel Ling di Milano, divenendo molto popolare in Occidente. Negli anni incontrò Giovanni Paolo II e Madre Teresa di Calcutta, e tra i suoi discepoli figurarono presto molte persone famose, tra uomini di spettacolo e insegnanti.
Dorje Shugden, controversa entità spirituale tibetana;

Per comprendere meglio la figura di Gangchen Rinpoche occorre affrontare la vicenda di Dorje Shugden, entità spirituale al centro di determinate pratiche devozionali e liturgiche delle scuole tibetane Gelug e Sakya e che fin dagli Anni Settanta costituisce la causa di un animato dibattito che ha aspramente diviso i tibetani esuli e i praticanti occidentali della loro tradizione buddhista.
Il Buddhismo tibetano si distingue per la forte presenza di elementi mistici, consistenti soprattutto nell interpretazione dei presagi e dei sogni, nonché nella propiziazione degli spiriti buoni e nell esorcizzazione di quelli cattivi e nella consultazione degli oracoli, ossia sensitivi capaci di entrare in trance ospitando in sé le entità divine mettendole in contatto diretto con i comuni mortali in occasione di importanti decisioni spirituali e politiche da prendere, come l’ identificazione della reincarnazione di un lama defunto tra una cerchia di candidati, piuttosto che la definizione dei dettagli di un accordo politico, diplomatico o commerciale con l’ estero. Gli oracoli in particolare sono un elemento molto importante della cultura tibetana, in quanto vengono interrogati per ottenere protezione e guarigione, e si riconosce loro il compito primario di aiutare i tibetani a praticare correttamente il Buddhadharma. Un tempo in Tibet si contavano centinaia di oracoli, molti dei quali oggi sono scomparsi, mentre quelli più importanti, soprattutto quelli consultati dal governo tibetano in esilio, continuano ad esistere.
Durante il Seicento, a seguito di numerosi intrighi e instabili alleanze tra i vari potentati locali alternati a violente incursioni da parte dei mongoli e dei cinesi, il V Dalai Lama, riverito lama reincarnato di scuola Gelug, coreggente del Monastero di Drepung, a Lhasa, insieme a Tulku Dragpa Gyaltsen, altro maestro rinato di grande rispetto, unificò per la prima volta il Tibet con il sostegno mongolo, assumendone l’ autorità sia politica che religiosa, e per favorire l’ unità nazionale, e dunque consolidando la propria posizione, comprese di dover esercitare la guida spirituale senza esclusivismi, aprendosi a tutte e quattro le scuole tibetane, soprattutto la Nyingma, la più antica, fondata nell’ VIII secolo dal leggendario maestro indiano Padmasambhava. In risposta, Tulku Dragpa Gyaltsen appoggiò l’ opposizione dell’ ala conservatrice dei lama e monaci che rigettavano l’ entrata in politica dei Gelug e il miscuglio delle loro discipline spirituali con lo Dzogchen, la tecnica meditativa dei Nyingma, nella convinzione che in tal modo avrebbero contaminato la pura dottrina di lama Tzong Khapa, il maestro fondatore della loro scuola. Nel 1655, tuttavia, Tulku Dragpa Gyaltsen venne trovato defunto in circostanze mai chiarite: si parlò di morte naturale a seguito di una malattia che per qualche tempo lo aveva effettivamente oppresso, ma anche di assassinio politico ordito dal Reggente del V Dalai Lama per soffocamento tramite una sciarpa rituale che gli sarebbe stata fatta ingoiare, in modo tale da rimuovere ogni ostacolo all’ autorità dell’ Oceano di Saggezza. In ogni caso, secondo la tradizione, lo spirito dello sfortunato insegnante si tramutò in un’ entità spirituale molto potente, Dorje Shugden, che i suoi discepoli iniziarono a venerare come dharmapāla, ossia «protettore del Dharma» in sanscrito, ergendolo a simbolo della purezza della dottrina Gelug contro qualsivoglia avvicinamento ad altre discipline. Il V Dalai Lama e i suoi dignitari, invece, lo indicarono come un essere malevolo sorto da preghiere distorte e tentarono di esorcizzarlo tramite rituali complessi e profondi, ma senza successo.
Nei successivi due secoli, Dorje Shugden rimase un protettore di livello minore e marginale, comune nel Tibet meridionale fino alla fine dell’ Ottocento. Nel 1895, infatti, il XIII Dalai Lama assunse il potere e si sforzò fin dal primo giorno di restaurare l’ antica importanza politica e spirituale del proprio lignaggio di reincarnazione, che si era indebolito profondamente a causa della morte in giovane età dei suoi precessori a partire dall’ VIII. Uomo dal forte carattere e dalle profonde convinzioni, ebbe una lunga vita e seppe sottrarsi all’ influenza dei propri dignitari politici e religiosi, e analogamente al V Dalai Lama si avvicinò alle pratiche dei Nyingma e tentò di modernizzare il Tibet sul piano materiale, introducendovi molte recenti invenzioni occidentali, come l’ elettricità, il telefono e un efficiente sistema di strade. Molti aristocratici e lama, tuttavia, si opposero fermamente ai suoi tentativi di apertura e modernizzazione nella convinzione che lo sviluppo materiale e culturale proveniente dall’ esterno avrebbe messo a repentaglio la sopravvivenza dell’ insegnamento buddhista, quindi il culto di Dorje Shugden raggiunse il suo culmine con Pabongka Rinpoche, il più grande e influente lama Gelug del Novecento: maestro di logica e potente praticante tantrico, fu un convinto sostenitore del culto dello spirito, sostenendo che fosse un’ emanazione di Manjuśri, il Buddha della Saggezza, capace di garantire elevati traguardi sia spirituali che materiali ai praticanti. Compì un vero e proprio riformismo all’ interno della scuola, ed essendo il maestro principale di moltissimi lama e monaci trasmise a tutti loro questa pratica finché il XIII Dalai Lama glielo proibì espressamente, in quanto per sua natura essa ostacolava qualsivoglia forma di sincretismo ed apertura. Pabongka Rinpoche si attenne alle disposizioni della massima guida spirituale e politica, ma solo pubblicamente: in forma privata, infatti, continuò liberamente a tramandarla a fidati discepoli, specialmente a Trijang Rinpoche, il suo discepolo prediletto. Nel 1933, alla morte a cinquantotto anni del Grande Tredicesimo, come il Dalai Lama veniva soprannominato, Pabongka Rinpoche riprese ormai libero da qualsivoglia impedimento a trasmettere l’ iniziazione a ritmi esponenziali anche ai laici, e ad ogni livello della società tibetana, fino al 1941, quando morì. Nello stesso anno Trijang Rinpoche, suo erede spirituale, venne scelto come insegnante giovane del XIV Dalai Lama, nato nel 1935 e riconosciuto ad appena due anni come reincarnazione del Dalai Lama defunto. Trijang Rinpoche a sua volta trasmise su vasta scala il culto controverso, iniziando ad esso persino il Dalai Lama, che lo praticò assiduamente per molto tempo affidandosi in più occasioni al suo oracolo, che in occasione della fuga in India del 1959 gli indicò la corretta via da seguire per raggiungere la frontiera senza farsi trovare dai cinesi.
Trijang Rinpoche;

Durante l’ esilio nel subcontinente indiano, la comunità tibetana avvertì la particolare esigenza di riunirsi sotto un’ unica guida come mai prima di allora, quindi i dignitari politici e religiosi puntarono tutto sul giovane Dalai Lama, che, incoraggiato da Nechung, l’ oracolo di Stato tradizionalmente consultato dai suoi predecessori e dal governo fin dai tempi del V Dalai Lama, attraverso cui si esprime Pehar, demone sottomesso da Padmasambhava e convertito in dharmapāla e protettore del governo tibetano, e su richiesta pare delle più autorevoli guide spirituali delle tre altre scuole, ossia Nyingma, Kagyu e Sakya, abbandonò definitivamente la pratica del dharmapāla esclusivo dell’ insegnamento Gelug aprendosi nel contempo agli insegnamenti delle altre tradizioni, simpatizzando particolarmente con le dottrine Nyingma. Nel 1975, tuttavia, un discepolo di Trijang Rinpoche, Zemey Rinpoche, pubblicò «Il libro giallo», in cui descrisse i modi in cui Dorje Shugden in passato aveva castigato i Gelug che avevano mescolato l’ insegnamento di lama Tzong Khapa con le tecniche Nyingma. Sebbene rigettato da molti tra gli stessi praticanti di Dorje Shugden, come ghesce Kelsang Gyatso, secondo i quali un essere illuminato non può fare del male a nessuno, questo testo venne apertamente condannato dal XIV Dalai Lama, che decise di sconsigliare il culto sia ai praticanti religiosi che a quelli laici, vietando a chiunque avesse desiderato continuare a praticarlo di partecipare ai suoi insegnamenti e di ricevere da lui iniziazioni, non volendo intrattenere una relazione disturbata tra maestro e discepolo.


Gangchen Rinpoche e un’ immagine sacra di Dorje Shugden;
Alcuni osservatori tibetani sostengono che sia stato proprio l’ oracolo Nechung a fomentare tale disputa, facendo diventare Dorje Shugden il capro espiatorio di tutti i mali, e in ogni caso la controversia non tardò a degenerare in scontri violenti, giungendo alla perquisizione delle case dei fedeli dello spirito da parte probabilmente degli avversari religiosi, nonché a numerose aggressioni spesso ricambiate di vari devoti e alla distruzione di altari e immagini legati al culto. Il governo tibetano in esilio impose ai monasteri legati alla tradizione di Dorje Shugden una dichiarazione scritta che sancisse una presa di distanza da tale culto, e i monaci che si rifiutarono di aderire vennero dichiarati traditori. In tale ambiente di discordia e violenze reciproche, nel febbraio 1997 ghesce Lobsang Gyatso, amico del XIV Dalai Lama e notoriamente ostile alla tradizione di Dorje Shugden, venne brutalmente assassinato insieme a due monaci suoi assistenti nella propria abitazione, a poche decine di metri dalla residenza dell Oceano di Saggezza. La vicenda assunse un quadro inquietante non soltanto perché un importante lama era stato ucciso in modo tanto atroce dopo essersi lungamente scagliato contro i praticanti del culto, ma anche perché pare che nella vicenda fossero coinvolti alcuni agenti segreti cinesi che si erano infiltrati con lo scopo di seminare discordia tra le persone vicine al Dalai Lama, che il governo di Pechino ha sempre descritto come «un pericoloso reazionario ostile al comunismo e alla legittima riunificazione del Tibet alla madrepatria cinese».

Il XIV Dalai Lama del Tibet;
Quando il XIV Dalai Lama espresse l’ invito ad abbandonare il culto, Gangchen Rinpoche scelse di continuare a praticarlo per rispetto verso Trijang Rinpoche, l’ insegnante che aveva avuto in comune con la massima guida politica e spirituale del Tibet, e nel corso del tempo assunse persino determinati caratteri talmente conservatori che lo portarono ad avvicinarsi profondamente ai cinesi, coalizzandosi contro il Dalai Lama e il suo governo in esilio. Le autorità cinesi, infatti, non tardarono a comprendere l’ utilità strategica delle restrizioni poste dal Dalai Lama al culto di Dorje Shugden, e iniziarono a sostenere politicamente e finanziariamente tutti quei lama e monaci che avrebbero scelto di preservarlo in rispetto dei voti ricevuti dai propri maestri, accusando il Dalai Lama e i suoi dignitari politici e spirituali di sopprimere la libertà religiosa.
Durante l’ occupazione del Tibet nel corso degli Anni Cinquanta e dopo la fuga del Dalai Lama in India nel 1959, oltre seimila monasteri e santuari tibetani vennero distrutti e centinaia di monaci furono brutalmente uccisi: nel 1978 rimanevano solo otto monasteri e novecentosettanta monaci e monache. Tuttavia, i cinesi compresero che i sentimenti religiosi tibetani non si erano mai attenuati, quindi il modo migliore per guadagnarsi il loro favore consisteva in una graduale liberalizzazione del Buddhismo: i monasteri vennero ricostruiti e riaperti e l’ educazione dei monaci fu resa più completa, per quanto controllata dalle autorità. Come sostenuto da lama Tseta, che per anni fu un importante praticante del culto dividendosi tra India e Nepal, la Cina pagava regolarmente lui e altri lama e monaci affinché coordinassero le attività all’ estero tramite il comitato del Fronte del Lavoro Unito, predisposto a dirigere le proteste dei praticanti del culto di Dorje Shugden in India e in Occidente, in modo tale da accusare il Dalai Lama di falsità, di opportunismo e di gettare discordia tra i tibetani per motivi politici, contrariamente ad ogni principio buddhista: i devoti di Dorje Shugden sono tuttora trattati con grande riguardo dalle autorità cinesi, e in occasione di eventi importanti in Tibet sono ospiti d’ onore e descritti come cittadini patriottici, «figli devoti della madrepatria socialista a cui il Tibet è sempre appartenuto».
Lama Tseta, ex praticante del culto in contatto con i cinesi;

Gangchen Rinpoche divenne presto il più influente devoto del culto residente all’ esterno della Cina, come confermato sia da lama Tseta che da vari studiosi occidentali di Buddismo tibetano, come il francese Thierry Dodin, che lo definisce la personalità più forte del movimento e il più impegnato a favore del Partito Comunista e le autorità cinesi: dal 1987, quando riprese a visitare la Regione Autonoma del Tibet, incontra regolarmente i vertici cinesi sia locali che nazionali, da cui viene grandemente omaggiato in occasione dei raduni religiosi approvati, nel cui corso viene trattato come una personalità di grandissimo prestigio, mentre nel 1997 organizzò i primi incontri tra i maggiori praticanti e i funzionari cinesi in India. Interrotti i propri rapporti con Dharamsala e i lama e i monaci leali al Dalai Lama, fondò una propria organizzazione con oltre cento centri sparsi in Europa, America meridionale e Nepal, dedicandosi all iniziazione e all insegnamento delle tecniche di guarigione e autoguarigione nonché del culto di Dorje Shugden.


Gangchen Rinpoche e il X Panchen Lama;
Per anni, Gangchen Rinpoche fu in ottimi e stretti rapporti con il X Panchen Lama, tra i più celebri seguaci di Dorje Shugden, dal quale ricevette molte iniziazioni e insegnamenti. Da ormai qualche tempo il Panchen Lama era una delle più importanti risorse nelle mani dei cinesi, essendo stato riconosciuto in tenera età dai dignitari della sua precedente incarnazione, sotto la regia dei funzionari e ufficiali cinesi che già erano stati vicini allo stesso IX Panchen Lama, caduto in disgrazia dopo essere entrato in contrasto con il governo tibetano per una questione di tasse e privilegi. Il XIV Dalai Lama e il governo tibetano confermarono il candidato sostenuto dai cinesi solo in occasione dei negoziati del 1951. Per tutta la sua vita, il X Panchen Lama fu soggetto ad un’ intensa influenza da parte dei cinesi, che ne avevano attentamente regolato l’ educazione così da sfruttarne un giorno l’ autorità per fini politici, ma durante la Grande rivoluzione culturale proletaria denunciò apertamente le penose condizioni di vita a cui i tibetani erano soggetti a causa dei cinesi, dunque venne arrestato e lungamente umiliato e brutalizzato durante i tamzin, le famigerate sessioni pubbliche di accusa. Dopo il suo rilascio, fu considerato un soggetto «politicamente riabilitato», tanto da meritare la carica di vice presidente del Congresso Nazionale del Popolo, ma agli inizi del 1989, subito dopo un discorso pubblico in cui denunciava la condotta cinese in Tibet, morì ad appena cinquantuno anni in circostanze mai chiarite.
In accordo con le tradizioni tibetane, poco dopo un gruppo di lama e monaci iniziò le ricerche per individuare la sua reincarnazione, che venne riconosciuta in un bambino della Contea di Lhari, Gedhun Choekyi Nyima: quando il XIV Dalai Lama annunciò la notizia al mondo, le autorità cinesi fecero sparire nel nulla il bambino e la sua famiglia, e arrestarono la delegazione dei monaci leali al governo tibetano in esilio, colpevoli di aver condotto «una ricerca illegale per conto del Dalai e della sua cricca per minare dall’ interno l’ unità della Patria socialista», e li sostituirono con una serie di lama e monaci leali a Pechino, praticanti di Dorje Shugden ed oppositori tanto del XIV Dalai Lama quanto del defunto Panchen Lama, incaricandoli di costituire una nuova commissione di ricerca per individuare «la vera reincarnazione»: Gangchen Rinpoche fu tra le persone coinvolte nella nuova ricerca, e vi ricoprì un ruolo determinante. Venne pertanto compilata una lista di nuovi candidati, tra i quali alla fine venne scelto un bambino cinese, figlio di una coppia iscritta al Partito Comunista e che venne consacrato l’ 11 novembre 1995, in una fastosa cerimonia a Pechino alla quale Gangchen Rinpoche presenziò rendendogli pubblicamente omaggio.

L’ omaggio al Panchen Lama imposto dalla Cina, a Pechino;

Il rito, a cui era peraltro presente Jiang Zemin, Presidente della Repubblica popolare cinese, lanciò un messaggio ben preciso: il Panchen Lama, la seconda autorità religiosa tibetana, coinvolta direttamente nelle ricerche della reincarnazione del Dalai Lama, ora era sotto un controllo assai più stretto da parte della Cina, e la sua educazione era affidata a lama devoti a Dorje Shugden, tutti filocinesi. Da allora i contatti di Gangchen Rinpoche con i cinesi si intensificarono notevolmente.
Il saluto ad Hu Jintao, allora Presidente della RPC;

A Gangchen Rinpoche sono state spesso domandate spiegazioni sui suoi rapporti con il governo cinese, e lui ha sempre risposto che i suoi contatti hanno sempre avuto l’ obiettivo di assicurare il benessere dei sei milioni di tibetani rimasti in Tibet: «Non dobbiamo urtare la Cina, perché siamo una popolazione ridotta di fronte alla sua grande forza. Non possiamo vincere, quindi è meglio offrire la nostra amicizia. E’ importante avere una certa autonomia all’ interno del Tibet, così da salvare la cultura e le pratiche spirituali finché siamo tempo, altrimenti tutto andrà perduto.».
A proposito del motivo per cui ha appoggiato il Panchen Lama cinese, sostiene di aver voluto rendere felice il governo di Pechino in modo da alleggerire la posizione della Regione Autonoma del Tibet all’ interno della Repubblica Popolare Cinese: «Non intendo mancare di rispetto a Sua Santità il Dalai Lama e neppure al candidato che Lui sostiene. Non importa se il candidato appoggiato dalla Cina sia o meno la reincarnazione: se siamo amichevoli nei suoi confronti, il governo cinese si ammorbidirà e ci sarà speranza per i tibetani in Tibet. I tibetani fuori dal Tibet sono al sicuro, ma dobbiamo preoccuparci di quelli rimasti in patria. Essere in buoni rapporti con il Panchen Lama appoggiato dalla Cina non significa quindi schierarsi contro quello riconosciuto da Sua Santità il Dalai Lama!». Il lama guaritore sostiene di essere convinto «al cento percento» della scelta del Dalai Lama, ma che si debba considerare un quadro più ampio: «Non si tratta della scelta di Dharamsala o di Pechino a proposito del Panchen Lama, ma semplicemente di rendere più morbida la posizione cinese nei riguardi del Tibet in modo da consentire un vero dialogo tra il nostro governo in esilio e quello cinese.».
A tutte queste considerazioni aggiunge che sarebbe meglio che il governo tibetano in esilio, che lo considera un nemico per le sue convinzioni religiose, farebbe meglio a mettere da parte ogni divergenza sia con lui che con gli altri devoti al culto di Dorje Shugden: «Dopotutto, in Tibet Dorje Shugden non è mai stato una questione nazionale o politica. Si tratta di una pratica strettamente religiosa, tanto per i più alti lama quanto per i più semplici nomadi. Nessuno ha mai praticato Dorje Shugden per trarre guadagno nell’ arena politica o con il desiderio di danneggiare il Dalai Lama o il Suo governo. Perché dovrebbe essere così ora? Non è mai stato così, e non lo sarà mai!».
Non è raro che i tibetani confermino per motivi più terreni che spirituali l’ appoggio per un candidato piuttosto che un altro ad una reincarnazione, in quanto storicamente in Tibet si sono verificati in più occasioni riconoscimenti mossi da scambi di favori, regalie e alleanze: oltre ad aver appoggiato il Panchen Lama imposto dal governo cinese, Gangchen Rinpoche sostiene Lobsang Yeshi Jampal Gyatso, a sua volta discepolo di Song Rinpoche e praticante di Dorje Shugden che si è autoproclamato reincarnazione del XII Kundeling Rinpoche senza tuttavia ottenere l’ assenso del XIV Dalai Lama, a cui spettava il diritto di esprimersi in quanto il IX e il X Kundeling Rinpoche erano stati maestri dell’ XI e del XIII Dalai Lama, mentre l’ VIII e il X erano stati Reggenti del Tibet. L’ Oceano di Saggezza confermò nel 1993 quale reincarnazione un monaco di dieci anni, Tenzin Chokyi Gyaltsen.
Con Wen Jabao, Primo ministro della RPC;

Con l’ aggravarsi della controversia legata a Dorje Shugden e alle interferenze da parte dei cinesi, Gangchen Rinpoche venne espulso dal Monastero di Sera e gli venne proibito di tornare in India, provvedimenti a cui rispose semplicemente di sentire di non poter rinunciare ad una pratica ricevuta dal proprio lama principale per un atto di «pulizia politica», e di essere convinto che Trijang Rinpoche l’ abbia trasmessa nel sincero e lodevole desiderio di aiutare i praticanti a superare i loro ostacoli lungo le prove dolorose dell’ esistenza.
Nel 1997 visitò un monastero a Shigatse, in Tibet, ove istruì i monaci circa l’ adorazione di Dorje Shugden: essi rifiutarono i suoi insegnamenti, ma in seguito vennero ammoniti da alcuni funzionari governativi, i quali affermarono che se non avessero accettato le sue istruzioni sarebbero stati messi sotto accusa per «crimini contro la nazione». In seguito, nel 2005, Gangchen Rinpoche offrì un finanziamento per la costruzione di un nuovo dormitorio in un monastero nella provincia del Gansu e fece generose donazioni ad altri monasteri locali. La sua offerta era tuttavia vincolata al consenso da parte dei monaci di consacrare un nuovo santuario dedicato a Dorje Shugden nei rispettivi monasteri. I monaci rifiutarono nonostante le pressioni dei funzionari governativi, e l’ offerta venne pertanto ritirata.

Gangchen Rinpoche officia abitualmente rituali bizzarri;
Oltre al discorso relativo a Dorje Shugden, di per sé già piuttosto grave perché in nome del suo legame con questa pratica spirituale è sceso a patti con i cinesi in un intrigo politico degno dei testi di Niccolò Machiavelli, occorre riflettere anche sulla sua attività di guaritore: Gangchen Rinpoche si presenta come un taumaturgo dal grande potere, erede di un antico lignaggio di insegnamento e di reincarnazioni di grandi lama guaritori. In tale veste gode del sostegno di vari uomini di spettacolo, soprattutto Marco Columbro, da anni interessato alle tematiche spirituali e legato a lui da una stretta amicizia fin dal 1991, tanto da aiutarlo a diffondere le sue tecniche di guarigione e autoguarigione tramite una serie di libri e documentari.
Si dice che quando si recò in Nepal alla ricerca di un luogo ove realizzare un centro di meditazione e guarigione trovò un’ area spoglia presso cui orinò generando una sorgente di acqua pura che ancora oggi rifornirebbe l’ intero santuario, in cui ha avviato la produzione di medicine e pillole energetiche, definite da lui e dai suoi seguaci come particolarmente adatte a curare i disturbi epidermici e al bilanciamento e all’ armonizzazione delle energie interne. Da anni diffonde la tradizione dei gioielli di guarigione, che vengono usati come talismani curativi e canali di potenti energie positive dopo essere stati benedetti.
Nel 1993, dopo aver consultato Dorje Shugden attraverso l’ oracolo, secondo il quale la sua iniziativa sarebbe stata molto utile, iniziò a insegnare l’ autoguarigione tantrica NgalSo, una tecnica meditativa che avrebbe ricavato dagli insegnamenti originari del Buddha Śākyamuni «riconfezionandola per riconoscere il nemico interiore, responsabile delle malattie che affliggono le persone». Negli anni ha costantemente insegnato e scritto vari libri in proposito, mentre sui suoi siti informatici viene riferito che «molte persone, in diversi Paesi del mondo, ne testimoniano la straordinaria validità nel favorire i processi di guarigione fisica e mentale e nell’ ottenere uno stato di rilassamento, gioia e pace interiore». L’ autoguarigione tantrica NgalSo, promossa con entusiasmo anche da Marco Columbro, si basa su vari mudrā, «sigillo» in sanscrito, ossia gesti simbolici di comunicazione con la divinità, nonché sui movimenti delle braccia come le ali di un uccello in volo, mai adottati nelle cerimonie induiste o tibetane, schiocchi di dita, gesti di preparazione e poi di scioglimento di un nodo accompagnati da mantra. La pratica di questa surreale tecnica meditativa sarebbe capace di combattere impotenza, frigidità, infezioni, emicranie e molto altro, ma occorre tenere presente che non è mai stata accettata dalla medicina, in quanto non sottoposta a verifiche condotte in ambiente scientifico.
Peraltro, secondo alcuni lama residenti a Dharamsala, Ganchen Rinpoche utilizza una certa medicina tradizionale della sua terra originaria, effettivamente creduta dotata di poteri di guarigione da diverse malattie, ma il rituale che officia sarebbe solamente una farsa, un astuto espediente attraverso cui fare leva sulla credulità delle persone millantando poteri miracolosi che non possiede affatto.

Un incontro con Marco Columbro;

Peraltro, di fronte al movimento sviluppatosi intorno alla figura di Gangchen Rinpoche, non si possono non condividere le considerazioni di Frank Usarski: «Si può dire che gli insegnamenti e le iniziative di Gangchen Rinpoche aderiscono ai bisogni ed agli interessi del pubblico occidentale. Un tal atteggiamento è vantaggioso nel ‘mercato religioso’, dal momento che promuove l’ accettazione del Buddhismo tibetano in un contesto occidentale.».
Nella sua dottrina, i temi tipici del Buddhismo tibetano vengono spesso combinati con elementi tratti da altre tradizioni occidentali. In un intervento sul tema dell’ educazione non formale, ad esempio, il lama affermò il proprio approccio sostanzialmente sincretistico: «Oggi è necessario estrarre l’ essenza delle buone idee relative all’ intelligenza emotiva, ai rapporti interpersonali, alla cura della pace e dell’ ambiente presenti in tutte le tradizioni spirituali e offrirle alle nuove generazioni attraverso un’ educazione non formale.». Inoltre, tanto per citare i fatti più noti, la collaborazione alla fondazione del Villaggio Globale di Bagni di Lucca e la proposta per l’ istituzione del Forum Spirituale Permanente per la pace mondiale mostrano effettivamente un atteggiamento aperto alla collaborazione con altre realtà e uno sforzo di integrazione e adattamento al mondo occidentale, ma bisogna notare che la promozione di iniziative quali i Forum mondiali caratterizzano particolarmente i movimenti religiosi nuovi, con origini recenti sebbene radicati in tradizioni antiche, che le mettono in atto con obiettivi di autosponsorizzazione. Inoltre, i nuovi movimenti religiosi hanno acquisito una notevole conoscenza tecnica, non sempre nota alle religioni tradizionali, nell’ uso delle possibilità offerte dalle Nazioni Unite e dalle Organizzazioni non governative. Questo modo di presentarsi al pubblico occidentale, di fatto, è in grado di ripagare il movimento di Gangchen Rinpoche in termini di adesioni entusiastiche alla sua dottrina, ma se la questione viene esaminata nei termini di fedeltà alla tradizione tibetana, le sue aperture rivelano un certo grado di ambiguità e di problematicità. Peraltro, diverse persone che hanno avuto l’ opportunità di frequentare il suo centro, a Milano, si sono dichiarate deluse se non addirittura sconvolte, tanto che una donna residente nell’ Italia settentrionale interruppe i rapporti con lui e la sua comunità dopo che, come dichiarò lei stessa, tentarono di farla passare per pazza. La maggior parte di essi vollero prendere le distanze da questa guida spirituale proprio per i suoi contrasti con il Dalai Lama.
Promotore del benessere fisico e spirituale dell’ individuo...

Nel Dhammapada, testo conservato sia nel canone pāli che in quello cinese e tibetano, formato da una serie di versetti che riferiscono le parole più significative pronunciate dal Buddha Śākyamuni in svariate occasioni, si legge: «Affidati al messaggio del maestro, non alla sua personalità.». Un maestro rappresenta infatti un esempio da seguire non soltanto in funzione all’ insegnamento religioso, ma ad ogni dettaglio del suo comportamento: tutto quello che fa rappresenta il suo messaggio. Deve essere un esempio affidabile innanzitutto come persona, generando pensieri, parole e azioni corretti, e nel caso di un errore è tenuto a rimediare. Se abusa del proprio potere o magari assume un atteggiamento scorretto o sleale, al discepolo tocca manifestare la propria disapprovazione in modo tale da non sfociare nella fede cieca, che sarebbe dannosa per entrambi.
L’ omaggio alla reincarnazione di Trijang Rinpoche;

In quanto tibetano e lama educato secondo le antiche tradizioni del Buddhismo sviluppatosi nella sua terra, pare drammaticamente evidente quanto Gangchen Rinpoche tenga coscientemente il piede in due scarpe per un puro senso dell’ opportunità, nascondendosi dietro un legittimo tentativo di superare le divisioni e ricomporre la profonda ferita non ancora sanata tra tibetani e cinesi. Un uomo che tradisce il proprio Paese per preservare egoisticamente quei privilegi garantiti dalla propria posizione non dovrebbe assolutamente predicarne le usanze e tanto meno insegnare la saggezza, la moralità e la disciplina mentale contenute nella rettitudine indicata dal Buddha Śākyamuni durante il celebre Discorso di Benares, con il quale mise in movimento gli eventi che nei secoli successivi tanta influenza avrebbero avuto sul Tibet e facendo di lui stesso un lama reincarnato. Come dicono gli stessi tibetani: «La dottrina supera il maestro.».
Gangchen Rinpoche e la reincarnazione di Pabongka Rinpoche;

Gonsar Tulku Rinpoche, abate del monastero tibetano Rabten Choeling, presso Mont Pèlerin, sul lago di Ginevra, osservò in modo critico: «Stiamo attraversando una delle fasi più difficili della nostra storia, che affligge tutti i tibetani. Ma dobbiamo riconoscere che il Tibet è un Paese come tutti gli altri, e che anche i tibetani possono sbagliare. In questo mondo non esistono luoghi paradisiaci. In passato il nostro popolo è stato quasi sempre solo lodato. Tuttavia, troppe lodi prive di senso critico non giovano a nessuno. In realtà in Tibet le cose vanno come dalle altre parti.».
Anche nel Tibet antico, alla corte di molti Dalai Lama, trovarono ampio spazio funzionari corrotti e monaci infidi. Nonostante i loro ideali elevati, i tibetani non furono certamente liberi da ingiustizie, corruzione e abusi. Si verificarono persino alcuni attentati, e tra gli stessi lama che si presentano in Occidente figurano pericolosi ciarlatani coinvolti in faccende poco limpide. Occorre pertanto riflettere con grande cura prima di seguire un sentiero spirituale e rimettersi alla saggezza di qualcuno di questi individui dalla dubbia rettitudine…