mercoledì 31 agosto 2022

L’ età del Re Buono

 

Re Umberto I di Savoia;

«Suggello infrangibile dell’ unità italiana.» Re Umberto I d’ Italia riferendosi a Roma;


La Rivoluzione italiana, meglio nota come Risorgimento, fu il vasto e articolato movimento politico, culturale e sociale che promosse il ritorno dell’ Italia in un’ unica nazione, sulla base di ideali politici e sociali ma anche romantici, nazionalistici e patriottici in parte sorti nel Seicento e in parte era napoleonica, influenzati dai valori fondamentali della Rivoluzione francese che, seppur crudelmente e sanguinariamente, posero fine al vecchio e incipriato Ancien Régime retto da un’ aristocrazia codina e imbellettata in favore di una forma statale più ampia tanto cara ad un nuovo ceto in forte ascesa, la borghesia, orientata ad un senso nazionale più moderno in ambito mercantile ma anche culturale ed artistico.

Culminata il 17 marzo 1861 con la proclamazione del Regno d’ Italia, la Riunificazione, che in realtà si completò propriamente soltanto cinquantanove anni dopo, con l’ annessione del Trentino-Alto Adige e del Friuli-Venezia Giulia a seguito della legge numero 1322 del 26 settembre 1920, che approvò il Trattato di pace di San Germano del 10 settembre 1919 fra Italia e Austria, che aveva perduto la Grande Guerra, conobbe da subito enormi difficoltà, soprattutto in ambito amministrativo, politico, diplomatico ed economico, dalle numerose e non semplici soluzioni possibili. Il governo del neonato Belpaese venne chiamato a far collimare le profonde differenze tra gli italiani, che fino all’ avanzata di Casa Savoia dagli originari domini subalpini erano vissuti in dieci Stati direttamente o indirettamente legati alla Monarchia asburgica, complici il fatto che erano divenuti parte integrante dei suoi domini ereditari, come il Regno Lombardo-Veneto, e gli accordi diplomatici e militari come nel caso dello Stato pontificio e del Regno delle Due Sicilie. Nel quarantennio dal 1861 in poi, amministrare l’ Italia significava impegnarsi ad amalgamare una Penisola che dal 4 settembre 476 dopo Cristo, in seguito al crollo dell’ Impero romano d’ Occidente, era rimasta divisa sotto tutti gli aspetti, tra usi e costumi, leggi e assetti politici, dialetti e persino pregiudizi reciproci. Un’ impresa tutt’ altro che facile e che spesso non trovò valide soluzioni, tanto che al marchese Massimo Taparelli d’ Azeglio venne attribuita la celebre frase: «L’ Italia è fatta, gli Italiani sono da farsi.».

In questo periodo di faticosi assestamenti ebbe luogo il regno di Umberto I, il «Re Buono». Figlio e successore di Vittorio Emanuele II, primo Re d’ Italia, la sua era fu caratterizzata da svariati eventi che generarono opinioni e sentimenti opposti. Severo e misurato, dal profilo e dalla mentalità essenzialmente militareschi, dopo il padre fu il secondo sovrano di Casa Savoia a non regnare per diritto divino, riconoscendo il carattere parlamentare del sistema politico italiano e non presiedendo il Consiglio dei ministri, limitandosi a riceverne il Presidente e, sentitone il resoconto, a firmare i decreti. Ricordato positivamente per l’ atteggiamento dimostrato dinnanzi a sciagure come l’ epidemia di colera a Napoli del 1884, prodigandosi personalmente nei soccorsi, e per la promulgazione del codice penale italiano del 1889, una tappa fondamentale che apportò importanti innovazioni come l’ abolizione della pena di morte, fu altrettanto duramente criticato per il rigido conservatorismo e autoritarismo, inaspritisi negli ultimi anni del suo regno, l’ indiretto coinvolgimento nello scandalo della Banca Romana e l’ avallo alle repressioni dei moti popolari del 1898 con la conseguente onorificenza concessa al generale Fiorenzo Bava Beccaris per la sanguinosa azione di soffocamento delle manifestazioni a Milano. Si sforzò per tutta la vita di impersonare davanti al popolo l’ autorità e di rappresentare il neonato Regno dando un’ immagine salda eppure garbata, formale e decorosa che contribuisse all’ unità nazionale sul piano non solo istituzionale ma anche e soprattutto simbolico, mentre la moglie, la popolare e distinta Regina Margherita, seppe raccogliere intorno alla Corona le più alte personalità culturali e artistiche del tempo, assicurando una mediazione con l’ «aristocrazia nera», quella parte della nobiltà romana rimasta fedele al papato dopo la presa di Roma, e con gli ambienti rimasti leali alle ormai decadute casate reali dell’ Italia preunitaria, soprattutto i Borbone delle Due Sicilie.

Monarca di un Paese appena unito, nel quale nulla era scontato e in ogni momento si tentava faticosamente di consolidare una coesione politica, sociale e culturale, regnò per ventidue anni turbolenti sulla base di concetti quali conformismo e continuità, oltre che su virtù considerate classiche quali il valore patriottico, civile e nazionale che trovarono ampia esaltazione ne «I promessi sposi», magnum opus di Alessandro Manzoni che proprio in quegli anni godette di tanta popolarità da divenire il romanzo italiano per eccellenza.

 

Il piccolo Umberto con la madre;

Umberto Rainerio Carlo Vittorio Emanuele Giovanni Maria Ferdinando Eugenio di Savoia nacque il 14 marzo 1844 a Torino, figlio di Vittorio Emanuele, allora erede al trono subalpino e che quello stesso giorno compiva ventiquattro anni, e da Maria Adelaide d’ Asburgo Lorena. I genitori erano cugini primi. Nonostante l’ amore che legava Maria Adelaide a suo marito, e il sincero affetto che lui nutriva per lei, Vittorio Emanuele ebbe infinite relazioni adulterine, una più spettegolata dell’ altra. Nato sotto ottimi auspici in quanto la successione al trono era garantita per un’ altra generazione, venne battezzato con il nome del fondatore del casato sabaudo, Umberto Biancamano, Conte di Moriana vissuto a cavallo dell’ anno 1000, che come lui in seguito sarebbero stati chiamati altri due signori della stessa dinastia, mentre l’ ultimo, Eugenio, era a ricordo del più illustre esponente del ramo cadetto dei Savoia Carignano cui apparteneva, Eugenio di Savoia Carignano Soissons, condottiero e diplomatico al servizio degli Asburgo d’ Austria. Ricevette il titolo di Principe di Piemonte, tipico dei principi ereditari del Regno di Piemonte e Sardegna. Trascorse i primi anni al castello di Moncalieri, affettuosamente vigilato dalla madre, e crescendo, insieme al fratello Amedeo, primo Duca d’ Aosta e nato circa un anno dopo di lui, ebbe un’ educazione prevalentemente militare secondo le consuetudini di Casa Savoia. Il giovanissimo Umberto era molto legato alla madre, una donna assai religiosa da cui aveva ereditato i tratti somatici, specie le labbra spesse e cascanti. Continuamente tradita dal marito, un allegro donnaiolo che generò una quantità non calcolata ma piuttosto abbondante di figli illegittimi, quando era a Moncalieri si faceva chiudere a chiave in uno stanzino di un paio di metri quadrati con inginocchiatoio e crocifisso con l’ ordine di non aprire fino a una determinata ora: dopo qualche minuto cominciava a singhiozzare e a urlare. Respirando tale atmosfera infelice, il giovane Principe di Piemonte finì con il maturare un carattere freddo e compassato, molto regale e profondamente diverso da quello del padre, che era piuttosto passionale, cordiale ed espansivo, spavaldo e brusco nei modi ai limiti della zotichezza. Un genitore che, come gli esponenti delle passate generazioni di Savoia prima della sua, rispettava e nel quale vedeva innanzitutto il signore della dinastia e il Re, ma che non amava e ai cui occhi sapeva di rappresentare il successore prima che il figlio. Maria Adelaide ad un certo punto cominciò a perdere dapprima i capelli e poi i denti, sentendosi poi costantemente febbricitante, quasi incapace di reggersi sulle gambe. Il suo volto, divenuto pallido e smunto, si riempì di precoci rughe mentre la voce si arrochì e l’ espressione si spense. Ormai disinteressata a quanto la circondava, smise di vestirsi, andando in giro in vestaglia e bigodini finché non morì a seguito di una gastroenterite il 16 gennaio 1855, mentre si trovava in carrozza, di ritorno alla reggia dopo aver assistito al funerale della suocera Maria Teresa d’ Asburgo Toscana. L’ agonia fu atroce, tanto che i suoi gemiti si udivano nella vicina piazza, e il marito Vittorio Emanuele, a conferma della sua benevolenza, rimase inchiodato al capezzale tenendole la mano fino all’ ultimo respiro. Pochi giorni prima, l’ 8 gennaio, al termine della sua ottava e tormentatissima gravidanza, aveva partorito Vittorio Emanuele Leopoldo, che a sua volta morì il successivo 16 maggio.

 

Vittorio Emanuele II e famiglia;

Il principe Umberto, che aveva non ancora compiuto undici anni, rimase profondamente segnato da questo lutto, ma in famiglia nessuno se ne curò in tono con le tipiche relazioni famigliari all’ interno della famiglia reale, condizionate da una severa formalità che non favoriva gli slanci affettuosi specialmente nel caso dell’ erede al trono, che soleva avere precettori severi chiamati a forgiare un futuro Re e comandante in capo delle forze armate e che pertanto lo trattavano con inflessibilità affinché imparasse ad essere un esempio per la sudditanza, pronto a fare egli stesso ciò che avrebbe richiesto agli altri. La sua istruzione venne affidata al generale Giuseppe Rossi e altri insegnanti tra cui altri militari, e fu completata da svariati viaggi all’ estero, sempre sotto l’ occhio attento dei precettori. La rigorosa disciplina lo modellò caratterialmente, e negli anni fece di lui un uomo definito leale, aperto, gentile e cordiale, sebbene qualcuno lo descrisse come una persona arida e dalle idee limitate. Si dedicò con passione alla caccia e ai viaggi presso le corti del suo tempo, ove conobbe personalmente i suoi pari, iniziando a tessere relazioni e sviluppando quelle doti diplomatiche che gli sarebbero sempre state riconosciute.

In quel tempo, il Regno di Piemonte e Sardegna era attivamente coinvolto nella guerra contro l’ Impero austriaco al fine di unificare l’ Italia sotto la propria Corona. Da una parte, Casa Savoia perseguiva un proprio interesse espansivo, giocando sullo scacchiere internazionale legandosi ora a questo e ora a quest’ altro potentato, superando i rischi derivanti dall’ essere signora di un piccolo territorio di passaggio nel mezzo tra grandi forze politiche e militari, ma dall’ altra intuì con acume quanto la borghesia fosse un ceto ormai in ascesa a discapito dell’ ormai antiquata aristocrazia imparruccata e incipriata, avanzando su precisi interessi politici ed economici che superavano la condizione dello Stato patrimoniale, demanio delle dinastie regnanti per diritto divino, dando vita ad un più ampio mercato nazionale in cui sviluppare le attività produttive e commerciali, accedendo ad un ruolo di classe dirigente politica e confermando il passaggio all’ assetto costituzionale e parlamentare: occorreva quindi estendersi in uno Stato nazionale, come tutte le tendenze europee del tempo ormai pensavano. Dopo la concessione dello Statuto Albertino nel 1848, enorme passo avanti che aveva fatto del regno subalpino una Monarchia costituzionale di stampo liberale, Re Carlo Alberto, padre di Vittorio Emanuele, era disceso in campo contro gli austriaci che dominavano il Regno Lombardo-Veneto, ma a seguito delle sconfitte nella battaglia di Custoza e di Novara aveva abdicato nel 1849. Ora, una decina di anni dopo, pareva che le cose si rendessero favorevoli ai Savoia. Il Presidente del Consiglio, il Conte Camillo Benso di Cavour, che aveva ritenuto necessario rafforzare l’ alleanza con il Secondo Impero francese, retto da Napoleone III, combattendo al suo fianco nella guerra di Crimea, iniziata nel 1853 e terminata nel 1856 con la vittoria della coalizione e il congresso di Parigi. La vicinanza alla Francia consentì al Conte di Cavour di incontrare nella notte tra 20 e il 21 luglio 1858 l’ Imperatore dei Francesi per concordare il futuro assetto geopolitico della penisola italiana in quelli che sarebbero stati chiamati gli accordi di Plombières. In seguito a un possibile attacco da parte degli uastriaci, Casa Savoia avrebbe ottenuto il Regno Lombardo-Veneto, i ducati dell’ Emilia e la Romagna pontificia unificandoli sotto la propria Corona in un Regno che avrebbe compreso l’ Italia settentrionale. La Francia avrebbe invece guadagnato la Savoia e Nizza, domini tradizionale del casato sabaudo, creando uno Stato in Italia centrale composto dal Granducato di Toscana e dalle restanti province dello Stato Pontificio, ad eccezione di Roma che sarebbe rimasta al Santo Padre, che sarebbe stato guidato almeno temporaneamente dalla Duchessa di Parma, Luisa Maria di Borbone, un personaggio molto gradito a Napoleone III che aveva bisogno a scopi di politica interna di dimostrarsi non avverso all’ antica famiglia reale francese. Sorte analoga sarebbe toccata al Regno delle Due Sicilie, che sarebbe rimasto sotto la guida del sovrano in carica, Ferdinando II: se costui si fosse ritirato, l’ Imperatore avrebbe visto con piacere salire sul trono di Napoli il proprio cugino, Luciano Murat, figlio di Gioacchino. Questi Stati italiani avrebbero formato una confederazione sul modello della Confederazione germanica della quale si sarebbe data la presidenza onoraria al papa.

Gli austriaci attaccarono il 27 aprile 1859, al rifiuto del Regno di Piemonte e Sardegna di smobilitare l’ esercito: iniziava la Seconda guerra d’ indipendenza italiana. Umberto, che nel marzo di un anno prima, ad appena quattordici anni, aveva intrapreso la carriera militare con il grado di capitano, fu coinvolto nel nuovo conflitto. Fece il proprio dovere, arrivando a distinguersi nella battaglia di Solferino e San Martino, il celebre scontro del 24 giugno 1859 che vide una clamorosa sconfitta dell’ Austria che con essa perse la guerra e la Lombardia. I progetti iniziali concordati a Plombières naufragarono però a causa della decisione di Napoleone III di uscire dalla lotta armata, siglando l’ armistizio di Villafranca con l’ Imperatore Francesco Giuseppe I d’ Austria, volendo evitare il pericolo che la disputa si allargasse all’ Europa centrale. I piemontesi acquisirono pertanto la sola Lombardia. In seguito scoppiarono rivolte in Emilia, Romagna e Toscana, e il piano di un’ Italia confederale venne meno anche a causa dell’ opposizione di Giuseppe Garibaldi, il famoso condottiero e rivoluzionario mosso da ideali patriottici, dei mazziniani e anche di quella di Francesco II delle Due Sicilie, che rifiutò una proposta di alleanza del Regno di Piemonte e Sardegna non volendo partecipare a un comune attacco allo Stato Pontificio, spartendo poi i territori appartenenti al papa. Nel 1860 il Ducato di Parma e Piacenza, quello di Modena e Reggio e il Granducato di Toscana e la Romagna pontificia votarono un plebiscito per l’ unione con il regno dei Savoia. Nello stesso anno, con la vittoria della spedizione dei Mille capeggiata da Garibaldi, il Regno di Piemonte e Sardegna annetté i territori del Regno delle Due Sicilie, e in seguito vi aggiunse le Marche, l’ Umbria, Benevento e Pontecorvo, domini pontifici. Tutti questi territori furono inglobati ufficialmente al Regno tramite plebisciti ratificati dal Parlamento e pubblicati sulla gazzetta ufficiale del 26 dicembre 1860.

In seguito, al culmine di questa vasta e intensa campagna militare e diplomatica senza esclusione di colpi, il Parlamento Subalpino si riunì in seduta plenaria il 17 marzo 1861 e proclamò la nascita del Regno d’ Italia con la Legge 4671, presentata in Senato dal Conte Camillo Benso di Cavour, e che dal successivo 21 aprile divenne la prima del nuovo Stato: Re Vittorio Emanuele II assumeva quindi per sé e per i propri discendenti e successori il titolo di Re d’ Italia. Dal punto di vista istituzionale e giuridico, l’ Italia assunse la struttura e le norme del vecchio Regno di Piemonte e Sardegna, divenendo una Monarchia costituzionale con lo Statuto Albertino come carta costituzionale. Il Re nominava il governo, che sarebbe stato responsabile dinnanzi a lui e non al Parlamento, e avrebbe custodito per sé prerogative in politica estera mentre, per consuetudine, avrebbe scelto i ministri militari della Guerra e della Marina. Il diritto di voto era attribuito, secondo la legge elettorale piemontese del 1848, in base al censo: in questo modo gli aventi diritto al voto costituivano appena il due percento della popolazione. Le basi del nuovo regime erano quindi assai ristrette, conferendogli una certa fragilità.

 

Il Principe di Piemonte in giovane età;

Umberto divenne quindi erede al trono di un Regno nuovo. Un giorno gli si sarebbero prospettate numerose questioni assai delicate che avrebbero richiesto tutta la sua attenzione e quella dei suoi futuri governi, ma per ora i suoi doveri erano soprattutto come ufficiale dell’ esercito, lasciando le questioni politiche al padre e ai suoi ministri in rispetto al principio secondo cui in Casa Savoia si regnava uno alla volta, rigidamente osservato da tutte le generazioni di principi ereditari prima di lui. Spesso in visita a Milano, nei cui salotti e ambienti nobiliari si sentiva ampiamente a proprio agio a differenza del genitore che prediligeva trattorie, cascinali contadini e casini di caccia, nel febbraio 1862, durante il carnevale milanese conobbe la duchessa Eugenia Attendolo Bolognini, nobildonna e benefattrice milanese che negli anni sotto la dominazione austriaca era stata attiva anche nella propaganda filorisorgimentale. Nata in un casato di conti, era moglie dal 1857 del conte Giulio Litta Visconti Arese, poi quarto Duca Litta. Sin da bambina era ammirata per la sua bellezza, tanto da essere ben presto famosa a Milano e dintorni come «bella Bolognina». Gli austriaci l’ avevano soprannominata «regina delle oche»: in Austria venivano infatti chiamate «oche» le dame lombardo-venete che, agitandosi, pretendevano di salvare l’ orgoglio e l’ italianità. Ricordata anche come la musa ispiratrice di Arrigo Boito, assiduo frequentatore del suo circolo culturale e mondano, era alta, di forme esuberanti e fisico sensuale, i serici capelli neri spartiti in due bande, gli occhi di un profondo blu notturno, i gesti e il sorriso di chi sapeva di avere ai propri piedi il mondo. La duchessa aveva sette anni in più dell’ erede al trono. Di lei si erano innamorati i poeti Emilio Praga e Arrigo Boito, e i migliori partiti dell’ aristocrazia milanese avevano avuto modo di ammirarla. Secondo i maligni sarebbe stata corteggiata anche da Re Vittorio Emanuele. Il Principe di Piemonte si innamorò di lei al primo sguardo, colpito dalla sua classe e dalla finezza nei modi che accompagnava a un temperamento forte che la faceva primeggiare. Lei ne ricambiò le attenzioni, sollecitata dall’ idea di divenire l’ amante del futuro Re d’ Italia. La loro relazione divenne presto abbastanza forte da durare per la vita: stabilirono un rapporto di carattere coniugale, di passione, affetto e intesa psicologica destinato a sopravvivere alle scappatelle del giovane Umberto, come quelle con la contessa Cesarini Galli Hercolani e la marchesa Vincenza di Santafiore Sforza, sue amanti chiacchierate a cui seguirono ballerine di teatro e giovani dame che alle volte lo seguivano. Lei rimase sempre accanto a lui, e la villa padronale di Vedano al Lambro, quasi adiacente al parco della villa reale di Monza, fu il nido abituale dei loro incontri in occasione delle visite del principe ereditario in Lombardia. Solo in pochi alti dignitari erano a conoscenza di questa relazione, ma non ne parlarono mai per ragioni di discrezione e rispetto per l’ istituzione monarchica e l’ immagine della famiglia reale.

 

La duchessa Bolognini;

Il processo di unificazione nazionale non poteva considerarsi definitivo poiché il Veneto, il Trentino-Alto Adige, il Friuli-Venezia Giulia appartenevano ancora alla Monarchia asburgica e Roma, proclamata idealmente capitale del Regno, era ancora sede del papato. La situazione delle terre mancanti costituiva una fonte di tensione costante per la politica interna italiana e chiave di volta per la sua politica estera. Il governo italiano si avvicinò pertanto alla Prussia per ostacolare l’ Austria e acquisirne i territori. Quando i prussiani attaccarono l’ Impero asburgico, l’ Italia a sua volta gli dichiarò guerra: aveva inizio la Terza guerra d’ Indipendenza, tra il 20 giugno e il 12 agosto 1866. Si racconta che il Principe di Piemonte, ventiduenne e tenente generale dal 1864, mentre aspettava a Napoli di partire per il fronte insieme al fratello Amedeo di Aosta, a una vecchina che piangeva per i due figli in guerra disse: «Anche noi siamo due e non abbiamo più la mamma.». Raggiunto il fronte delle operazioni in Veneto, assunse il comando della XVI divisione di fanteria e partecipò con valore allo scontro di Villafranca del 24 giugno 1866, che seguì la disfatta di Custoza. Ivi, fu protagonista del noto episodio detto Quadrato di Villafranca: la XVI divisione, nel muovere da Custoza alla volta di Goito si ritrovò divisa dal grosso dell’ esercito. Gli austriaci, ben sapendo cosa poteva valere un erede al trono nemico fatto prigioniero, lanciarono la loro migliore cavalleria contro gli italiani che, ben addestrati, si disposero in quadrato per proteggere il loro futuro Re, riuscendo a resistere fino all’ arrivo degli squadroni di supporto che misero in fuga gli austriaci. Durante la battaglia, Umberto si batté dando esempio di dedizione al dovere e stoico coraggio, e tale condotta gli valse la medaglia d’ oro al valor militare.

La guerra si concluse con la vittoria dell’ Italia e la conseguente annessione del Veneto, di Mantova e di parte del Friuli, le attuali province di Udine e Pordenone.

 

La principessa Margherita;

Terminato il proprio ruolo nelle campagne risorgimentali, Umberto fu chiamato maggiormente ad altre occupazioni legate al suo ruolo di principe ereditario del neonato Regno d’ Italia, e soprattutto visse più intensamente, seppur con riservatezza, le proprie vicende amorose. La bella Bolognina era costantemente nei suoi pensieri, l’ amava davvero intensamente, eppure era ben cosciente di dover accettare un matrimonio di interesse dinastico e politico, in ottemperanza alle disposizioni del padre.

All’ indomani della fine del conflitto con l’ Austria, Re Vittorio Emanuele aveva iniziato a pensare di riappacificarsi con Casa Asburgo per mezzo di un’ unione matrimoniale. La candidata ideale venne identificata nell’ arciduchessa Matilde d’ Asburgo Teschen, figlia dell’ arciduca Alberto, Duca di Teschen e generale imperiale che aveva sconfitto l’ esercito italiano nella battaglia di Custoza, nonché cugino di Francesco Carlo, padre dell’ Imperatore Francesco Giuseppe. Ella però morì tragicamente appena diciottenne, ustionata dall’ incendio del proprio abito da ballo, pronta a recarsi a una serata mondana, mentre tentava di nascondere una sigaretta alla governante. Svanita quest’ importante possibilità, il Presidente del Consiglio dei ministri, Luigi Federico Menabrea, propose al sovrano l’ idea di far sposare Umberto con una sua cugina prima, la principessa Margherita di Savoia, figlia diciassettenne di Ferdinando di Savoia Genova, fratello di Vittorio Emanuele, e di Elisabetta di Sassonia. Bionda, alta, abbastanza bella ma con le gambe piuttosto corte, colta e comunicativa, sensibile e orgogliosa ma non dura, profondamente religiosa, piuttosto conservatrice in politica, Margherita aveva avuto la tipica educazione che i Savoia davano alle loro donne, sotto un’ istitutrice fredda e bigotta da piccola, e in seguito portata avanti da un’ altra più affettuosa che aveva saputo farle amare pittura e musica. La giovane Savoia Genova si circondava di intellettuali ed aveva molti interessi. In un primo momento Vittorio Emanuele si mostrò contrariato, sbottando in piemontese: «Ma l’ è na masnà!», cioè «Ma è una bambina!». Pare che tale convinzione fosse motivata dal fatto che non la vedeva da qualche tempo, ma di certo quando la incontrò la trovò così bella e florida per la sua età da scrivere prontamente al figlio: «Vieni a casa, ti ho trovato la sposa che fa per te.». In obbedienza all’ ordine del padre e suo Re, il principe ereditario partì da Milano il 28 gennaio 1868 alla volta di Torino, recandosi a Palazzo Chiablese ove lei abitava e con la massima indifferenza le fece la proposta di matrimonio. Legata alla terra d’ origine, tanto da rifiutare le nozze con il principe Carlo di Hohenzollern-Sigmaringen, futuro Re di Romania, la principessa fu contenta di sposare un reale italiano: «Sai quanto sono orgogliosa di appartenere a Casa Savoia, e lo sarei doppiamente come tua moglie!». Umberto accettò il matrimonio senza entusiasmo. I giovani principi si sposarono tre mesi dopo a Torino, il 22 aprile 1868, in una cornice sfarzosa come si conveniva a futuri monarchi. La cerimonia fu officiata nel duomo di San Giovanni, in una funzione svolta dall’ arcivescovo Alessandro Riccardi di Netro, assistito da Luigi Nazari di Calabiana e Andrea Casasola, arcivescovi di Milano e Udine, e da Giovanni Conti e Giovanni Battista Cerruti, vescovi di Mantova e Savona e Noli. Casa Savoia volle che fossero presenti, accanto a nobili e personalità di spicco della politica nazionale, anche le delegazioni operaie e semplici popolani. Per l’ occasione, Vittorio Emanuele istituì lo Squadrone Carabinieri Guardie del Re, meglio noto come corpo dei corazzieri, come scorta al corteo reale, e l’ Ordine della Corona d’ Italia per premiare tutti coloro che si sarebbero distinti al servizio del Paese. Il viaggio di nozze degli sposi reali rispose a precise esigenze politiche: il tragitto prevedeva di scendere lungo tutta la penisola per far conoscere alla neonata Italia i futuri sovrani, nell’ intento di creare una forte unità di sentimenti, dopo il raggiungimento di quella politica per quanto mancasse l’ ultima conquista, ossia la città di Roma. I principi si diressero quindi verso Firenze, capitale dal 1865. Altre città toccate furono Alessandria, Piacenza, Parma, Modena e Bologna. Dopo un soggiorno nella Villa reale di Monza, essi partirono per un viaggio ufficiale a Monaco di Baviera e a Bruxelles, dove vennero accolti calorosamente. Poiché occorreva continuare a trasmettere un messaggio unitario, si dispose che gli prendessero residenza a Napoli, presso la reggia di Capodimonte, residenza storica dei Borbone, così come dei Bonaparte e Murat: la città, ancora divisa tra la popolazione filoborbonica e quella favorevole ai Savoia, doveva sapere come la nuova famiglia reale avesse esteso i propri interessi, non limitandoli più al vecchio Piemonte.

Il 28 giugno 1869 fu dato l’ annuncio della gravidanza di Margherita, e i preparativi per la nascita scattarono con un certo fervore poiché si trattava del primo parto in seno alla Monarchia dopo l’ unificazione d’ Italia. Nel periodo precedente la nascita del bambino, la principessa passeggiava regolarmente lungo la Riviera di Chiaia, mostrandosi al popolo e vedendo aumentare nettamente la propria popolarità. L’ 11 novembre ebbe luogo la nascita di un figlio maschio, con parto cesareo. Nella stanza della reale gestante ci fu un simbolico affollamento: la presenza dei generali Roberto de Sauget e Enrico Cialdini, voluta dal Re, indicava come il nascituro appartenesse a una stirpe di soldati, mentre quella del principe Eugenio di Carignano, in rappresentanza di Vittorio Emanuele ancora convalescente che in quel periodo si era gravemente ammalato a San Rossore, e per qualche tempo era stato persino in pericolo di vita tanto che il 7 ottobre aveva creato scompiglio e imbarazzo sposando con matrimonio morganatico l’ amante Rosa Vercellana, reputata impresentabile per la sua provenienza popolana, del Presidente del Senato Gabrio Casati e del sindaco di Napoli Guglielmo Capitelli omaggiava la nascita del futuro capo dello Stato, dando rilevanza politica al momento. In quegli anni, il parto cesareo quasi sempre provocava la sterilità nella partoriente, e così fu per Margherita che accolse la notizia con serenità in quanto aveva generato un maschio con cui la successione al trono era assicurata. Una volta che lei si fu fisicamente ripresa, la famiglia si trasferì a Monza nella primavera del 1870.

Il neonato venne chiamato Vittorio Emanuele Ferdinando Maria Gennaro: un nome che in parte si calava nella tradizione sabauda, in onore al nonno paterno e a quello materno, così come nella tradizione cristiana e nel desiderio di esprimere vicinanza a Napoli con un chiaro riferimento al suo santo patrono. Perfino il titolo nobiliare che ricevette, ossia Principe di Napoli, volle essere un segnale di novità e apertura, tanto che in seguito si sarebbe alternato a quello di Principe di Piemonte abitualmente attribuito agli eredi al trono sabaudo.

 

Margherita con il neonato Vittorio Emanuele;

Nonostante l’ arrivo del figlio, il matrimonio tra Umberto e Margherita non si rafforzò. E’ possibile che in un primo momento lei non fosse al corrente della relazione di lui con la duchessa Bolognini, che nel frattempo era stata nominata sua dama d’ onore così da facilitare i loro incontri. Di certo ne divenne cosciente poco dopo le nozze, nell’ estate 1870, quando, entrando all’ improvviso negli alloggiamenti del marito, li trovò insieme. Si narra che minacciò di tornare dalla propria madre, e che si trattenne da un ordine dello zio suocero: «Solo per questo vuoi andartene?». Facendo appello alla sua forza di volontà, decise di rimanere accanto al consorte dichiarando di non considerarlo più marito, ma soltanto il suo futuro sovrano. Da quel momento, tra i due si creò una distanza sul piano privato ed intimo, ma priva di rancori. Apparivano insieme solamente in pubblico, attenendosi al ruolo di eredi al trono italiano e recitando la parte della famiglia esemplare in accordo con i valori fondamentali dell’ aristocrazia, tesi a dare il buon esempio. Il fallimento del matrimonio, noto solo in ristretti circoli di corte, fu mascherato con una parvenza di felicità usata convenientemente anche a fini politici: la loro immagine pubblica era quindi una finzione al servizio della ragion di Stato, atta ad impiegare l’ immagine della famiglia unita e felice come metafora di un’ Italia che stava crescendo forte dopo essere stata per secoli divisa in tanti staterelli in continua lotta reciproca. I Principi di Piemonte si prestavano come simbolo di una famiglia che non nascondeva piccole manifestazioni di affetto, come un bacio o una carezza al piccolo Vittorio Emanuele, rivelandosi un collante potente.

Nel 1870, Umberto e la bella Bolognina ebbero un figlio, Alfonso, molto cavallerescamente riconosciuto dal marito di lei per salvaguardare la reputazione della donna.

 

Il 1870 vide l’ ultimo passo per l’ unità d’ Italia. Con la sconfitta e la cattura a Sedan di Napoleone III, protettore del potere temporale del papato, durante la guerra tra Francia e Russia avvenuta il 1º settembre di quell’ anno, il contingente militare a protezione del pontefice venne ritirato da Roma. Le truppe italiane, con bersaglieri e carabinieri in testa, pochi giorni dopo, il 20 settembre, entrarono dalla breccia di Porta Pia ed espugnarono la città santa della cristianità. Papa Pio IX si ritirò nel Vaticano rifiutando di riconoscere il nuovo Stato e dichiarandosi prigioniero politico. Scomunicò Vittorio Emanuele II, ritenendo inoltre non opportuno e poi esplicitamente proibendo che i cattolici partecipassero attivamente alla vita politica italiana, da cui si autoesclusero per circa mezzo secolo con gravi conseguenze per la futura storia d’ Italia. Il governo italiano spostò ufficialmente a Roma la nuova capitale. Ormai buona parte della Penisola era sotto il controllo della Corona sabauda, con l’ eccezione del Trentino-Alto Adige e della Venezia Giulia rimasti all’ Impero d’ Austria.

Esauriti i motivi per risiedere a Napoli, Umberto e Margherita dovettero trasferirsi laddove ormai si svolgevano le basi della politica del Paese. Dopo la frettolosa visita di Re Vittorio Emanuele a Roma in dicembre dopo l’ inondazione del Tevere, furono loro a rappresentare effettivamente la famiglia reale nella nuova capitale. Il pomeriggio del 23 gennaio 1871 fecero quindi il loro ingresso a Roma, dopo che la mattina Vittorio Emanuele II era giunto «quasi clandestinamente», come si disse allora. L’ accoglienza fu migliore di quanto temuto, anzi, fu più calorosa di quella riservata al Re: la pioggia battente non aveva impedito a una folla numerosa di riunirsi per salutare i principi ereditari, né Margherita si risparmiò un gesto per accattivarsi le simpatie della popolazione. Dette infatti l’ ordine di scoprire la carrozza per essere visibile e le acclamazioni, secondo i testimoni, «salirono al cielo».

Umberto si dedicò con costanza ai suoi numerosi impegni di erede al trono, mentre Margherita occupò il posto lasciato vacante dalla suocera Maria Adelaide, accanto al Re. Fece del Quirinale un luogo di ricevimenti e feste, grazie ai quali l’ aristocrazia romana, dapprima ostile a Casa Savoia, si accostò gradualmente alla Monarchia. Non si trattava di frivolezza fine a sé stessa, ma di un investimento comunicativo che elevò la Corte sabauda ad una dignità pari di quella delle altre famiglie reali d’ Europa. Nella sala damascata di giallo, la Principessa di Piemonte riceveva ogni ultimo mercoledì del mese i principi stranieri, i nobili e i politici più influenti: si ballava, si conversava e si brindava, mentre lei si spostava da un crocchio ad un altro per mettere a loro agio gli ospiti. Come nessuno prima di lei, Margherita portò un tocco di eleganza che svecchiò le abitudini, dando alla Monarchia un lustro nuovo, per quanto costoso. La futura Regina diede quindi un forte impulso al miglioramento delle relazioni tra i Savoia e la locale aristocrazia rimasta devota al papato. Altrettanto accadde in Meridione, dove il peso dell’ unificazione era stato più grave. In breve tempo, l’ aristocrazia sia piemontese che quella romana e meridionale riscoprirono i piaceri della mondanità che erano ormai un ricordo di tempi andati. La Principessa di Piemonte faceva salotto con artisti e letterati, e a questo proposito si racconta che Umberto, molto meno interessato di lei alla cultura, a volte intervenisse per zittirla, sbottando: «Ma sta un po’ zitta, che mi fai venire male alla testa!».

 

Re Vittorio Emanuele II

Il 9 gennaio 1878, Vittorio Emanuele II morì, e Umberto gli succedette come secondo Re d’ Italia e quarantunesimo signore di Casa Savoia. Nello stesso giorno emanò un proclama alla Nazione: «Il vostro primo Re è morto; il successore vi proverà che le istituzioni non muoiono!». Scelse di chiamarsi Umberto I anziché IV, differentemente dal padre che il 17 marzo 1861, giorno in cui era stata proclamata la nascita del Regno d’ Italia, aveva scelto di preservare il prosieguo nominale sabaudo in rispetto della dinastia: il nuovo sovrano desiderava trasmettere un messaggio di unità nazionale. Il successivo 17 gennaio, giorno dei funerali del padre, accogliendo la petizione del municipio di Roma, predispose l’ inumazione della salma nel Pantheon di Roma, che fece diventare simbolicamente il mausoleo della famiglia reale. Infine, il 19 gennaio, prestò un solenne giuramento sullo Statuto Albertino nell’ aula di Montecitorio, alla presenza di senatori e deputati, pronunciando un memorabile discorso: «L’ Italia che ha saputo comprendere Vittorio Emanuele, mi prova oggi quello che il mio genitore non ha mai cessato d’ insegnarmi che la religiosa osservanza delle libere istituzioni è la più sicura salvaguardia contro tutti i pericoli. Questa è la fede della mia Casa. Questa sarà la mia forza. Sincerità di pensieri, concordia di amor patrio mi accompagneranno, ne sono certo, nell’ ardua via che prendiamo a percorrere; in fine della quale io non ambisco che meritare questa lode Egli fu degno del Padre.». Giurò poi: «In presenza di Dio, davanti alla Nazione, giuro di osservare lo Statuto, di esercitare l’ autorità reale in virtù delle leggi e conformemente alle medesime.».

La formula che aveva adottato era una novità: non la semplice osservanza della carta costituzionale, ma la subordinazione alle leggi votate dal Parlamento. Il nuovo Re riconobbe l’ istituzione parlamentare come il cuore dell’ assetto politico ed istituzionale del Paese. La consuetudine di presiedere il Consiglio dei ministri, cosa che Vittorio Emanuele aveva fatto nei primi anni di regno per poi perderla gradualmente negli anni, con Re Umberto cessò del tutto. Il secondo monarca si limitò a ricevere due volte la settimana il Presidente del Consiglio, il lunedì e il giovedì, per la relazione e la firma dei decreti. Umberto era molto differente dal padre: non mancava di garbo aristocratico e sapeva muoversi nei salotti nobiliari e nelle corti, ai modi genuini e talvolta popolani del genitore sostituì un’ immagine fredda e compassata, più vicina ai modelli regali consacrati. Se Vittorio Emanuele aveva rappresentato il Re del sentire comune che si trovava a proprio agio tra militari e cacciatori, Umberto era l’ espressione dell’ autorità monarchica, che si avvicinava al popolo senza mai mescolarsi con esso e che nel portamento e nella forma conservava sempre un forte tratto distintivo. Come militare prima e uomo di corte poi, corrispondeva al modello tradizionale di Casa Savoia, confermando l’ attitudine all’ etichetta aristocratica, muovendosi con disinvoltura e rivelandosi conversatore affabile. Sul piano religioso era un agnostico osservante, che in chiesa andava più per dare l’ esempio ai sudditi che non per convinzione personale, ma al tempo stessa denotava un saldo rispetto per la gerarchia.

 

Il giuramento di Re Umberto I;

Di statura media, robusto ed elegante, con la bocca socchiusa che gli conferiva un’ aria seria e un difetto nella voce dovuto a una faringite trascurata e divenuta cronica che lo rendeva rauco e dal tono apparentemente brusco, Umberto I non tardò a farsi amare dalla nazione, dando subito prova di tratti distinti, di generosità e della ferma volontà di mantenere lealmente le promesse fatte nel primo proclama e nel primo discorso.

Dovette fare i conti fin dal primo giorno con un’ eredità ingombrante. Pur privo di una particolare capacità politica, non venne mai meno ai valori di dovere, costanza, serietà, dedizione, modestia, decoro e fedeltà alla parola tipici dell’ aristocrazia, ed ebbe la fortuna di trovarsi al fianco della Regina consorte più popolare di sempre. Le condizioni dello Stato erano tutt’ altro che liete: le finanze erano malferme, la politica interna era agitata ed incerta, e assai difficili erano i rapporti con l’ estero. Molti e impegnativi erano quindi i problemi da affrontare per lui e il suo governo: in politica interna occorreva consolidare le basi dell’ unità nazionale appena gettate, mentre sul piano estero urgeva stabilire riconoscimenti e legami diplomatici con le maggiori potenze dell’ epoca. Il papato, dopo la morte di papa Pio IX in quello stesso anno e l’ elezione di Leone XIII, continuava a non riconoscere il Regno d’ Italia. Qua e là per la penisola vi erano fermenti irredentistici e repubblicani, uniti a propositi antiunitari di determinati circoli politici occulti, sia nazionali che esteri. Bisognava peraltro, e con assoluta fretta, creare un ampio fronte di riforme sociali di cui potessero godere le classi meno abbienti, rilanciando l’ economia nazionale già da troppo tempo stagnante. In questo panorama di difficoltà e impellenze occorreva favorire la coesione della neonata sudditanza: gli italiani delle diverse regioni si erano per secoli scontrati in una serie di rivalità meramente locali, provocando o anche sollecitando regolarmente la discesa di un capo straniero dopo l’ altro che li aiutasse nelle reciproche lotte private. A causa di questi disaccordi interni, tutti i conquistatori stranieri avevano sempre trovato appoggio concreto in notevoli settori della popolazione locale. Ora bisognava gettare una base comune in cui tutti potessero e dovessero coesistere, in una sola realtà che superasse i vecchi limiti e confini.

L’ Italia era ancora molto lontana da una rivoluzione industriale, ragion per cui restava penosamente arretrata. La Destra liberale, che aveva governato soprattutto durante gli Anni Sessanta, rappresentava gli interessi della borghesia settentrionale e dell’ aristocrazia meridionale. I suoi membri erano per lo più grandi proprietari terrieri, industriali, membri della nobiltà imborghesita, ed esponenti del mondo dei militari contrari a uno sviluppo industriale poiché temevano che si potesse sviluppare un proletariato che la contrastasse, e credevano che il Paese non avesse abbastanza materie prime. Il nuovo Stato era accentratore e il governo era stato eletto solo dal due percento della popolazione, in prevalenza l’ elettorato comprendeva grandi proprietari terrieri. I ceti popolari, le masse contadine, erano in condizioni sempre più miserevoli a causa anche della pressione fiscale imposta dalle istituzioni, come la tassa sul macinato che colpiva la farina, base dell’ alimentazione popolare, e la leva militare obbligatoria sottraeva forza lavoro all’ agricoltura. Inoltre i ceti popolari erano lontani dalla scolarizzazione: nonostante l’ unificazione politica, l’ Italia restava divisa sotto tutti gli aspetti. Gli alti dignitari politici, di formazione risorgimentale, erano nobili, avvocati e latifondisti quasi tutti di idee liberali e provenienti dai vertici dei vecchi regni preunitari. Divisi in due schieramenti politici, la Destra e la Sinistra, tali compagini presentavano evidenti affinità di pensiero che li rendevano strutturali al sistema monarchico anche se a Sinistra non mancarono aspirazioni democratiche e repubblicane. Si trovarono così a governare un Paese di quasi ventidue milioni di abitanti che vivevano in condizioni molto difficili.

I primi governi adottarono quindi un modello di Stato centralista alla maniera francese, in luogo di un auspicato ma parziale decentramento amministrativo: un’ amministrazione centrale, secondo i più, avrebbe garantito una maggiore omogeneità e compattezza delle istituzioni e avrebbe consentito di attuare una gestione forte e autorevole dei rapporti con la sudditanza. L’ età umbertina si aprì con il bisogno di creare un’ identità nazionale basata sulla valorizzazione di Casa Savoia come simbolo unitario. Il profilo politico di Umberto differì molto da quello del padre: conciliante e non amante dei conflitti aperti, temporeggiatore, fatalista. Se Vittorio Emanuele era stato accentratore e costantemente determinato a ricordare a tutti di essere il Re, prendendosi ampi spazi di protagonismo complice il ruolo svolto nell’ unificazione italiana, il nuovo sovrano italiano fu più assoggettato ai dettami del Parlamento. Uno dei primi provvedimenti che Umberto dovette affrontare furono le dimissioni, il 9 marzo, del governo di Agostino Depretis, guida della Sinistra storica. Non ritenendo conveniente riaffidargli l’ incarico di Presidente del Consiglio, il Re scelse Benedetto Cairoli, alla testa della Sinistra moderata e politico che molto stimava. La politica del trasformismo portata avanti da Depretis, che prevedeva il coinvolgimento di tutti i deputati che volessero appoggiare un governo progressista a prescindere dagli schieramenti politici tradizionali, aveva tolto al sovrano una delle sue fondamentali prerogative istituzionali, ossia la possibilità di inserirsi tra le divisioni politiche per esercitare un ruolo vincolante e imparziale. Tuttavia, ridurre il ruolo che Umberto avrebbe esercitato a quello di «Re che regna ma non governa» sarebbe un’ inesattezza in quanto la figura del monarca in Italia avrebbe conservato un certo peso, per quanto mutevole in base agli equilibri politici, confermandolo come arbitro terzo nei processi politici decisionali. Lungi dall’ essere un Re pigro e rinunciatario come talvolta sarebbe stato descritto, Umberto tentò di occupare i principali spazi sul panorama politico. Considerandone le grandi ambizioni, analogamente al genitore diffidava della borghesia e della sua fedeltà al patto di alleanza che avrebbe portato all’ Italia unita, e nella sua azione istituzionale volle sempre custodire le prerogative dell’ autorità reale. Consapevole di non poter arrestare l’ evoluzione sostanziale del sistema monarchico in senso parlamentare, benché formalmente la Monarchia restasse di tipo costituzionale, il monarca si garantì l’ egemonia sulle forze armate, che nel 1879, a un anno dall’ incoronazione, assunsero il nome di Regio Esercito, mentre nel 1882 promosse l’ istituzione di Capo di stato maggiore dell’ Esercito, la cui figura andò a sostituirsi a quella del Ministro della Guerra evitando ingerenze delle forze politiche negli ambienti militari e preservando una connessione diretta con il sovrano, a cui l’ ufficialità avrebbe potuto sempre rivolgersi qualora la politica avanzasse pretese. Lo stesso regnante avrebbe potuto contare sugli apparati di forza dello Stato scavalcando il momento della mediazione politica.

 

Ritratto eseguito nel 1878;

Appena salito al trono, il Re predispose subito un tour nelle maggiori città del Regno al fine di mostrarsi al popolo e guadagnare almeno una parte della notorietà di cui aveva goduto il padre durante il Risorgimento. Venne accompagnato dalla moglie Margherita, dal figlio Vittorio Emanuele di appena nove anni e dal Presidente del Consiglio Cairoli. Partito da Roma il 6 luglio 1878, raggiunse La Spezia, Torino, Milano, Brescia e, il 16 settembre, a Monza, dove assistette all’ inaugurazione del primo monumento dedicato al padre Vittorio Emanuele. Il 4 novembre la famiglia reale raggiunse Bologna. Tre giorni dopo era a Firenze, il 9 novembre a Pisa e a Livorno, il 12 novembre ad Ancona, l’ indomani a Chieti e poi a Bari. Il 16 novembre, alla stazione di Foggia, un certo Alberigo Altieri tentò di lanciarsi verso il sovrano: venne fermato in tempo, tanto che quasi nessuno si avvide del fatto e nemmeno la stampa ne fece parola. Tuttavia le indagini della polizia portarono a scoprire come il giovane non avesse agito da solo, ma nell’ ambito di «un complotto per l’ assassinio dell’ Augusto sovrano» che aveva «il proposito di farne eseguire il tentativo nelle diverse città visitate».

Appena il giorno dopo, sarebbe avvenuto un fatto anche peggiore. Giunto a Napoli, Umberto subì un tentativo di assassinio che fece molto clamore: insieme alla moglie, al figlio e al Presidente del Consiglio Cairoli si trovava su una carrozza scoperta che si stava facendo largo tra due ali di folla. Il capo di governo si accorse di dare la sinistra al piccolo Principe di Napoli e fece per cambiare di posto, ma il Re lo trattenne venendo attaccato proprio in quell’ attimo con un coltello dall’ anarchico Giovanni Passannante, che non riuscì nel proprio intento colpendo Cairoli alla coscia gridando: «Viva Orsini, viva la repubblica universale!». Umberto subì un leggero taglio a un braccio, e un ufficiale dei Corazzieri del seguito si scagliò contro l’ attentatore, ferendolo alla testa con la sciabola. Il principe Vittorio Emanuele si ritrovò con la divisa di marinaretto imbrattata dal sangue di Cairoli ma rimase impassibile, anche se poi la stessa sera scoppiò in un pianto dirotto tra le braccia della sua tata irlandese. Dopo l’ attentato, poco prima di un pranzo ufficiale, il Re volle ironizzare su quanto accaduto: «Signori, pensiamo ai poveri digiuni, andiamo a desinare... anche per un po’ di riguardo ai cuochi... che vedete cosa fanno!...».

L’ attentato sconvolse tutta l’ Italia, suscitando opposti sentimenti: da una parte vi erano cortei di protesta solidali nei confronti del Re, dall’ altra invece vi erano coloro che elogiavano l’ attentatore. Non mancarono scontri tra forze dell’ ordine e anarchici. Il giorno dopo, il monarca fu visitato da numerosi esponenti della nobiltà e della politica meridionale, tra cui i lucani Ascanio Branca, Salvatore Correale e Giuseppe Imperatrice, che espressero rincrescimento per il fatto che Passannante fosse un loro conterraneo. Umberto li rincuorò promettendo di fare una visita in Basilicata il prima possibile. Ad un mese dal tentato regicidio, l’ allora Capo della Polizia Luigi Berti fu costretto a rassegnare le dimissioni.

La notizia dell’ attentato fece il giro d’ Europa. Alcuni organi di stampa sia italiani che stranieri condannarono l’ attentatore rivolgendogli più accuse, alcune persino prive di fondamento o puramente inventate. Alcuni giornali esteri espressero svariate opinioni: la testata tedesca Kölnische Zeitung auspicò che l’ attentato servisse come monito allo Stato italiano per comprendere meglio i bisogni del ceto subalterno, mentre il britannico Daily News vide nel malcontento e nella miseria i fattori che spinsero l’ anarchico ad armarsi, mentre il Satana di Cesena, che in seguito sarebbe stato soppresso con l’ accusa di propaganda contro il Re e le istituzioni, non lo considerò un assassino ma un «infelice affascinato» dei mali che turbarono la società del tempo. L’ economista belga Émile de Laveleye vide nel gesto di Passannante un «avvertimento», un attentato non rivolto al sovrano ma alla Monarchia: «Non la monarchia come istituzione politica, ma come simbolo dell’ ineguaglianza sociale.». Il gesto di Passannante spinse Umberto al garantire alcuni sussidi al popolo e in comuni come Torre Annunziata, Castel di Sangro, San Buono vennero distribuiti, gratuitamente, cibo e abiti ai più poveri.

Il 6 e il 7 marzo 1879, davanti a una folla gremita, venne celebrato il processo al mancato regicida, la cui difesa fu affidata all’ avvocato Leopoldo Tarantini. L’ imputato venne condannato a morte, e Tarantini fece ricorso in Cassazione, ma venne respinto. Lo stesso Passannante era contrario: egli non cercava la grazia poiché, disse, non avrebbe portato alcun vantaggio alla sua causa mentre la morte lo avrebbe reso un «martire politico» e avrebbe giovato alla rivoluzione. Dopo il diniego della Cassazione, il legale preparò una domanda di grazia da consegnare al Re, ultima alternativa rimasta. Con Regio Decreto del 29 marzo 1879, Umberto concesse la grazia a Passannante, commutando la pena in ergastolo. Firmò il decreto di propria iniziativa, dicendo al Ministro di Giustizia: «Ho deciso di far grazia a Passannante: egli era un povero illuso.». La notizia della clemenza del monarca fece il giro del Belpaese, e venne accolta positivamente da gran parte dell’ opinione pubblica e della stampa. A grazia ricevuta, l’ anarchico, pur avendo ringraziato il Re, scrisse una lettera in cui lo considerava ancora un nemico: la missiva venne però sequestrata dal direttore del carcere. Passannante avrebbe scontato la pena a Portoferraio, sull’ isola d’ Elba: la sua prigionia fu spietata e lo condusse alla follia, sollevando un enorme scandalo nell’ opinione pubblica. Venne trasferito in manicomio, ove passò il resto della sua vita.

 


Dopo i fatti di Napoli, il sovrano, riconoscente, assegnò al Presidente del Consiglio la medaglia d’ oro al valor militare, ma il Parlamento, pur ammirandone il coraggio e la devozione, rimproverò il governo circa la cattiva gestione della politica interna, in particolare riguardo alla sicurezza del Re e dello Stato. Fu quindi presentata un’ interrogazione parlamentare che si concluse l’ 11 dicembre di con le dimissioni di Cairoli, a cui succedette Depretis che, tuttavia, venne battuto alla Camera dei deputati appena sette mesi dopo, il 3 luglio 1879, dovendo cedere il posto a Cairoli, che non avendo la maggioranza parlamentare necessaria dovette coinvolgere parte della Sinistra moderata guidata da Depretis, che fu nominato Ministro dell’ Interno. Uno dei problemi più urgenti che il governo dovette affrontare fu la soppressione della tassa sul macinato, che aveva sì permesso il raggiungimento del pareggio di bilancio nel 1876, ma aveva causato l’ ostilità della popolazione per l’ aggravio sui beni di prima necessità, ovvero i cereali.

Lo stesso Umberto, il 26 maggio 1880, all’ apertura della XIV legislatura parlamentare, pronunciò un discorso in cui si augurava che il Parlamento desse seguito all’ abolizione della tassa sul macinato, del corso forzoso e alla riforma elettorale. Così, dopo una serrata discussione parlamentare, il 30 giugno 1880 la Camera votò la riduzione progressiva della tassa sul macinato, che sarebbe stata abolita definitivamente quattro anni dopo, mentre il 23 febbraio 1881 fu abolito il corso forzoso, in vigore dal 1866.

Il 25 e il 27 gennaio 1881 il Re mantenne la promessa fatta di visitare la Basilicata, soggiornando con la Regina consorte a Potenza e presenziando all’ inaugurazione del teatro Francesco Stabile. Nello stesso periodo visitarono ufficialmente la Sicilia e la Calabria. Quando giunse a Reggio Calabria, Umberto si lasciò andare a un bagno di folla, dicendo gioiosamente alle forze di sicurezza, preoccupate della sua incolumità: «Fate largo, sono in mezzo al mio popolo!».

 

Per quanto riguarda la politica interna, il monarca affiancò l’ operato dei suoi governi nel progetto di rafforzamento interno dello Stato. Fu proprio durante il suo regno che si definì la figura del Presidente del Consiglio, che raggiunse il culmine nel 1890 durante il mandato di Francesco Crispi, figura di rilievo del Risorgimento: delegando il potere esecutivo al Presidente del Consiglio, non presiedendo quindi il governo e limitandosi a firmare i provvedimenti del ministero, si assumeva con il tempo anche responsabilità collettive e parlamentari.

Proprio in quegli anni l’ Italia patì le conseguenze della Lunga depressione, una crisi economica che ebbe inizio a Vienna nel 1873 e si propagò anche negli Stati Uniti d’ America, protraendosi sino alla fine del secolo. Il mondo sviluppato conobbe prima una crisi agraria, cui si aggiunse poi una parallela crisi industriale con forti riduzioni della domanda, profitti marginali calanti e scarsa circolazione monetaria. Nel Regno d’ Italia ciò portò a insurrezioni e moti che portarono Umberto a maturare un atteggiamento autoritario che lo portò a firmare provvedimenti come lo stato d’ assedio. Appoggiò quindi i governi ultraconservatori del Marchese Antonio Starabba di Rudinì, in carica dal 1896 al 1898, e di Luigi Pelloux, dal 1898 al 1900, la cui linea dura rafforzò le tensioni sociali in tutta la penisola. Nel 1889 avvenne la riforma del codice penale, comunemente detto Codice Zanardelli dal nome di Giuseppe Zanardelli, l’ allora Ministro di Giustizia che ne promosse l’ approvazione. Nella relazione al Re, Zanardelli si sostenne: «Le leggi devono essere scritte in modo che anche gli uomini di scarsa cultura possano intenderne il significato; e ciò deve dirsi specialmente di un codice penale, il quale concerne un grandissimo numero di cittadini anche nelle classi popolari, ai quali deve essere dato modo di sapere, senza bisogno d’ interpreti, ciò che dal codice è vietato.». Zanardelli riteneva che la legge penale non dovesse mai dimenticare i diritti dell'uomo e del cittadino e che non dovesse guardare al delinquente come ad un essere necessariamente irrecuperabile: non occorreva solo intimidire e reprimere, ma anche correggere ed educare.

Il Codice Zanardelli era un codice di impronta nettamente liberale, e ammetteva una certa libertà di sciopero. La riforma venne approvata con il consenso pressoché unanime di ambedue le aule parlamentari.

 

Durante il suo regno, Re Umberto portò solidarietà alle popolazioni colpite da calamità naturali, intervenendo in prima persona sia in visita sul posto che con aiuti materiali e opere risanatrici. Già nel 1872, quando era ancora principe ereditario, si era recato in Campania tra gli sciagurati dell’ eruzione del Vesuvio. Appena salito al trono, nel 1879, assistette i siciliani colpiti dall’ Etna e nel 1882 andò in Veneto, deturpato da piogge torrenziali. Nel 1884, atteso ad un ricevimento mondano a Pordenone, declinò l’ invito e raggiunse Napoli, colpita dal colera, occasione in cui pronunciò una famosa frase che venne peraltro incisa su di una stele a ricordo del triste evento: «A Pordenone si fa festa, a Napoli si muore. Vado a Napoli.». Nel 1888 compì un gesto politicamente importante e personalmente coraggioso: visitò la Romagna, una terra tradizionalmente ostile alla Monarchia e quindi molto pericolosa per la prevalenza di repubblicani, socialisti e anarchici. In preparazione, vennero svolte apposite manovre militari, a scopo dissuasivo. In realtà la visita si svolse senza incidenti perfino a Forlì, patria di Aurelio Saffi, uomo di riferimento dei repubblicani. Ad accogliere il Re intervenne anche l’ ex Presidente del Consiglio Alessandro Fortis.

Per la sua proverbiale attenzione alle fasce deboli della popolazione e alla tendenza a muoversi tra la folla rispondendo con compostezza aristocratica accompagnata da pregevole cordialità venne soprannominato «Re Buono».

 

Nel 1893, il sovrano italiano fu implicato nel clamoroso scandalo della Banca Romana, primo sconvolgente caso di corruzione e losco intreccio tra potere politico, finanziario e mediatico che, tra il 1890 e il 1895, scosse dalle fondamenta della giovane Italia. Vi furono coinvolti protagonisti come Crispi, il Marchese Rudinì e l’ allora Presidente del Consiglio, Giovanni Giolitti. Subito dopo la sua proclamazione a capitale nazionale nel 1871, Roma aveva conosciuto uno sviluppo impetuoso. Migliaia di torinesi erano arrivati al seguito della nuova amministrazione statale, faccendieri e avventurieri di ogni risma compresi. Nei successivi vent’ anni passò da duecentomila a quattrocentomila abitanti, e la Banca Romana prese a scontare cambiali ai costruttori, aiutando la sfrenata speculazione edilizia. Si racconta che, quando nel 1881 Bernardo Tanlongo, accettò la nomina a Governatore della Banca Romana, i suoi familiari sparsero amare lacrime, presagendo future disgrazie. L’ istituto di credito era già in pessime condizioni, con una circolazione eccessiva di crediti spesso non riscuotibili. Tanlongo si buttò a capofitto nel vortice edilizio, assicurandosi la compiacenza di uomini politici e giornalisti, per cifre ragguardevoli. Quando il funzionario del Tesoro scoperchiò il baratro da lui creato, rimase allibito: nella cassa della Banca mancavano oltre nove milioni di lire e, per rimediare, il Governatore aveva fatto stampare occultamente nove milioni e cinquantamila lire. Tanlongo finì in carcere per qualche tempo, insieme ad altri complici come il direttore di un quotidiano romano, ma alla fine tutti quanti vennero assolti: tutti e nessuno era colpevole.

Sul processo pesò anche la presenza invisibile di Re Umberto che, alla vigilia del processo, fu accusato di aver trasferito all’ estero una somma notevole proveniente dalla Banca Romana a titolo non accertato, che sarebbe servita per mantenere la pletora di amanti che gli venivano attribuite, come la bella Bolognina. Naturalmente il suo nome non fu mai fatto in sede processuale: il pericolo che venisse fuori anche solo incidentalmente, in sede di testimonianza o per illazioni della stampa sulle stesse, portò alla decisione di stralciare dagli atti qualsiasi riferimento a questa somma di danaro, il cui ammanco rimase alla lunga ingiustificato e sortisce proprio l’ effetto di alimentare voci incontrollate che solo il potere di Casa Savoia poté insabbiare, insieme all’ aiuto di Giolitti, che gli avrebbe garantito la copertura dei debiti in virtù della lealtà alla Monarchia e dell’ appoggio ricevuto dalla famiglia reale in passato.

 

Stampa celebrante la Triplice Alleanza;

In politica estera, Umberto I proseguì sulla strada tracciata negli ultimi anni dal padre, avvicinandosi progressivamente agli Imperi dell’ Europa centrale e firmando l’ adesione nel 1882 alla Triplice Alleanza tra Italia, Austria e Germania. Il patto militare difensivo alla base di questo accordo inizialmente fu voluto principalmente da Roma, nel desiderio di rompere il proprio isolamento dopo la conquista francese della Tunisia, alla quale anch’ essa aspirava. Successivamente, con il mutarsi della situazione in Europa, l’ alleanza fu sostenuta soprattutto dalla Germania al fine di isolare politicamente la Francia. Il movente di questo nuovo cambio di fronte, a seguito degli aiuti francesi al tempo del Risorgimento, fu estremamente concreto: dopo il 1870 la Francia era una Repubblica sconfitta, quindi inutile come alleata, mentre Austria e Germania erano ancora forti e governate saldamente da sovrani conservatori ma non reazionari. Al fianco di Francesco Giuseppe e Guglielmo I, il Re d’ Italia in cuor suo era consapevole di non poter aspirare a un ruolo pari al loro, ma al tempo stesso l’ Italia avrebbe goduto di una posizione di prestigio internazionale. Proprio in quel periodo, inoltre, il governo di Agostino Depretis venne a sapere che papa Leone XIII stava consultando i Ministri degli Esteri stranieri a proposito di un loro possibile intervento al fine di ristabilire lo Stato Pontificio: l’ appoggio dell’ Impero austriaco, la nazione cattolica più prestigiosa, sarebbe stato di grande utilità per l’ Italia al fine di impedire un’ azione europea in aiuto del papato. Per Roma, la conclusione di un’ alleanza con due potenze conservatrici sarebbe valsa ad assicurare la Monarchia sabauda sia di fronte ai movimenti repubblicani di ispirazione francese, che dall’ intervento di potenze straniere intente a restaurare il regno papale.

In appoggio all’ iniziativa diplomatica, fra il 21 e il 31 ottobre 1881 Umberto e Margherita fecero visita a Vienna a Francesco Giuseppe e alla moglie Elisabetta. Umberto e Francesco Giuseppe I erano cugini di secondo grado, essendo rispettivamente nipoti dell’ Imperatore Francesco II d’ Austria e del fratello minore Ranieri Giuseppe d’ Asburgo Lorena, quindi entrambi trisnipoti di Francesco I e Maria Teresa d’ Asburgo Lorena. Il Re e la Regina consorte d’ Italia fecero un’ ottima impressione alla Corte viennese, soprattutto Margherita, che per grazia ed eleganza venne paragonata all’ Imperatrice d’ Austria. Lo stesso Umberto, rigido, severo e austero, fece una così bella figura che il cugino e antico avversario gli concesse la nomina a colonnello onorario del XXVIII Reggimento fanteria: il gesto non mancò di suscitare polemiche in Italia presso, visto che il reggimento austriaco di cui il Re era stato fatto colonnello era lo stesso che aveva partecipato alla battaglia di Novara del 1849 e all’ occupazione di Brescia, partecipando attivamente alla spietata repressione che causò la morte di migliaia di uomini, donne e bambini bresciani.

 

I reali italiani ospiti di quelli austriaci;

Il 22 aprile 1897 il Re subì un secondo tentativo di assassinio. Mentre si recava alle corse ippiche sull’ Appia, organizzate in occasione del ventinovesimo anniversario del suo matrimonio con Margherita, un anarchico di nome Pietro Acciarito si mescolò tra la folla che salutava il suo arrivo di Umberto I presso l’ ippodromo delle Capannelle e si buttò verso la sua carrozza armato di coltello. Umberto notò tempestivamente l’ attacco e riuscì a schivarlo, rimanendo illeso. Acciarito venne arrestato e condannato all’ ergastolo. Analogamente a Giovanni Passannante, la sua pena fu molto rigida ed ebbe gravi conseguenze sulla sua salute mentale. Come in occasione del primo tentato regicidio, si ipotizzò una cospirazione antimonarchica, sebbene Acciarito avesse smentito tutto dichiarando di aver agito da solo, e vennero arrestati diversi esponenti socialisti, anarchici e repubblicani, sospettati di aver avuto legami con l’ estremista. Tra questi venne incarcerato un altro anarchico di nome Romeo Frezzi, un amico di Acciarito, perché in possesso di una sua foto: morì al terzo giorno d’ interrogatorio. Sorsero varie dicerie sul suo decesso, tra suicidio e aneurisma, sebbene l’ autopsia confermò che avvenne per sevizie subite dagli agenti di pubblica sicurezza, nel tentativo di estorcere una confessione di connivenza con Acciarito. La vicenda suscitò sommosse popolari contro la Monarchia.

 

Mentre cominciavano i primi segni della crisi economica che culminò nel quinquennio tra il 1888 e il 1893, in cui ebbe luogo peraltro una fortissima migrazione alla volta dei Paesi europei vicini e degli Stati Uniti, per non essere da meno rispetto alle grandi potenze contemporanee Umberto appoggiò con convinzione la politica di espansionismo coloniale dei governi Depretis e Crispi, acquisendo l’ Eritrea nel 1882 e la Somalia nel 1889, mentre con la sconfitta di Adua del 1896 fallì il tentativo di conquistare l’ Etiopia. La politica coloniale fu dispendiosa e purtroppo non portò gli attesi benefici derivanti dall’ apertura di nuovi mercati e il cui costo dovette essere ripagato con l’ aumento delle imposte. Con le dimissioni di Crispi finì anche l’ avventura coloniale.

 

Umberto e Vittorio Emanuele nel 1893;

Dopo il periodo della Lunga depressione, nel 1895 iniziò la fase di espansione dell’ economia italiana, un vero e proprio primo decollo industriale. Il Paese aveva bisogno di vivere un periodo di stabilità sociale e di pace internazionale per favorire i propri commerci. I socialisti, dopo la dura repressione adottata da Crispi, si riorganizzarono, e il giorno di Natale 1896 fecero uscire il primo numero del loro quotidiano Avanti!. Il mondo cattolico non fu da meno: intorno al giornale Democrazia cristiana iniziò a coagularsi un movimento che sosteneva l’ impegno diretto in politica, contro l’ atteggiamento intransigente dell’ Opera dei Congressi cattolica, che continuava la ferma e dura protesta contro lo Stato liberale sabaudo, chiedendo ai credenti di non partecipare alle elezioni.

Mentre nel Paese crescevano tali fermenti democratici, ci fu chi tra gli industriali, gli agrari e gli ambienti militanti decise di rivolgersi al Re per mezzo di Sidney Sonnino, un importante esponente del conservatorismo liberale che chiese alla Corona di riprendere i poteri. Disse il gentiluomo: «Maestà, vigilate a mantenere integre le funzioni affidatevi e che i successivi ministeri hanno lasciato che Vi fossero usurpate o hanno cercato di carpirVi.

A Voi solo spetta il potere esecutivo. A Voi solo spetta la nomina e la revoca dei ministri che debbono controfirmare e rispondere dei vostri atti di governo. La nazione guarda a Voi, e fida in Voi.». Ai prefetti vennero inviate circolari nelle quali li si invitava ad operare una stretta sorveglianza sui partiti indicati come sovversivi e sulle stesse organizzazioni cattoliche. Che ci fosse un profondo malessere sociale, dovuto anche al crescente squilibrio fra Settentrione e Meridione, era cosa palpabile. Pur in presenza di una ripresa economica nelle regioni nordiche, favorita anche dai bassi salari e dalle pesanti condizioni di lavoro, erano aumentati gli italiani, specie nel Meridione, che sceglievano la via delle emigrazione. Nel Settentrione iniziò un’ ondata di scioperi nelle fabbriche.

Nel 1898, a causa della Guerra ispano-americana che aveva determinato l’ aumento dei noli marittimi, il prezzo del grano arrivò quasi a raddoppiare e il governo, che da questa tassa che colpiva uno degli alimenti di base delle classi povere traeva importanti entrate, tardò a ridurlo. Quando infine si decise a eliminarlo, i moti popolari erano ormai incontrollabili. Non si trattava di una rivolta politica, in nome di un’ ideologia: era la ribellione di un popolo povero e affamato verso una Monarchia e un governo che percepiva lontani dai propri problemi. Quando, tra il 6 e il 9 maggio, scoppiarono nuovi tumulti a Milano, il generale Fiorenzo Bava Beccaris proclamò lo stato d’ assedio e affrontò a cannonate i dimostranti: si contarono almeno ottantatré morti e centinaia di feriti. Seguì un’ondata di arresti e vennero soppresse moltissime associazioni sindacali, partiti, cooperative e Camere del lavoro, oltre a un centinaio di giornali. I progressisti più in vista furono arrestati e condannati a pene durissime: ricordiamo i dodici anni inflitti a Turati e i tre a don Davide Albertario, il sacerdote, direttore della rivista L’ Osservatore cattolico, che aveva osato dire: «Il popolo vi ha chiesto pane e voi avete risposto piombo.».

Di fronte alla sanguinosa e dura repressione, Re Umberto concesse a Bava Beccaris la croce di Grand’ ufficiale dell’ Ordine di Savoia con la motivazione: «Grande servizio reso alle istituzioni e alla civiltà.».

La concessione dell’ onorificenza al generale per il sanguinoso intervento adottato per placare le proteste milanesi e l’ accettazione negli ultimi anni dell’ autoritarismo e del conservatorismo intrapresa dai suoi governi fecero di Umberto un monarca molto discusso, per quanto in molti compresero il suo timore dinnanzi all’ avanzata del movimento socialista e ai tentativi di assassinio in nome dell’ ideologia anarchica. Proprio dagli anarchici, ricevette il soprannome di «Re Mitraglia», che contrapposero a quello di «Re Buono».

 

Il generale Bava Beccaris;

Come era consueto in Casa Savoia così come in molte altre famiglie reali, il sovrano italiano non fu mai un padre presente e neppure affettuoso nei riguardi del figlio Vittorio Emanuele, a cui generalmente si rivolgeva come Re e superiore nella gerarchia militare. Dopo la nascita a Napoli ne aveva disposto l’ affido a una balia locale per l’ allattamento, mentre per la sua prima educazione Margherita aveva scelto una bambinaia irlandese di nome Elizabeth Lee, detta familiarmente Bessie, vedova di un ufficiale britannico e soprattutto cattolica osservante. Ella sarebbe rimasta per quattordici anni assieme al giovane Principe di Napoli, e fu probabilmente la sola persona per la quale egli avesse mai sviluppato affetto filiale. Figlio unico di cugini primi, gracile e smunto, alto solo un metro e cinquantatré, con gambe sproporzionatamente corte rispetto al resto del corpo, deboli e storte, e ogni esercizio fisico un po’ intenso gli provocava violenti dolori che gli rendevano difficile anche stare in piedi, un problema che si presentava soprattutto dopo aver lungamente montato a cavallo. Alla sua nascita, negli ambienti clericali romani si era insinuata la voce che le carenze fisiche del neonato erede al trono fosse il castigo divino contro una dinastia che aveva perpetrato il crimine della presa città santa del mondo cristiano, mentre altri più verosimilmente attribuirono il fatto ai troppo frequenti matrimoni tra cugini. Umberto non nascondeva affatto l’ irritazione di avere un figlio che gli pareva un povero storpio, e non esitò mai a dirglielo brutalmente in faccia, attribuendo la causa dei suoi limiti esteriori alla propria consanguineità con la consorte. Persino la madre Margherita era molto fredda nei suoi confronti. L’ erede al trono crebbe nel tipico ambiente familiare sabaudo, rigido e militare, e come suo precettore era stato scelto il colonnello di Stato Maggiore Egidio Osio, su suggerimento del principe Federico di Germania, dopo un periodo trascorso come responsabile militare all’ ambasciata italiana a Berlino: uomo molto duro, imperioso e abituato al comando, quest’ ufficiale con alcuni trascorsi nelle campagne risorgimentali impresse al principe ereditario un’ educazione sul modello prussiano del Re in arme.

Umberto e Margherita, che mangiavano con il figlio solo due volte a settimana, non si occuparono mai del figlio ed erede. In quegli anni difficili, tuttavia, si preoccuparono circa la questione del suo matrimonio: nessun Savoia era mai giunto alla soglia dei venticinque anni ancora scapolo, ma lui non mostrava alcuna intenzione di sposarsi. Questo divenne un tema di importanza notevole all’ interno della Triplice Alleanza, di cui l’ Italia faceva parte: lo stesso Imperatore Guglielmo II di Germania se ne interessò e, approfittando di una visita a Berlino del Principe di Napoli, lo affrontò di petto redarguendolo: «Perché non vi decidete a prendere moglie?». Seppur molto giovane, Vittorio Emanuele dimostrò caparbietà tenendogli testa e invitandolo a non impicciarsi negli affari suoi. Alla fine, nel 1896, venne combinato un matrimonio tra lui e la principessa Elena del Montenegro, la cui famiglia, Casa Petrović-Njegoš, era molto legata da vincoli politici e familiari ai Romanov di Russia: il matrimonio con un’ esponente della più antica famiglia di principi balcanici, nonostante la relativa povertà e l’ inferiorità del lignaggio se comparato a quello sabaudo, rafforzava la politica italiana nelle regioni al di là del Mare Adriatico, sebbene in molti negli ambienti di corte e politici a storsero il naso al pensiero di questa unione, ricordando quanto i Savoia fossero la più antica famiglia reale europea dopo gli Hohenzollern, mentre Nicola I del Montenegro proveniva da un casato recente e meno rilevante. Il giovane Vittorio Emanuele era all’ oscuro dell’ interesse che il governo aveva nell’ indirizzarlo verso Elena, ma dimostrava un autentico interesse nei suoi riguardi, tanto che decise di parlarne ai genitori. Era timoroso che il freddo e autoritario padre s’ incollerisse analogamente alla madre per questa sua infatuazione: invece, per sua grande sorpresa, entrambi i genitori furono talmente felici da gettargli pure le braccia al collo in un raro momento di tenerezza.

Il matrimonio, per nulla sfarzoso, fu celebrato al Quirinale con rito civile, seguito da quello religioso cattolico nella basilica di Santa Maria degli Angeli e dei Martiri il 24 ottobre 1896. A celebrare le nozze fu monsignor Piscicelli, Gran Priore di Bari. Durante la cerimonia, secondo l’ etichetta, nel momento in cui gli fu chiesto se voleva unirsi in matrimonio con la principessa montenegrina, Vittorio Emanuele si volse verso il padre per domandargli: «Padre mio, me lo permettete?». Dovette ripetere la domanda, in quanto il Re suo padre si era addormentato e si ridestò con una gomitata al fianco da parte di Margherita.

 

Il Re e la Regina cosorte al matrimonio del figlio;

Il 29 luglio 1900 Umberto fu invitato a Monza alla cerimonia di chiusura del concorso ginnico organizzato dalla società sportiva Forti e Liberi. Non era tenuto a presenziare, ma fu convinto dalla circostanza che al saggio sarebbero state presenti le squadre di Trento e Trieste. Per lui e Margherita fu un giorno ordinario, come tanti altri che avevano trascorso in oltre trent’ anni di soggiorni alla residenza reale locale. Il Re si svegliò alle 7:30 in punto, dopo una notte afosa in cui la temperatura aveva superato i trentasei gradi. Alle 9:00 si fece la solita cavalcata nel parco, scendendo alle scuderie dalla porticina segreta nascosta da un’ anta d’ armadio nella stanza guardaroba attigua alla sua camera da letto, la stessa che usava per filare via dalla bella Bolognina. Aveva cinquantasei anni e baffoni immacolati grandi e tesi come un manubrio. Alle 11:00 si congedò dalla storica amante, promettendole un’ altra visita per la sera, quando sarebbe rientrato dalla cerimonia alla palestra. Mezz’ ora dopo, ricondusse il cavallo nella scuderia risalì nel proprio studio, per darsi alla lettura della corrispondenza, tra cui era presente un telegramma del figlio che gli annunciava l’ imminente rientro dalla crociera intrapresa con la nuora a bordo dello Jela tra l’Asia Minore e la Grecia. Ne parlò a Margherita a colazione, fissata come di consueto alle 12:30. Chiese alla moglie se intendesse accompagnarlo all’ evento della Forti e Liberi, ma lei gli rispose che preferiva restare lì, a conversare con le sue dame e pochi altri invitati. Sentendolo tossire ripetutamente, la Regina consorte gli suggerì di rinunciare a sua volta all’ impegno: il caldo umido e l’ eccesso di sudorazione avrebbero potuto nuocergli seriamente. Ma Umberto la rassicurò: aveva dato la sua parola e poi il tutto non sarebbe durato che una mezz’ oretta. Oramai erano come fratello e sorella, anzi come due veri e affiatati cugini. Il Re tossì perché, di nascosto da lei, dopo un decennio di eroica astinenza aveva ripreso a fumare, anche se molto di meno che un tempo e non più i Virginia o gli altri sigari che lo facevano tossire, ma semplici sigarette che spesso rollava lui con le sue mani, usando tabacco montenegrino spedito a volontà dal consuocero Nicola del Montenegro.

Secondo quanto raccontò il suo aiutante di campo, il generale Emilio Ponzio Vaglia, solo uno strano evento turbò la serenità del monarca in quelle ore. La sera del 28 luglio sarebbe andato con il Ministro della Real Casa a cena in un ristorante monzese, dove restarono entrambi colpiti dalla singolare somiglianza tra lui e il proprietario del locale. Il sovrano rimase molto colpito tanto che rimase a parlargli e, commentando insieme la loro somiglianza, scoprirono altri elementi che li accomunavano: erano nati tutti e due nello stesso giorno e nella stessa città, ossia a Torino il 14 marzo 1844, avevano sposato una donna di nome Margherita e il ristoratore aveva inaugurato il suo locale nello stesso giorno in cui il monarca saliva al trono, cioè il 9 gennaio 1878. Preso da un’ istintiva complicità con il suo sosia, Umberto lo invitò alla manifestazione in programma alla palestra Forti e Liberi. Il pomeriggio seguente, però, Umberto impallidì nell’ apprendere da Ponzio Vaglia che l’ uomo era morto per un colpo d’ arma da fuoco.

Alle 13:30, mentre la canicola toccava l’ apice, i sovrani lasciarono la sala da pranzo e si diressero ognuno al proprio appartamento. Alle 19:30 si rividero per la cena, molto rapida, perché lui doveva risalire e prepararsi per la cerimonia. Un’ ora dopo iniziava il saggio ginnico alla Forti e Liberi, in via Matteo Campioni. Intorno al campo si era radunato un folto pubblico che irrompeva in un applauso patriottico all’ ingresso di una squadra venuta dall’ irredenta Trento. Alle 21:25, il Re, congedatosi dalla moglie, salì sulla carrozza, una Daumont a quattro posti aperta e trainata da due pariglie di cavalli, accompagnato da Ponzio Vaglia. Umberto prese posto nella tribuna d’ onore. Alle 22:00 la gara terminò e il sovrano procedette alla premiazione, soffermandosi a parlare con i trentini, classificatisi al terzo posto, poi con alcuni ufficiali e con i componenti del Comitato organizzatore, tra i quali vi erano il sindaco di Monza Enea Corbetta e il deputato Oreste Pennati, al quale, nostalgico, il Re disse: «Anch’ io, sa, in gioventù ho fatto tanta ginnastica!». Era di ottimo umore: «Fra questi giovanotti in gamba mi sento ringiovanire.».

Alle 22:20 circa risalì sulla Daumont e si sedette in modo da dare il volto al pubblico, andando via. Alla sua destra, accanto a lui, sedeva Ponzio Vaglia. I cavalli si mossero quattro minuti dopo e, a quel punto, un giovane uomo, sgomitando tra la folla, si avvicinò alla carrozza, mise la mano nella tasca dei calzoni e ne estrasse una Massachussets a cinque colpi. Quando Umberto gli passò a tre metri di distanza lui era già pronto e gli sparò più volte, con un certo sangue freddo. Il Re venne raggiunto a una spalla, al polmone e al cuore, ed ebbe appena il tempo di mormorare: «Avanti, credo di essere ferito.». Subito dopo cadde riverso sulle ginocchia del generale Ponzio Vaglia, che gli sedeva di fronte. La gente, resasi conto dell’ accaduto, cominciò a urlare e muoversi in modo scomposto, poi a dare addosso all’ attentatore. I cavalli si impennano, il cocchiere li sferzò disperatamente e la vettura partì al galoppo verso la residenza reale, mentre il maresciallo dei carabinieri, Giuseppe Salvatori, aiutato da tutto un gruppo anche di civili, arrestò l’ attentatore, proteggendolo a  stento dall’ ira della folla atterrita e inferocita. L’ uomo rimase addirittura senza i pantaloni dopo la colluttazione, e il suo volto era irriconoscibile per il sangue e le tumefazioni. A caldo, disse soltanto: «Non ho ucciso Umberto, ho ucciso un Re, ho ucciso un principio!».

La Daumont procedette verso la dimora, trasportando il sovrano morente, piegato su un fianco, con il respiro stentato, in un rantolo. Quando la carrozza varcò i cancelli, alle 22:50, il Re morì. Nella camera del monarca, poco dopo le 23:00, sopraggiunse il medico di corte Luigi Erba, che confermò alla Regina consorte il responso: il Re era morto. Margherita ebbe uno scoppio di pianto convulso. La allontanarono quasi di peso i due medici, per poi tornare e stilare con il collega la relazione sulla causa del decesso. Sul cadavere vennero riscontrate tre ferite: una alla punta del cuore penetrante in cavità, e una alla fossa sopraclavicolare sinistra. Il proiettile, attraversando la cavità polmonare, si era conficcato al disotto della spina scapolare. La terza ferita, penetrante fra la quinta e la sesta costola, lungo la linea ascellare destra e la spalla, e perforante fegato e stomaco, si avvertiva al disopra della punta dello sterno.

Il corpo fu ripulito e posto di nuovo sul letto, dopo che era stato adagiato su un materasso a terra per il referto medico. Poi furono chiusi per sempre gli occhi al Re buono. In quel momento rientrò Margherita, seguita dall’ arciprete di Monza, monsignor Rossi, dal cappellano di corte monsignor Pietro Bignami e dal parroco di Santa Maria alla Strada: li aveva fatti chiamare per le orazioni funebri e la benedizione della salma, visto che il marito era morto senza il conforto dei sacramenti. La Regina madre e poi tutti gli altri s’ inginocchiano. Di nuovo piangendo, lei baciò e ribaciò Umberto pronunciando la celebre frase: «Hanno ucciso te, che tanto amavi il tuo popolo! Eri tanto buono, non facesti male a nessuno e ti hanno ucciso! Questo è il più gran delitto del secolo.». Con un atto di grande umanità, invitò perfino la storica amante del marito, la bella Bolognina, ad unirsi a lei e pregare per il caro defunto. Nel 1891, nove anni prima, il loro figlio, Alfonso, era morto giovanissimo. Margherita trovò poi nella camera l’ ultima cicca del marito e la conservò in un ricco astuccio intarsiato per donarlo poi alla nuora Elena, la quale a sua volta l’ avrebbe poi dato, in punto di morte, alla vecchia amica e dama di compagnia Hélène Jaccarino, nata Rochefort de la Rochelle.

 

Raffigurazione del regicidio di Monza;

L’agenzia di stampa Stefani, la prima della storia d’ Italia, diffuse la notizia la mattina del 30 luglio: «Ieri alle ore 21:30, il Re, accogliendo l’ invito del Comitato del Concorso provinciale ginnastico apertosi il 29 corr., si recava alla palestra, accolto dalle Autorità e dalla popolazione acclamante; alle 22:30, finita la premiazione e mentre il Re stava per uscire dalla Palestra in carrozza coperta, furono improvvisamente sparati quattro colpi di rivoltella da un individuo che venne arrestato e a tempo sottratto dal furore popolare. Il Re venne colpito da tre proiettili, uno dei quali toccò il cuore; giunse al palazzo esanime. Il regicida si qualifica per Bresci Gaetano fu Gaspare e fu Maddalena Gobbi, nato a Prato il 10 novembre 1869, tessitore di seta. Dicesi anarchico e proveniente dall’America. Dice di non avere complici e di avere commesso l’ esecrando delitto in odio alla istituzione che il Re rappresenta. Sarebbe qui giunto il 27 luglio da Milano, ove si trovava da alcuni giorni.».

 

Gaetano Bresci;

Tratto in arresto, il regicida venne sottoposto a indagini e a un processo piuttosto sbrigativi. Fu identificato come Gaetano Bresci, nato a Prato il 10 novembre 1869. Figlio di contadini, si era stabilito a Paterson, in New Jersey, nel 1898, dove trovò lavoro nell’ industria tessile come decoratore in seta. Di aperte simpatie anarchiche, venne a conoscenza della feroce repressione nel 1894 dei fasci siciliani da parte di Crispi e di quella dei moti di Milano del 1898, repressa dal generale Bava Beccaris. Interrogato subito dopo l’ arresto, dichiarò: «Ho attentato al Capo dello Stato perché è responsabile di tutte le vittime pallide e sanguinanti del sistema che lui rappresenta e fa difendere. Concepii tale disegnamento dopo le sanguinose repressioni avvenute in Sicilia in seguito agli stati d’ assedio emanati per decreto reale. E dopo avvenute le altre repressioni del ‘98 ancora più numerose e più barbare, sempre in seguito agli stati d'assedio emanati con decreto reale.». Fu recluso dapprima nel carcere di San Vittore, poi, subito dopo il processo al cui termine fu condannato all’ ergastolo, nel carcere di Forte Longone, sull’ isola d’ Elba, in una delle venti celle che formavano la sezione d’ isolamento denominata «la Rissa», sotto una finestra della quale egli scrisse: «La tomba dei vivi». Indossava la divisa degli ergastolani con le mostrine nere, che indicavano i colpevoli dei delitti più gravi.

Subito dopo la morte di Umberto cominciò a circolare l’ ipotesi, sostenuta con insistenza dalla polizia e dai giornali, che Bresci non avesse agito da solo ma insieme a una rete internazionale di complici, forse su spinta di qualcuno più in alto di loro. Si ipotizzò addirittura che dietro all’ assassinio ci fosse Maria Sofia di Baviera, ex Regina delle due Sicilie, e le indagini per cercare questi complici furono condotte anche negli Stati Uniti, da dove Bresci era partito. Delle indagini oltreoceano si occupò Joe Petrosino, celebre investigatore italiano rimasto famoso nella polizia di New York per i metodi di lotta alla criminalità organizzata, il quale arrivò alla conclusione che la rete internazionale anarchica esisteva e che Paterson era una parte fondamentale di questa rete. L’ ipotesi del complotto sopravvive ancora oggi, ma in realtà non ci sono prove che la sostengano e Bresci sostenne sempre di aver agito da solo. E’ più verosimile che i vari attentatori di tale periodo storico agissero sempre da soli, forse ispirandosi vicendevolmente, ma mai spinti da una presunta rete internazionale di anarchici, né tantomeno da qualcuno al di sopra di essa.

 

Il nuovo Re, Vittorio Emnuele III;

Il 9 agosto si celebrò il funerale a Roma. Vittorio Emanuele, ora terzo Re d’ Italia con il nome Vittorio Emanuele III, da sempre estraneo al padre e al suo mondo, rimase impassibile per tutto il tempo, facendo qualche domanda al personale delle pompe funebri sulla tecnica di saldatura dei coperchi delle bare. Durante la funzione religiosa sbottò: «Ma quanto la fanno lunga, questi preti.». Tale affermazione ebbe ampio risalto e negli anni seguenti fu spesso usata per sostenere che fosse legato alla Massoneria, cosa non vera. Benché fosse un giovedì torrido, due gremite ali di folla seguirono il feretro. Si era instaurato un tale clima di nervosismo che bastò un mulo imbizzarrito di una rappresentanza del corpo degli Alpini per scatenare un fuggi-fuggi generale al grido: «Gli anarchici!». Tale fu il terrore che questo coinvolse anche il gruppo dei reali, tanto che Nicola I del Montenegro balzò davanti al genero Vittorio Emanuele per fargli da scudo contro un eventuale attentato. Ristabilita la calma, la salma del defunto monarca venne tumulata nel Pantheon accanto a quella del padre, Vittorio Emanuele II. Il 13 agosto diventò giorno di lutto nazionale.

Quasi un anno dopo, il 22 maggio 1901, Bresci venne trovato morto in cella: penzolava dall’ inferriata alla quale era appeso per il collo mediante l’ asciugamano in dotazione o, secondo altri, un lenzuolo. La sua morte fu un mistero, e per quanto ufficialmente sancita come suicidio ancora oggi viene indicata come possibile omicidio.

 

Due lire in argento del 1887, con il volto del Re Buono;

Con la morte di Umberto I chiudeva l’ era di un Re che aveva vissuto i momenti più importanti della storia del suo Paese. Un monarca che, dopo aver contribuito a costruirlo, non era riuscito a raggiungere l’ enorme popolarità del padre e imporsi con costanza ai vertici della politica, incoraggiando la riduzione dei costi della burocrazia e delle spese militari per investire nelle infrastrutture e in un più elevato livello di istruzione, secondo le condizioni per un reale sviluppo. Vissuto in un’ epoca turbolenta di assestamento nazionale, politico, militare, culturale e sociale, Re Umberto fu certamente un uomo operoso e leale, costante nel proprio impegno. Fu un sovrano costituzionale molto ben calato nel ruolo di arbitro imparziale, del Re che regna senza governare, e contando sul grande contributo della Regina Margherita rese popolare la Monarchia e consolidò l’ unità nazionale. Partecipò alle guerre risorgimentali, venendo esaltato anche da Edmondo De Amicis nel libro «Cuore». Tuttavia, non si impose mai come aveva fatto il padre, facendo la differenza proprio con la forza della neutralità politica e dando ascolto alle necessità di modernizzazione e riforme in un Paese nascente che aveva bisogno di muoversi lungo vie slegate dai vecchi schemi. Certamente, nel corso del suo regno ebbero luogo numerose innovazioni in campo sociale come l’ allargamento della base elettorale, l’ istruzione elementare obbligatoria e gratuita, la lotta all’ analfabetismo, il miglioramento della rete sia stradale che ferroviaria, nonché l’ avvio di quel processo d'industrializzazione che avrebbe portato l’ Italia, partita in ritardo, ad affiancarsi ai paesi più avanzati d’ Europa. Lui stesso diede prova di grandi doti di generosità in occasione delle numerose calamità che ebbero luogo in Italia, ma sostenne un po’ eccessivamente gli atteggiamenti autoritari dei suoi governi sotto la pur comprensibile paura delle agitazioni proletarie e anarchiche, come confermato dalla concessione dell’ onorificenza a Bava Beccaris. Abbracciare e incoraggiare una mentalità sensibilmente meno rigida e conservatrice gli avrebbe non soltanto salvato la vita a Monza, ma sarebbe stata capace di sospingere una più ampia stagione di riforme e crescita dell’ Italia.