domenica 12 novembre 2017

La regina e il munshi

«L’ ignoranza non ci farà entrare vincitori nel XX secolo.» Vittoria di Hannover, regina del Regno Unito;
Vittoria di Hannover, sovrana britannica;

Viviamo in un mondo da sempre molto diviso, pieno di paura, rabbia, intolleranza e aggressività. Un mondo in cui il nostro prossimo rappresenta un possibile nemico, mentre le popolazioni diverse dalla nostra vengono guardate con disapprovazione e freddezza, in quanto probabile minaccia alla nostra civiltà e tradizione. L’ umanità teme da sempre quello che non conosce e non riesce a capire, ma in ogni tempo ci sono coloro che vanno contro tutto questo, contribuendo a generare un clima di distensione e amicizia, nonché di comprensione reciproca.
Uno degli esempi più notevoli di amicizia e stima tra persone particolarmente diverse per nazionalità e condizione sociale balzò agli onori della cronaca nel 2010, con il ritrovamento dei diari perduti di Abdul Karim, un umile servo indiano divenuto segretario della regina Vittoria durante gli ultimi quattordici anni del suo regno, un incredibile documento che permise di scoprire i dettagli di un legame straordinario nato tra lui e la potente ma triste e malinconica sovrana, che venne prontamente occultato dalla cerchia più ristretta di lei. L’ amicizia annulla qualsivoglia distanza, anche quella imposta dal ceto sociale, dalla religione e dalla ricchezza, e fu proprio quel che accadde a Vittoria e Abdul: un affiatamento inaspettato, vivace e intenso che Edoardo VII, figlio e successore della monarca più potente dell’ epoca, infastidito e spaventato dalla profondità del loro legame, contribuì personalmente ad oscurare con la complicità della corte, nella rigida convinzione della superiorità britannica nei riguardi delle popolazioni coloniali, soprattutto quella indiana, arrivando persino al punto di dare letteralmente alle fiamme gran parte della corrispondenza fra i due.

Alexandrina Victoria nacque il 24 maggio 1819 a Kensington Palace, la residenza ufficiale della famiglia reale e della corte britanniche, unica figlia di Edoardo Augusto di Hannover, quarto figlio di re Giorgio III, e di Vittoria di Sassonia-Coburgo-Saalfeld. Giorgio Augusto Federico, figlio primogenito di re Giorgio, aveva avuto solo una figlia, Carlotta Augusta del Galles, morta nel 1817 a causa di un’ emorragia avvenuta a seguito del parto del primo figlio, nato morto. Gli altri figli del sovrano si erano quindi affrettati a sposarsi per avere figli con cui assicurare a Giorgio un successore. Edoardo Augusto morì il 23 gennaio 1820, dopo una breve malattia, lasciando orfana la figlia di soli otto mesi, e appena sei giorni prima del padre Giorgio, a cui successe Giorgio Augusto Federico, che, assunto il nome di Giorgio IV, chiamò la bambina Alexandrina Vittoria di Kent, in onore dello zar Alessandro I, scelto come padrino di battesimo.
Alla nascita, Vittoria, portatrice sana di emofilia, era la quinta nella linea di successione, venendo dopo il padre e i suoi tre fratelli maggiori, ma quando compì undici anni lo zio Giorgio morì senza figli, lasciando il trono al fratello, che divenne re con il nome di Guglielmo IV: dato che anche il nuovo sovrano non aveva avuto figli, Vittoria divenne sua erede al trono. Nonostante la posizione preminente nella linea di successione, le fu insegnato dapprima il tedesco, mentre dopo i tre anni le venne trasmesso l’ inglese, e in seguito apprese anche l’ italiano, il greco, il latino e il francese. Trascorse una giovinezza malinconica, con una madre estremamente protettiva e soffocante che la teneva rigorosamente isolata dai coetanei di Kensington Palace, amministrato da John Conroy, militare e avventuriero irlandese che peraltro divenne amministratore delle finanze della stessa duchessa vedova Vittoria, nonché suo amante: nei suoi diari, la giovane Vittoria parlò degli imbrogli messi in atto da Conroy e della sua tirannia, portati avanti con la complicità della madre anche al fine di controllare la sua vita in vista delle ricchezze che sarebbero maturate alla sua ascesa al trono. Re Guglielmo ebbe rapporti assai rari con la cognata e la nipote, in quanto la duchessa vedova desiderava preservare la figlia da ogni rapporto sconveniente, specialmente con i figli illegittimi di lui, arrivando al punto da costringerla a dormire nelle proprie stanze.
Il principe Alberto;

Su incoraggiamento dello zio materno, re Leopoldo I del Belgio, all’ età di sedici anni Vittoria incontrò il principe Alberto di Sassonia-Coburgo-Gotha, suo cugino di primo grado, figlio di un altro fratello della duchessa vedova Vittoria: i due si innamorarono e decisero di sposarsi. In un primo tempo, il giovane tedesco non era molto popolare presso il popolo britannico, essendo percepito come uno straniero di secondo piano, proveniente da una famiglia aristocratica marginale. Peraltro, si disse che non fosse particolarmente innamorato di Vittoria, calcolando più che altro i vantaggi sociali e politici che avrebbe tratto dal matrimonio. Lo stesso re Guglielmo caldeggiava un matrimonio tra la nipote e Alessandro di Orange-Nassau, ma le sue obiezioni non ebbero seguito. Il matrimonio con Alberto fu comunque posticipato per la giovane età di Vittoria.
Alle prime ore del 20 giugno 1837, dopo dieci giorni di agonia, Guglielmo IV morì di infarto, e Vittoria, diciottenne, divenne regina, evitando la reggenza che lo zio sovrano tanto disdegnava: la nuova sovrana dimostrò da subito un carattere assai determinato ordinando alla madre di lasciarla dormire nella propria camera, riducendo al minimo i loro rapporti, e allontanando Conroy, non concedendogli assolutamente nulla. Subito dopo diede disposizioni sul funerale dello zio, predisponendo la composizione del corteo. Un anno dopo, il 28 giugno 1838, venne incoronata ufficialmente regina e, dimostrando di conoscere a fondo la situazione del Paese, impose una profonda riforma della scuola e incoraggiò nuove leggi atte a ridurre l’ orario di lavoro delle donne e dei bambini. Divenne in breve assai popolare. Tornato nel 1839 in Gran Bretagna dopo una visita in Italia, il principe Alberto si recò in visita a Vittoria, che gli chiese di sposarlo in rispetto della tradizione, che vietava di proporsi alla sovrana: dotato attraverso un atto parlamentare di cittadinanza britannica appena prima del matrimonio, che avvenne nel 1840, oltre che del trattamento di altezza reale, il principe consorte fu da subito di grande aiuto, contribuendo fortemente allo sviluppo della monarchia costituzionale e guidando la moglie lungo un percorso che le permise di diventare una figura dominante sulla scena politica nazionale. La sua influenza fu così grande che per tutta la sua vita fu paragonabile a un sovrano a tutti gli effetti.
Un raro ritratto sorridente di Vittoria;

Il regno di Vittoria fu il più lungo di quello di tutti i monarchi britannici che l’ avevano preceduta, e vide un periodo di stabilità politica, prosperità economica ed espansione commerciale e coloniale, pur assistendo a vari e notevoli problemi sociali. La Gran Bretagna divenne la nazione più potente al mondo, soprattutto grazie al fatto di aver imboccato meglio di ogni altro Paese europeo la via dello sviluppo industriale. Prima del matrimonio, la giovane regina aveva subito l’ influenza di Lord William Lamb, II visconte Melbourne, che seppe educarla molto bene sul piano politico, tanto che quando uscì di scena nel 1841 ella conosceva il mestiere quanto il principe consorte, divenendo nel corso dei decenni l’ abile e lungimirante signora dell’ Impero più saldo e importante del suo tempo, forte dei suoi possedimenti in Africa, India e Oceania. Tutto il mondo ammirava Londra come centro di una guida assoluta e di una ferma prosperità sia politica che economica.
In meno di undici anni, Vittoria e Alberto ebbero nove figli, molti dei quali colpiti da emofilia come lei. Nel 1861, poco dopo la morte della duchessa vedova Vittoria, appena riconciliatasi con la figlia, Alberto morì a causa per febbre tifoidea, e Vittoria, profondamente colpita, decise di vestire il lutto per tutti i restanti giorni della sua vita da vedova, dando ordine di mantenere inalterate le sue stanze. Pur continuando senza sosta a svolgere il proprio ruolo, la sovrana si ritirò quasi completamente dalla vita pubblica, trascorrendo il suo tempo nelle residenze di campagna, al castello di Windsor, a Osborne House e soprattutto al castello di Balmoral, circondata da pochissime persone fidate,
cosa che contribuì a rinforzare il repubblicanesimo e a indebolire notevolmente quanto lui aveva compiuto nel tentativo di mostrare al popolo una monarchia moderna e dinamica come istituzione nazionale e morale, e come esempio per tutti. In seguito instaurò una profonda relazione con John Brown, un cameriere scozzese: secondo i pettegolezzi più fantasiosi i due giunsero a un matrimonio segreto, ragion per cui alla regina venne dato il soprannome di «Signora Brown». Di certo, Brown fu un uomo a lei assai vicino e fidato, un grande confidente e consigliere fino al 1883, quando morì per i postumi di un’ aggressione subita da alcuni invidiosi che vedevano di cattivo occhio la sua vicinanza a Sua Maestà. I lutti e le tristezze di Vittoria proseguirono ulteriormente tra il 1878 e il 1900 con la morte di ben tre figli, che la lasciarono sola con Albert Edward, il principe ereditario, grasso e irresoluto, incapace di aiutarla nella guida del regno, mentre la prole superstite era sistemata in matrimoni reali qua e là per l’ Europa ma assente dalla vita politica internazionale: nessuno dei figli sopravvissuti fu all’ altezza del rango reale quanto lei. Per quanto la sua vita privata fosse infelice, la caparbia regina britannica non smise mai di viaggiare e lavorare per il bene del suo regno.
Abdul Karim, il Munshi;

Il 20 giugno 1887, in occasione dei cinquant’ anni di regno di Vittoria, ebbe luogo la solenne celebrazione del Giubileo d’ Oro, a cui vennero invitati a corte ben cinquanta re e regine provenienti da tutto il mondo. La sovrana era all’ apice della sua popolarità, complice la morte di Brown, che aveva placato i pettegolezzi sulla sua vita privata rendendola un simbolo morale di grande importanza, mentre più in generale la monarchia aveva recuperato il terreno perduto. Tre giorni dopo, il 23 giugno, Vittoria assunse come camerieri due indiani di fede musulmana: uno dei due, il ventiquattrenne Abdul Karim, la incantò immediatamente, tanto da volerlo a tutti i costi tra i suoi servi personali. Fu l’ incontro più importante di quel periodo così desolante della sua vita privata, che non tardò a manifestare conseguenze importanti anche in ambito istituzionale e politico. Il giovane Abdul, nato a Lalitpur e figlio di un assistente ospedaliero, in occasione della sua assunzione si era traferito in Gran Bretagna con l’ intera famiglia e non gradiva per niente la sua condizione di servo: pur non vedendo assolutamente l’ ora di tornare in India instaurò all’ istante un profondissimo legame con la regina, che da servitore al tavolo lo promosse ad attendente personale, nonché suo munshi, ossia «maestro» in lingua urdu: le insegnò la nota lingua indoeuropea, le parlò dell’ Islam e del Corano, e le svelò i misteri della sua terra lontana, di cui era peraltro imperatrice, affascinandola grandemente. Venuta in contatto con un’ antichissima cultura che fino a quel momento le era rimasta del tutto ignota, Vittoria fece di Abdul il proprio consigliere e confidente per le questioni relative all’ India, peraltro favorendo la moda indiana a corte, che accolse di buon grado il modo di vestire, i cibi, soprattutto il curry, e altre usanze indiane. Il padre di Abdul fu addirittura la prima persona a cui fu concesso di fumare il narghilé a corte, nonostante la proverbiale avversione della sovrana per il fumo.
La profonda amicizia che in breve finì per legare la regina e il munshi rappresentò molto presto un grave scandalo a corte, soprattutto agli occhi del principe Albert Edward, dal momento che si riteneva impensabile che un nativo delle colonie, soprattutto un musulmano proveniente da un protettorato animato da crescenti fermenti indipendentisti, potesse vantare una simile familiarità con Vittoria, che in quanto monarca era Governatore Supremo della Chiesa anglicana. Ma lei, al contrario di tutti i membri della corte britannica, non era per nulla razzista: durante il suo regno si era abolita la schiavitù, e lei stessa aveva adottato Aina, una principessa africana rimasta orfana. Nel corso del tempo lo riempì di onori, gli assegnò una tenuta in India e una pensione dorata. Consapevole della sua natura irascibile e persino arrogante, nel corso della fitta corrispondenza tra loro lo esortò spesso a divenire più rispettoso nei confronti della corte e degli ospiti.
Vittoria e Abdul nel 1893;

A palazzo e nella nobiltà il malcontento cresceva di giorno in giorno, tanto che Albert Edward e alcuni aristocratici di altissimo livello dissero apertamente alla sovrana che Abdul apparteneva ad un ceto sociale particolarmente misero, tanto da essere stato addirittura un impiegato della prigione di Agra, accusandolo falsamente di favorire lo spionaggio da parte dell’ emiro afghano Abdur Rahman Khan: Vittoria respinse prontamente quest’ insinuazione tacciando la corte di razzismo, e continuò a portarselo ovunque, sia in viaggio che alle cerimonie ufficiali, difendendo con coraggio la propria posizione anche quando molti iniziarono ad affermare che avesse perduto la ragione. Alimentò il veleno delle malelingue trascorrendo una notte con lui in un cottage con cui anni prima era stata solo l’ amatissimo consorte Alberto e facendosi costruire a Osborne House una Durbar Room, una camera di rappresentanza in stile indiano decorata con i ritratti dei notabili indiani, tra cui spiccava quello dello stesso Abdul. Nonostante sia assai improbabile che tra loro vi fosse del romantico, la regina e il munshi ebbero di certo un’ amicizia davvero speciale, assolutamente unica nel suo genere: l’ anziana Vittoria, malinconica e triste dal giorno della morte del suo fedele servitore e amante John Brown gli aprì il cuore confidandogli i suoi segreti più intimi, finalmente sfuggendo alla solitudine e alle tristezze della sua vita, mentre il giovane Abdul, bello e aitante, riempì il vuoto maschile nel cuore di lei, intrattenendola e insegnandole moltissimo sulla lontana India.
Seguendo un’ abitudine che mantenne nel corso di tutta la sua vedovanza, la regina trascorse ogni compleanno a Osborne House, il cui restauro era stato progettato personalmente dal principe Alberto. Abdul le domandò il titolo di nababbo e la nomina a Cavaliere Comandante dell’ Ordine dell’ Impero indiano: a Vittoria fu prontamente suggerito di nominarlo membro dell’ Ordine reale vittoriano, cosa che non avrebbe comportato alcun titolo o implicazioni politiche in India. Il Primo ministro, Lord Robert Gascoyne-Cecil, III marchese di Salisbury, si oppose anche a tale onorificenza inferiore, ma nel 1899, in occasione del suo ottantesimo compleanno, la sovrana nominò il munshi Comandante dell’ ordine, rango intermedio tra membro e cavaliere.
La regina e il munshi nel 1897;

Ormai vecchia, spesso confusa e gravemente minata dai reumatismi, Vittoria morì il 22 gennaio 1901, dopo un regno di sessantatré anni, sette mesi e due giorni. Nel settembre del 1896 aveva superato in longevità sul trono ogni altro monarca inglese, scozzese o britannico. Dopo i funerali venne tumulata al Mausoleo Frogmore, accanto al marito.
Albert Edward, che divenne re con il nome di Edoardo VII, colse al volo l’ occasione per disfarsi di Abdul Karim: subito dopo la morte della madre lo rispedì in India con la famiglia e distrusse tutti i documenti che lo riguardavano, pur permettendogli di essere l’ ultimo a vedere il corpo di Vittoria prima della chiusura della bara e di far parte della processione del funerale. Una volta rimpatriato, il munshi si stabilì ad Agra, al Karim Lodge, voluto per lui dalla regina, ove visse agiatamente grazie alla cospicua pensione da ex dignitario reale. Su istruzione del nuovo sovrano, i funzionari britannici in India recuperarono la rimanente corrispondenza tra Abdul e Vittoria o tra lui e la corte, che fu inviata allo stesso Edoardo in persona. Il governatore generale d’ India, il suo vice e i funzionari del Ministero britannico dell’ India biasimarono il sequestro e richiesero che le lettere fossero restituite: alla fine il re ne restituì solo quattro, a condizione che gli fossero rimandate alla morte della prima moglie di Abdul. Il munshi rimase sempre in contatto con la famiglia reale britannica, tanto che il principe Giorgio di Galles, figlio di Edoardo ed erede al trono, nel 1905 si recò in India in visita ufficiale, ed ebbe modo di incontrarlo scrivendo poi al padre che non lo trovava per nulla abbellito, e che stava ingrassando: «Devo riconoscere che è stato molto civile ed umile, e davvero lieto di vederci.».
Abdul morì a Karim Lodge nell’ aprile 1909. Gli sopravvissero due mogli, e fu sepolto in un mausoleo a forma di pagoda nel cimitero Panchkuin Kabaristan di Agra, accanto a suo padre.
Edoardo VII, figlio e successore di Vittoria;

Per ben un secolo, la cancellazione di qualsiasi traccia che potesse tramandare ai posteri la presenza di Abdul in terra britannica e il suo rapporto con Vittoria impedì di conoscere la notevole influenza che lui ebbe sulla politica britannica di fine Ottocento: fra le poche note personali rimaste emergevano fugaci e misteriose scritte in urdu come «Abdul insegna alla regina.», «Tienimi stretto.» e «Mancherà molto al munshi.». Nel 2001, tuttavia, la scrittrice indiana Shrabani Basu, impegnata nelle ricerche sulla storia del curry, scoprì che alla regina piaceva molto mangiare piatti conditi con questa polvere. Visitò quindi Osborne House e rimase affascinata da due ritratti e un busto di bronzo che ritraevano un uomo indiano di aspetto regale, mentre nello spogliatoio della sovrana vide un altro suo ritratto, appeso proprio sotto quello di John Brown. La Durbar Room, come vide con i suoi occhi, era piena di tesori provenienti dall’ India, un monumento al fascino che in tutta evidenza Vittoria subiva per questo Paese che non visitò mai pur essendone imperatrice: «Per ragioni di sicurezza non poteva andare in India e per questo fece venire l’ India da lei.».

Nel 2006 la scrittrice visitò il castello di Balmoral, dove vide la casa che la sovrana aveva fatto costruire per quel misterioso e importante giovane uomo indiano, e decise di scoprire chi fosse: consultando gli archivi reali rinvenne i diari scritti a mano in tredici volumi in urdu da Vittoria, e che Edoardo VII non aveva pensato di toccare perché nessuno sapeva leggere l’ urdu. Dalla traduzione il rapporto tra Vittoria e Abdul poté finalmente riemergere in tutta la sua statura, e quattro anni dopo, nel 2010, la famiglia di Abdul, migrata in Pakistan durante la Partizione dell’ India avvenuta nel 1947, rese pubblici il diario dello stesso munshi e la corrispondenza tra lui e la sua regina.

venerdì 13 ottobre 2017

Salviamo l' italiano

Dante Alighieri, Sommo Poeta simbolo della cultura italiana;

Negli ultimi vent’ anni ho assistito con un certa disapprovazione alla bizzarra tendenza a mescolare la nostra meravigliosa e antica lingua, l’ italiano, con l’ inglese, onorato idioma che oggi meglio di tanti esempi costituisce una forte unione tra noi e il resto del mondo. Attualmente la conoscenza di più lingue risulta un antidoto particolarmente efficace contro l’ isolamento. Essere almeno bilingui rappresenta una carta vincente su più fronti anche e soprattutto nella vita di tutti i giorni: possiamo infatti compiere viaggi di piacere in ogni angolo della Terra, trasferirci stabilmente all’ estero per lavoro, e addirittura ricevere costantemente le notizie più importanti su quanto avviene in ogni Paese oltre i nostri confini. A livello più personale ci aiuta a superare le differenze tra le persone, comprendendo che siamo tutti abitanti di questo stesso pianeta, senza etichette.
Nondimeno, sono assolutamente persuaso dall’ idea che mischiare tra loro le lingue rappresenti un vero e proprio sfregio a danno loro e delle culture che le hanno generate. Ormai, ovunque ci voltiamo non possiamo più evitare di imbatterci nelle parole inglesi, saldamente intrufolatesi nel nostro idioma come un virus: è piuttosto comune infatti fare un break al posto di una pausa, andare in una bella località di villeggiatura per trascorrere felicemente il weekend anziché il fine settimana o rivolgersi in occasione di una grande festa a un catering invece che a un servizio di ristorazione. Dieci anni fa, quando lavoravo come volontario alla casa di risposo di Sordevolo, facevo compagnia a un simpatico vecchietto, ancora piuttosto vivace, quando l’ infermiera della struttura lo avvicinò dicendogli che nei giorni successivi avrebbe dovuto fare un day hospital per condurre i dovuti accertamenti sul suo stato di salute. Non avendo capito di cosa stesse parlando aggrottò la fronte e, voltandosi versi di me, domandò in dialetto locale:
«E che diavolo è un day hospital? Tu lo sai?».
Ridacchiai divertito, ben conscio tuttavia del suo imbarazzo, e gli risposi:
«E’ un ricovero diurno. Non ti impegnerà per più di una giornata.».
Noi italiani stiamo di fatto tradendo noi stessi e la nostra cultura, una delle più antiche e vaste del mondo, avviando un’ opera di mescolanza mossa da motivi indubbiamente superficiali, o anche solo per comodità. L’ Impero britannico, il più vasto impero di sempre, esteso su tutti e cinque i continenti, dal Canada alla Guyana, dall’ Egitto al Sudafrica, dall’ India all’ Australia, dovette necessariamente confrontarsi con le altre lingue, per ragioni amministrative e culturali, tuttavia quei britannici che parlavano più idiomi non dimenticarono mai il loro, e non lo mischiarono con gli altri. In questo, così come in molte altre cose, nutro particolare ammirazione verso il popolo britannico, e mi auguro vivamente che presto tale tendenza cominci a imporsi anche tra di noi. Io dico sempre che essere italiani non significa soltanto avere la cittadinanza riportata sulla carta di identità: implica soprattutto un atteggiamento di amore e rispetto verso il proprio Paese di origine. E la lingua è uno dei tratti più caratteristici di una qualsivoglia cultura, qualcosa che va tutelato con grandissimo riguardo.
Se andremo avanti così temo proprio che tra altri vent’ anni nessuno parlerà più l’ italiano, se non pochi nostalgici che verranno accusati di atteggiamento antiquato. La nostra lingua verrà del tutto soppiantata dall’ inglese, divenendo un elemento da museo, come oggi le mummie di Menfi e Tebe custodite nel Museo egizio di Torino. In una scuola di pensiero del Buddhismo tibetano, la Nyingma, ossia «Lignaggio degli Antichi», godono di enorme prestigio determinati maestri chiamati tertön, cioè «scopritori di tesori», i quali ancora oggi per mezzo di un’ elevata pratica meditativa riscoprono i terma, «tesori nascosti», insegnamenti segreti e commentari vari che il celebre maestro Padmasambhava e i suoi discepoli avrebbero nascosto per la prima volta nell’ VIII secolo nell’ inconscio di allievi speciali in grado di controllare i processi della propria reincarnazione, in modo tale che nelle vite future li riscoprissero in previsione di una nuova diffusione dell’ insegnamento del Buddha Śākyamuni in Tibet, in tempi più propizi. Oggi il fenomeno degli scopritori di tesori e dei tesori nascosti non si limita soltanto alla riscoperta degli insegnamenti perduti di Padmasambhava, ma si estende anche alle numerose dottrine attribuite a grandi maestri venuti dopo di lui in Tibet nel corso dei secoli. Sarebbe davvero triste se alla lingua italiana dovesse accadere altrettanto, dal momento che si dovettero attendere ben duecento anni dalla venuta del Prezioso Maestro affinché i primi scopritori di tesori percorressero il Paese delle Montagne diffondendo liberamente il Dharma…

Avere cura dell’ Italia non significa soltanto lavorare e pagare le tasse, rispettare le leggi nazionali o mantenere in piedi qualche antico edificio storico: tutto ciò deve essere accompagnato nella sua estrema importanza da un più vasto atteggiamento di consapevolezza e unione con la nostra antica tradizione culturale nella vita quotidiana. Abbiamo quindi tutti il dovere di parlare pienamente la lingua italiana, ripulendola da ogni vocabolo inglese infiltratosi negli ultimi tempi in essa. Fino a oggi il solo ad aver ribadito un concetto di questo genere, seppur in un clima di crescente esterofobia e nazionalismo, è stato Benito Mussolini, che nel 1940 intraprese la via dell’ autarchia anche nel vocabolario vietando le parole straniere. Se parlare l’ inglese oggi è necessario per rapportarci con il resto del mondo, è altrettanto imperativo evitare di fare di questa lingua un cavallo di Troia a danno della nostra. Come il sole e la luna sono nettamente separati nel loro splendore, così avvenga anche per questi due rispettabili idiomi. Evitiamo di cadere nel volgare pantano dell’ italianglish…

Il calar dell’ ultimo sole di Versailles

«Muoio innocente dei delitti di cui mi si accusa. Perdono coloro che mi uccidono. Che il mio sangue non ricada mai sulla Francia!» ultime parole di re Luigi XVI;
Luigi XVI di Borbone;

Il 10 maggio 1774, Luigi Augusto di Borbone, duca di Berry, fu incoronato appena ventenne re di Francia e Navarra con il nome di Luigi XVI. Ultimo sovrano europeo salito al trono «per diritto divino», fu vittima di una sorte piuttosto drammatica, e i cronisti dell’ epoca lo fecero passare alla storia con un ritratto menzognero della sua personalità e del suo intervento politico che in due secoli non ha fatto altro che consolidarsi, dimostrando chiaramente
quanto una persona possa subire un accanimento eccessivo, anche nella morte, soltanto perché rappresenta il simbolo più in vista di un sistema rovesciato con rabbia e intransigenza: non è forse vero che la storia è dettata dai vincitori?

Uomo colto, capace politico e ottimo stratega navale, Luigi ascese al trono in un clima di grande aspirazione al rinnovamento. Sulle prime amato dal popolo, operò fin dall’ inizio un pieno cambiamento nelle stanze del potere e del governo, una grande rivoluzione liberale e modernista atta a riformare e consolidare l’ ormai pesante e polveroso Ancien Régime, gravato dagli enormi debiti accumulati dai suoi due illustri predecessori, il quadrisavolo Luigi XIV e il nonno Luigi XV, a cui si univa un bilancio in costante perdita per via degli sperperi di corte, di lunghe e costose guerre e dell’ aumento del costo del grano. Con il sostegno di grandi ministri come Turgot, Calonne e Necker volle fortificare le periferie, mitigando la tenace pressione del governo parigino. Abolì la servitù della gleba resistendo alle proteste della nobiltà e limitò la pena di morte ai soli casi di alto tradimento. Nei suoi diciotto anni di regno si compirono rare esecuzioni e ben pochi prigionieri varcarono il portone della Bastiglia, il temuto simbolo del potere assoluto della Corona. Interessato lettore dei testi illuministi, di cui non condivideva appieno le idee a parer suo un po’ troppo liberali, avviò una salda politica estera in cui appoggiò la Guerra d’ indipendenza americana e intrattenne buoni rapporti con i Romanov, gli Asburgo, i Savoia e i romani pontefici. Parigi divenne la culla di artisti e scienziati quali Jean-Baptiste Pigalle, Pierre Choderlos de Laclos, Antoine-Laurent de Lavoisier e i fratelli Montgolfier.
Maria Antonietta d' Asburgo;

Nondimeno commise gravi errori senza i quali la Prima Rivoluzione francese sarebbe stata sicuramente più indolore: non comprendendo sempre del tutto quello che avveniva nel regno, mancò di prendere svariate decisioni fondamentali e di assumere una posizione sufficientemente autorevole. Non fu in grado di distinguere i funzionari avidi, infidi o addirittura inadeguati al proprio ruolo da quelli più esperti e lungimiranti, non appoggiò con la dovuta energia i suoi governi e, soprattutto, non fu abbastanza risoluto con la frivola, dispendiosa e infedele Maria Antonietta, già malvista dal popolo per la sua provenienza austriaca. Pur avendo convocato gli Stati Generali per risolvere la disperata situazione imperante negò il voto individuale proposto dal Terzo Stato, contribuendo ad aumentare fortemente le ostilità generali contro il governo monarchico.

A due anni dallo scoppio della Rivoluzione, iniziata per impedirgli di sciogliere con la forza l’ Assemblea Nazionale costituita dai rappresentanti borghesi del Terzo Stato, Luigi tentò la fuga con la famiglia nell’ intento di raggiungere i soldati rimasti fedeli alla Corona, con i quali, forte del sostegno delle corti straniere e appoggiando il papa e i preti refrattari, avrebbe arginato i vari Robespierre, Marat e Danton, ma nella buia foresta di Varenne venne riconosciuto e ricondotto a Parigi, ove fu costretto a firmare uno statuto che portò alla formazione di una monarchia costituzionale basata sulla divisione dei poteri pur riservando al regnante un ampio potere esecutivo. In seguito, mentre i rivoluzionari si appropriavano dei castelli dei nobili e dei loro beni precedentemente assaltati dai contadini in nome della libertà, dell’ uguaglianza e della fratellanza, e le potenze europee inviavano al confine francese eserciti sempre più vasti nel timore che il fenomeno rivoluzionario si estendesse, le forze che si battevano per un più ampio programma di riforme imposero una radicale svolta politica con la proclamazione della Repubblica e l’ arresto di re Luigi, che, imprigionato con l’ umiliante nome di «monsieur Luigi Capeto», dopo un processo sommario venne condannato a morte come traditore per ghigliottinamento.
Morì il 21 gennaio 1793 gridando al popolo la propria innocenza, augurandosi che il sangue versato non ricadesse su di un Paese già alle prese con il nascente regime del Terrore, e quando la sua testa mozzata cadde nel cestino la propaganda rivoluzionaria fece di lui il ritratto ideale dell’ oppressione assolutistica e dell’ arretratezza feudale: un sovrano grasso e goffo, debole e apatico, un despota insensibile e maldestro vissuto in un isolamento dorato e spensierato nelle mille stanze di Versailles. Forse, a dispetto delle buone intenzioni da cui fu sempre animato, non era davvero l’ uomo più adatto ad affrontare la grave e complessa crisi che portò alla fine della monarchia, ma di sicuro fu imputato a lui per pura opportunità politica ogni errore compiuto dai riformatori che gli furono caldamente raccomandati dai suoi ingannevoli consiglieri. Con la sua morte l’ Europa non fu più la stessa, vedendo susseguirsi senza tregua eventi catastrofici quali l’ incubo giacobino, il ciclone napoleonico, l’ aspra restaurazione del Congresso di Vienna e il grande avvento della borghesia, che soppiantò la fastosa, imparruccata e imbellettata aristocrazia.
L' esecuzione di Luigi;


Eppure, fatto raro in situazioni del genere, ultimamente il fitto velo pubblicitario a lui ostile «per partito preso» si è molto attenuato. Nel 1993, ad esempio, in occasione del bicentenario della sua morte, l’ attore Jean-Pierre Darras lesse solennemente in Place de la Concorde il suo testamento ad un pubblico che comprendeva personalità politiche, rappresentanti delle forze armate, artisti, intellettuali, cantanti e attori, mentre sul luogo in cui la ghigliottina aveva fatto saltare molte teste, tra cui la sua, si accumularono mazzi di fiori e corone tra le quali spiccò quella dell’ ambasciatore statunitense Walter Curley. Ogni 21 gennaio gli aristocratici francesi si riuniscono per commemorarlo, e una perseverante causa di beatificazione religiosa intende santificarlo in nome della sua grande fede e del fatale patimento affrontato con la rassegnazione di un martire.

Il parere del Dalai Lama

Il XIV Dalai Lama;

La mia migliore amica, Paola, mi attendeva raggiante sulla soglia del giardino di casa sua. Mi venne incontro con un cerimonioso abbraccio, senza mai smettere di congratularsi per i meravigliosi risultati ottenuti all’ esame di maturità:
«Se avessero dato a me un bel cento e lode l’ avrei sbandierato a tutti fino all’ altro capo della luna!».
Mi fece entrare e, dopo aver salutato i suoi genitori, mi condusse fino alla sua camera, dove parlammo amabilmente.
«Cosa farai quest’ estate?» le chiesi.
«Ricordi quando ti parlai dell’ Istituto Lama Tzong Khapa, Maria?» mi chiese lei.
Annuì. Paola era molto interessata alle filosofie orientali, e da qualche tempo stava approfondendo la sua conoscenza del Buddhismo tibetano. In Toscana aveva molti amici, con i quali era stata già due volte a Santa Luce, in provincia di Pisa, presso l’ Istituto Lama Tzong Khapa, un famoso centro tibetano che ospitava spesso il Dalai Lama:
«Tra tre settimane il Dalai Lama verrà all’ Istituto. Ti va di accompagnarmi?».
Il mio sguardo espresse all’ istante un certo disagio. Per tutta la vita ero stata una cattolica credente e praticante, ma appena due anni prima avevo assistito alla morte di mio fratello maggiore, Marino, travolto sulla sua moto da un pirata della strada che non si era neppure fermato per soccorrerlo. Peggio ancora, la polizia non aveva saputo identificare quel delinquente, quindi le indagini erano state presto archiviate.
Dopo una settimana di agonia, Marino se ne andava lasciando un vuoto incolmabile in me e nei nostri genitori. Il suo trapasso fu per me un vero colpo, e la mia fede in Dio ne risultò duramente scossa: se era davvero infallibile e infinitamente buono perché mio fratello, che era giovane, buono e altruista, era morto in quel modo? Perché al posto suo non era morta una persona cattiva, una delle tante che anziché pagare per le loro colpe prosperavano e vivevano a lungo? E perché ogni giorno sentivo parlare di gente che viveva e moriva tra mille tormenti in luoghi come l’ Africa, l’ America meridionale e l’ Asia?
«Tu sai che non trovo nulla di buono nella religione.» dissi a Paola «Per come la vedo io, è solo uno spettacolo di varietà.».
Sorridendo, la mia amica disse che le filosofie orientali erano molto diverse da ciò che noi intendiamo per religione. Nessuna di esse prevedeva infatti la fede cieca in un dio o forme di estasi mistica, ma prediligevano pratiche spirituali atte a conoscere sé stessi e migliorarsi:
«Adoro il Taoismo, ma non è tanto male neppure la filosofia del Buddha. La scuola tibetana, in particolare, vanta tutta una conoscenza della mente che i nostri neuroscienziati stanno solo cominciando a intuire.».
Aggiunse che il Dalai Lama, una volta raggiunto l’ Istituto, avrebbe tenuto un discorso proprio sulla vita del Buddha, e sui suoi insegnamenti. Non le andava proprio di andarci da sola, e avrebbe particolarmente gradito la mia compagnia. Vidi in lei un entusiasmo tutto particolare, e compresi che non intendeva affatto convertirmi, ma solo dividere con me un’ esperienza che reputava unica e irripetibile.
«Ma chi è esattamente il Dalai Lama?» le domandai «Un santone? Un mistico?».
Dopo una bella e simpatica risata, Paola mi disse che si trattava di un monaco, la massima autorità spirituale del Buddhismo tibetano. Dal 1600 circa fino al 1959 era stato anche sovrano assoluto del Tibet, ma con l’ invasione del suo Paese da parte della Cina comunista era stato costretto a rifugiarsi con molti tibetani in India, nella città di Dharamsala, per chiedere aiuto politico e diplomatico all’ estero. Viaggiava in ogni parte del mondo parlando della situazione in Tibet e dando numerosi insegnamenti:
«In una certa misura, alcune scuole di Buddhismo erano già note agli studiosi fin dagli Anni Trenta, soprattutto l’ Hinayana e lo Zen. Ma negli Anni Settanta fiorì un immenso interesse per quella tibetana, con molti lama e monaci che migrarono in Occidente, Europa e Italia comprese.».
Con una punta di scetticismo, domandai se i monaci tibetani non si stessero servendo dell’ insegnamento buddhista per lavarci il cervello e usarci contro la Cina, ma Paola scosse vigorosamente il capo dicendo che i maestri buddhisti di ogni tradizione non cercano mai di fare proseliti, ma insegnano a chiunque voglia imparare:
«Il Buddha si rivolgeva a tutti ma non si imponeva mai a nessuno.».
Quanto alla questione cinese, precisò che da sempre il Dalai Lama seguiva la via del dialogo. Sebbene condannasse fermamente la dura repressione a cui il Tibet era soggetto, insisteva nei tentativi diplomatici con la Cina, e invitava tutti a rispettarla. Tale atteggiamento gli valse nel 1989 il Premio Nobel per la Pace.
«Sarà una bella esperienza, credimi.» disse «E quando torneremo potrai dire di averlo visto di persona.».
Contagiata da tanto entusiasmo, mi lasciai sfuggire un sorriso, e le promisi che mi sarei unita alla sua spedizione. Tre settimane dopo, infatti, salimmo in treno e ci recammo a Livorno, dove fummo accolte dagli amici di Paola, che ci accompagnarono al vicino paese di Santa Luce. L’ Istituto Lama Tzong Khapa sorgeva in un’ antica e grande residenza signorile, munita di camere per gli studenti e per gli ospiti di passaggio oltre che di casette in legno nel vasto podere vicino, ed era abitato da vari monaci italiani e da un lama tibetano. Vi si trovavano vari negozi di libri e oggetti religiosi, e anche una bella mensa e un bar. Paola mi presentò ai suoi amici monaci, molto cordiali e sempre pronti a ridere e scherzare, e mi mostrò ogni parte del centro. L’ orizzonte era dominato da colline e oliveti, e l’ atmosfera che vi regnava mi stupì e mi affascinò all’ istante: si era infatti immersi in una calma benefica, ognuno era sereno e rilassato, sempre pronto a sorridere benevolmente e ad aprirsi con spontaneità agli altri. Il silenzio era rotto dal fruscio degli alberi e dal canto degli uccelli. Qua e la si vedevano gatti e cagnolini che vivevano in una commovente armonia. Rimasi piacevolmente impressionata da un posto del genere, che fondeva tra loro antichi valori spirituali e la possibilità di un soggiorno altamente stimolante e riposante, ben lontano dal caos ormai consueto della vita urbana e «civile».
Dopo appena un paio di giorni, il Dalai Lama arrivò in automobile. Ricordo molto bene quei momenti: il cielo era terso e l’ aria piacevole, i monaci e il lama erano in fila e tutto intorno la gente formava un cerchio ordinato. Il silenzio era profondo. Un giovane monaco tibetano scese dall’ automobile scura e aprì la portiera da cui un momento dopo scese il Dalai Lama, un uomo sorridente, sulla settantina, dal volto piacevole e sereno, vestito con la tonaca rossa e gialla analogamente a tutti i monaci tibetani. Appena lo videro, i monaci dell’ Istituto si prostrarono a mani giunte ripetutamente, toccandosi con le mani giunte la fronte, la gola e il petto, mentre gli studenti restavano a capo chino e con le mani giunte. Il lama residente gli si avvicinò offrendogli una khata, la famosa sciarpa di seta bianca simbolo di purezza, rispetto e benvenuto che lui prese e gli pose sulle spalle. Il lama a quel punto fece tre prosternazioni, toccandosi con le mani giunte fronte, gola e petto. Rimasi affascinata da tutto questo, ma in cuor mio trovai che tanta adorazione fosse un po’ esagerata. Passando tra i presenti, il Dalai Lama benediceva tutti con un gesto, poi entrò nell’ Istituto, seguito dal lama e dai monaci.
La direzione ci aveva fatto sapere che la lezione si sarebbe tenuta dopo alcune ore nel gompa, la sala principale delle preghiere, dando così al Dalai Lama la possibilità di prepararsi. Paola mi disse di affrettarci a prendere posto, così ci recammo immediatamente nel gompa, una sala ampia con in fondo una grande immagine dorata del Buddha, un altare pieno di statue sacre e una miriade di cuscini da meditazione sul pavimento, per i partecipanti. L’ aria profumava d’ incenso. Quando arrivò, il Dalai Lama si prosternò tre volte davanti all’ immagine del Buddha e sedette a gambe incrociate sul trono sotto di essa. In basso, alla nostra destra, sedevano il lama e i monaci. Rimasi stupita dalla grande bontà e insieme dalla fermezza che il famoso maestro emanava, e dal momento che dimostrava di essere pienamente a suo agio pensai che fosse più che abituato a rivolgersi a un pubblico come il nostro.
«Come molti di voi sanno, io non cerco mai di fare proseliti.» esordì in inglese, mentre uno dei monaci italiani traduceva «In quanto monaco tibetano io condivido gli insegnamenti del Buddha con chiunque abbia il piacere di ascoltarli e di rifletterci sopra, ma è giusto che voi restiate fedeli alla vostra tradizione culturale. Chi di voi intende aderire al Buddhismo è libero di farlo, ma in tal caso consiglieri prima un’ attenta valutazione della nostra filosofia.».
Con questa premessa, che mi colpì notevolmente, incominciò a parlare del Buddha e della sua vita, tra mito e realtà. Disse che in Tibet nessuno si era mai posto il problema di fare ricerche storiche sulla sua esistenza, e in generale le date e certi episodi erano avvolti dall’ approssimazione. I britannici erano stati i primi ad applicare il rigore della ricerca scientifica alla figura del Maestro, ma per i tibetani non era molto importante sapere esattamente quando fosse nato o morto: aveva più valore il fatto che si fosse illuminato in una notte di luna piena di fine maggio, e che da quel momento fosse iniziata l’ epoca dei grandi insegnamenti. Indipendente dalle numerose leggende, dai miracoli che gli erano attribuiti e dagli effettivi riferimenti storici, il Buddha rappresentava un esempio che ciascuno di noi, nessuno escluso, può imitare: alla nascita era un semplice uomo, benché socialmente privilegiato in quanto figlio di un re, e ad un certo punto della sua vita si interrogò sulla vera natura dell’ esistenza, tanto da intraprendere un sentiero spirituale che lo condusse a maturare l’ Illuminazione, la piena realizzazione della sua natura innata:
«Non era un profeta, il Figlio di Dio o un liberatore divino, ma un uomo di buona volontà che dopo anni trascorsi in meditazione intuì il valore della consapevolezza e della compassione, semi del Risveglio. Senza la comprensione della realtà in cui viviamo, infatti, è molto difficile trovare pace, ed è impossibile amare il nostro prossimo. Compresi animali e ambiente.».
Sebbene la sua vita fosse ormai intrisa di leggenda e misticismo, analogamente a quella di Gesù, l’ aspetto più importante restava il suo messaggio:
«Come maestro, il Buddha invitava sempre i suoi discepoli a non dare mai per scontate le sue parole, ma a valutarle con attenzione e ad accettarle solo se fossero state utili al raggiungimento del Risveglio, la meta finale. Il nostro destino è quindi nelle nostre sole mani, non nelle sue o in quelle di qualche divinità sperduta tra le montagne o nell’ alto dei cieli.».
Ascoltai rapita dall’ interesse l’ intera lezione, che in tutto proseguì per ben tre ore, nelle quali il Dalai Lama raccontò la vita del Buddha tra i vaghi riferimenti storici e il suo significato più strettamente spirituale. Non lo vidi mai incerto su nulla, e al termine di quel lungo discorso non pareva affatto stanco, anzi, direi che avrebbe potuto proseguire ancora per ore e ore.
«Che ne dici?» mi domandò Paola mentre lasciavamo il gompa insieme agli altri ascoltatori.
«Mi ha colpito molto.» ammisi con entusiasmo «Mi è sembrato molto preparato e sincero per tutta la spiegazione.».
A quel punto la mia amica mi stupì domandandomi se volessi richiedergli un’ udienza. Non ero affatto preparata a un’ idea del genere, ma senza nemmeno riflettere risposi che sarebbe stato magnifico. Paola annuì, seria in volto, e mi invitò a tornare nella nostra casetta dicendo che sarebbe tornata presto con una risposta. Mezz’ ora più tardi tornò dicendo che la mattina dopo, alle dieci, il Dalai Lama mi avrebbe ricevuta nella sua stanza. All’ improvviso fui travolta dalla preoccupazione: stavamo parlando di uno degli uomini più influenti e famosi del mondo, come mi sarei dovuta comportare con lui? Ma Paola sorrise divertita, rispondendo di averlo già incontrato in un paio di occasioni, e che in sua presenza ogni formalità era bandita:
«E’ un uomo molto affabile e spontaneo. Mira dritto al sodo, e con il solo sguardo sa mettere chiunque a proprio agio. Standogli vicino per un po’ ogni turbamento se ne va come una nuvola soffiata via dal vento.».
Mi ricordò il saluto alla maniera tibetana, con la khata e le prosternazioni, e aggiunse che avrei dovuto porgergli un dono, che poteva consistere in un po’ di incenso, un rosario o una busta con del denaro. Si trattava infatti di un’ antica tradizione, e il più delle volte questo dono veniva nuovamente offerto a un monastero o a qualcun altro, per evitare la coltivazione dell’ egoismo e dell’ orgoglio.
Il mattino dopo mi svegliai di buon’ ora, feci un bagno e andai nel negozietto di articoli religiosi, dove chiesi il consiglio della monaca che lo gestiva: volevo infatti essere certa di fare bella figura! Prima e dopo la colazione ripassai bene nella mia testa le questioni di cui volevo parlare, e alle dieci in punto mi presentai nell’ alloggio privato del Dalai Lama, che trovai in attesa in fondo alla grande stanza, seduto a gambe incrociate nel suo letto giallo, ai cui piedi era disposto un comodo tappeto. Mi invitò sorridendo ad avvicinarmi. Gli offrì la khata, che mi mise sulle spalle, mi prostrai e gli offrì il mio dono, un rosario in legno di rosa da centododici grani, esattamente il tipo che lui amava di più. Mi sedetti, e come accennato da Paola il suo sguardo riuscì subito a mettermi a mio agio, irradiando bontà e amicizia. Mostrava un ampio sorriso, colmo di entusiasmo e amicizia, come se ci conoscessimo da una vita e se ci stessimo incontrando dopo molto tempo. Il nostro dialogo si tenne in inglese, e per prima cosa mi ringraziò del dono, dicendo che avevo scelto per lui un rosario dal bel colore:
«Cosa posso fare per te, cara?».
In quel preciso momento ogni mia tensione si dissipò come per magia, e ricambiando il sorriso gli chiesi a mia volta:
«Vostra Santità, che senso ha per lei la religione nel mondo di oggi, in mezzo a tanta sofferenza e difficoltà?».
Il Dalai Lama annuì, e mi rispose che lo scopo fondamentale di ogni religione, nessuna esclusa, era proprio quello di contribuire a risolvere la sofferenza, di aiutare gli uomini e le donne a diventare migliori:
«Sono convinto però che la religione sia spesso insegnata in modo scorretto, e che quindi sia malamente interpretata e vissuta dalla gente, che se ne allontana di giorno in giorno. Ma da quanto ho capito, il vero problema non sta nella mancanza di fede in una religione, perché spesso gli atei sono migliori di molti credenti: il vero problema è l’ allontanamento dalla spiritualità.».
Disse che trovava importante fare una distinzione piuttosto netta tra religione e spiritualità, poiché la prima implica l’ insieme di credenze mistiche, dogmi, rituali e preghiere, mentre l’ altra invece intende la cura e lo sviluppo dello spirito:
«Tutto ciò che stimola positivamente la mente e il cuore merita di essere considerato spiritualità, come ad esempio una passeggiata o la contemplazione di un’ opera d’ arte. La spiritualità non dipende per forza dalla religione.».
Aggiunse che nella sua residenza a Dharamsala, dove era solito a svegliarsi alle quattro del mattino, dopo la meditazione amava trascorrere un po’ di tempo in giardino contemplando il cielo stellato, la cui vista gli ricordava di essere parte di un universo la cui grandezza si intuisce a stento. Ciò rappresentava per lui un grande atto di spiritualità:
«La religione è soltanto una piccola parte della spiritualità, e personalmente non trovo necessario aderire a un credo per essere spirituali.».
Gli dissi che due anni prima mio fratello era morto, e che la mia fede in Dio ne era uscita devastata. Ripensavo alla sua bontà e al dolore che precedette la sua morte, e considerando l’ indubbio successo di tante persone cattive che invece vivevano e prosperavano trovavo piuttosto evidenti le manchevolezze della religione in materia di sofferenza.
«Se sei ebrea, cristiana o musulmana, devi avere fede in Dio.» affermò il Dalai Lama «Noi buddhisti non crediamo in dei simili al vostro, e ammetto che la mia conoscenza delle tre religioni che venerano lo stesso Dio non è particolarmente ricca. Dialogando con i maestri di tali tradizioni, però, ho scoperto che in effetti il tema della sofferenza è da sempre povero di spiegazioni. Ci si chiede perché Dio, infinitamente buono e perfetto, abbia posto le basi del dolore in questo mondo di sua creazione, e perché non intervenga quando esso si manifesta.».
Spiegò che il Buddha, invece, disse più volte che la sofferenza è una parte naturale e inevitabile della nostra vita, poiché noi siamo limitati e vulnerabili, tutto ciò che sorge è destinato a cessare, ed è soggetto al logoramento. E’ semplicemente così, e bisogna accettarlo. Tuttavia la vera sofferenza è scatenata da fattori psicologici:
«Spesso siamo soggetti al capriccio egoistico, ai piaceri dei sensi e al desiderio che le cose non cambino mai, se non in base alla nostra volontà. Tutto ciò, alla lunga, risulta inevitabilmente nocivo: piangiamo la morte di una persona cara ma ci infischiamo di quella di un estraneo, ci lagniamo di una pietanza che non ci piace senza pensare a chi muore di fame.».
Il Buddha invece esortava tutti con convinzione ad essere parsimoniosi ed equanimi, percorrendo la «Via di Mezzo», quel particolare sentiero di vita incentrato sul miglioramento di sè stessi e insieme sull’ accettazione di tutto ciò che non possiamo cambiare. Aggiunse che per quanto riguardava mio fratello, mi sarebbe stato di grande aiuto considerare che era morto solamente nel corpo, mentre il suo spirito continuava a vivere. Se era vero che in vita era stato buono avrei dovuto cercarlo nella beatitudine, e molto presto, in un modo o nell’ altro, ci saremmo incontrati di nuovo. Dunque non c’ era motivo di covare tanta tristezza:
«E’ vero, è morto in modo particolarmente triste, quindi nella vostra famiglia è più difficile maturare il distacco, ma le frontiere dello spirito umano sono meravigliose e infinite, e la morte per fortuna non ha il potere di cancellare il nostro spirito.».
Tornando alla questione della fede in un dio, gli domandai a chi si affidava il suo popolo. Da quando ero all’ Istituto, infatti, avevo sentito recitare moltissime preghiere.
«Noi tibetani abbiamo una tradizione un po’ diversa dalla vostra.» mi disse il Dalai Lama «Certo, abbiamo i nostri spiriti protettori, molto simili ai vostri angeli custodi, a cui chiediamo aiuto, un sostegno. Tuttavia siamo convinti che nessuno possa agire al posto nostro o compiere un miracolo per noi, nemmeno gli spiriti protettori, per quanto siano spiritualmente potenti.».
Spiegò che ogni pensiero, parola e azione nasce dalla persona, dunque ognuno di noi è artefice del proprio destino. Non le «forze invisibili». Proprio come quando si va dal dottore per curarsi: il medico indica la strada per la guarigione, ma senza la partecipazione del paziente le sue parole sono solo fiato al vento. Nemmeno il Buddha è considerato un essere divino da invocare per ricevere la grazia, magari un bel voto a scuola o la vincita della lotteria:
«Dobbiamo confidare prima di tutto in noi stessi e nelle nostre qualità innate!».
«Sempre più occidentali si stanno avvicinando alla filosofia buddhista.» gli dissi «Forse perché privilegia la consapevolezza della verità rispetto alla fede cieca in qualcosa?».
Il Dalai Lama rispose che molto probabilmente era così. Ogni volta che veniva in Occidente per insegnare, restava colpito dalla nostra curiosità e voglia di imparare:
«La compassione fa parte della vostra componente cristiana, e questo mi pare davvero meraviglioso. Quando insegno agli occidentali, mi vengono sempre poste molte domande sulla consapevolezza della realtà, ossia la capacità di giungere al vero partendo dai fatti evidenti, e sulla meditazione. Tutti ingredienti fondamentali per maturare il Risveglio.».
Aggiunse che lo considerava un atteggiamento molto buono, perché la fede cieca e non riflettuta in qualcosa porta sempre e comunque a dei problemi inutili che accrescono il dolore:
«Tutto può e deve essere messo in discussione. Proprio come diceva il Buddha: valuta sempre ogni cosa di persona, privilegia la comprensione alla fede. Sii scettico, fatti domande e trova le risposte.».
La nostra conversazione terminò così, dopo appena pochi ma intensi minuti. Mi sentivo molto felice, e cominciavo finalmente a intuire che cosa fosse un’ illuminazione interiore. Il Dalai Lama mi benedisse poggiando la sua fronte contro la mia e mormorando una breve preghiera in tibetano, e mi confortò dicendo che la nostra vita è un dono altamente prezioso, poiché tanto nella vita quanto nella morte siamo capaci di infinite opere di bene:
«Questo non è un privilegio, ma una responsabilità. Abbiamo il dovere di essere positivi non solo per noi stessi, ma per tutte le cose viventi che ci circondano, dal grande elefante alla piccola zanzara. Incluse le forme di vita vegetali.».
Noi umani siamo infatti parte dell’ ambiente circostante, non i suoi padroni, e se ci distinguiamo dagli altri animali per intelligenza e amore dobbiamo recare beneficio al maggior numero possibile di esseri viventi, senza speranza di ricompensa:
«Perfino molti dei nostri lama, quando ottengono l’ Illuminazione, anziché sgattaiolare nel Nirvana, dove non c’ è più dolore, continuano a reincarnarsi volontariamente per il bene di tutti. Proprio come i capitani che abbandonano la nave per ultimi. Questo è l’ altruismo alla base di tutti gli insegnamenti del Buddha.».

Quando uscì dalla grande stanza, con ancora la khata al collo, avevo per la prima volta le lacrime agli occhi. Quel grande saggio mi aveva toccato il cuore, molto più di quanto avesse potuto fare un vescovo o un papa, e compresi senza il minimo dubbio che meritava fino in fondo di essere il principale maestro di un’ antica e profonda filosofia che oggi si rivela sempre più attuale.

In nomine Domini


Attraverso il telefono, in una tiepida e soleggiata mattina di sabato di metà settembre, la voce baritonale del professore irlandese Damhnaic Joyce, mio buon amico che ormai da qualche anno viveva ad appena una decina di metri da casa mia, giungeva acuta e gioiosa:
«Coma va, Giacinto? Io sono tornato ieri sera dalla mia Dublino, e ho molta voglia di incontrarti. Ti andrebbe di passare a trovarmi oggi alle diciassette?».
«Ma certo.» acconsentì di buon grado «Sono certo che hai molte cose da raccontarmi.».
«Bene, benissimo.» rispose lui nel suo perfetto italiano «Peraltro, ti ho portato un dono che senza dubbio apprezzerai moltissimo.».
Benché Damhnaic fosse un erudito professore di religione prossimo ai quarant’ anni, laureato con lode in filosofia con una tesi sulla storia del Cristianesimo, famoso per aver insegnato nelle più prestigiose università europee, soprattutto quella di Londra e Berna, presso le quali aveva ricevuto varie alte onorificenze, e io un ragazzo di appena sedici anni, lievemente bizzarro, da qualche anno tra noi era nata una bella amicizia che ci portava a incontrarci molto spesso. Durante i pomeriggi che trascorrevamo insieme affrontavamo discussioni molto interessanti, dalle quali traevo sempre un profondo insegnamento. Ricordo di avere imparato più questioni culturali dialogando allegramente con lui in una manciata di ore piuttosto che in molti anni di scuola.
Alle diciassette di quel pomeriggio, perfettamente puntuale, suonai al suo campanello, installato sulla parte destra dell’ ingresso. Oltre il cancello, in mezzo al prato perfettamente curato, si poteva ammirare la casa del mio amico, raffinata e semplice al tempo stesso, costruita e arredata rigorosamente in stile anglosassone. L’ abitazione si ispirava in ogni dettaglio alle antiche residenze di campagna britanniche, mentre il caldo arredamento interno emanava un grande senso di familiarità e accoglienza, facendo di ogni stanza un luogo elegante. Ogni volta che visitavo il professore mi scappava un sorriso benigno, poiché niente e nessuno avrebbe mai portato un irlandese o un britannico a perdere le abitudini di casa propria.
Damhnaic, un omone alto e atletico, rosso di capelli, mi accolse sulla porta di casa con il consueto spirito allegro e cordiale. Ci salutammo con affetto, e mi fece accomodare in salotto, dove in un attimo giunse con un vassoio su cui era servito tè Prince of Wales, il nostro preferito, accompagnato da squisiti dolcetti comprati in giornata dal vicino fornaio. Prese a raccontarmi delle tre settimane trascorse in Irlanda con la famiglia e gli amici:
«Il tempo scorre molto velocemente, quando si torna a casa propria. Ogni volta si ha l’ impressione di non avere abbastanza tempo.».

Ad un certo punto mi porse un pacchetto incartato, che mi invitò ad aprire: con mia grande sorpresa vidi che si trattava della nuova edizione in inglese del «Dracula» di Bram Stoker, grande autore irlandese tra i miei preferiti.
«Ti sarà utile per perfezionare il tuo inglese.» sorrise il professore «Quello vero, e non quel rifacimento pieno di licenze poetiche che si è imposto nelle vostre scuole.».
Sorrisi, colmo di gratitudine: a ragione, Damhnaic sosteneva che l’ inglese insegnato nelle scuole europee non fosse puro e preciso come quello che si parlava in Gran Bretagna e Irlanda. Dialogando con lui in questa lingua e leggendo i libri che mi donava ogni volta che tornava da Dublino avevo fatto giganteschi passi avanti. Credo che ne fosse personalmente fiero.
«Come hai cominciato l’ anno scolastico?» mi domandò ad un tratto «Hai qualche nuovo professore?».
Gli risposi di aver iniziato positivamente l’ anno nuovo al liceo, ma giusto il giorno prima era avvenuto uno spiacevole episodio che mi aveva turbato molto. Il nuovo insegnante di religione, un anziano sacerdote appena nominato parroco della nostra chiesa, durante la lezione aveva infatti espresso commenti particolarmente severi contro gli omosessuali e i divorziati, peccatori che conducevano una vita particolarmente immorale, pecorelle tremendamente smarrite:
«Ha detto che omosessualità, bisessualità e transessualità rappresentano una grave deviazione dalla natura, poiché il sesso deve servire come mezzo per concepire i figli, e che il matrimonio è un sacramento indissolubile. Nessuno può permettersi di andare contro il volere di Dio, perché la sua parola è legge suprema.».
Una mia compagna di classe, lesbica e al tempo stesso di sentita educazione cattolica, non aveva tollerato affatto l’ aspra critica mossa dal prete, ragion per cui aveva abbandonando immediatamente la lezione. Finendo di sorseggiare il tè e mangiando il suo ultimo dolcetto, il luminare scosse il capo con notevole disappunto. Sapevo di avere di fronte un anticlericale particolarmente convinto:
«La Chiesa, purtroppo, non si smentisce mai. E’ sempre pronta a giudicare e reprimere, a trovare il male in ogni cosa, e a dispetto delle sue gravissime e millenarie colpe e menzogne, la gente continua a pendere fortemente dalle sue labbra.».
Sotto la Chiesa, disse, l’ Occidente aveva conosciuto una lunga epoca di inauditi crimini contro l’ umanità. Molti Paesi, sparsi in Africa, America, Asia e Oceania, avevano subito un lungo e sofferto genocidio culturale per opera dei missionari, che avevano sparso e imposto il credo cristiano come una droga, facilitando la conquista da parte degli imperialisti:

«Non c’ era niente che quei popoli desiderassero dall’ Occidente, e così diedero loro qualcosa da desiderare: la religione. Ciò che dovrebbe servire per il bene delle persone finì per diventare un vero e proprio oppio dei popoli, secondo la terminologia comunista. Ma, fortunatamente, oggi la gente comprende sempre di più che la Chiesa ha accumulato più colpe di Adolf Hitler e del regime nazista.».
Annuì, replicando che purtroppo non se ne parla mai abbastanza. Non ho mai avuto un animo polemico, ma ho sempre apprezzato sentire e dire la verità per quello che è. Il mio amico rispose che tale atmosfera di omertà era dovuta alla sovranità limitata a cui l’ Italia era soggetta, in quanto il principio della laicità statale, chiaramente sancito nella nostra Costituzione, non veniva mai veramente applicato. All’ interno di Roma, infatti, si erge il Vaticano, la minuscola nazione teocratica a capo della più diffusa e gerarchizzata organizzazione religiosa del mondo: il governo italiano ne subiva notevolmente l’ influenza, e fin dalla nascita gli atei e i semplici indifferenti alle questioni di fede erano obbligati a fare i conti con questa invadente realtà:
«Quando è ora di giudicare gente come Adolf Hitler e Slobodan Milosevic siamo tutti giustamente severi nei loro riguardi. Esperienze come la dittatura e la pulizia etnica sono assai nefaste per la società. Ma la Chiesa, nei suoi venti secoli di età, ha saputo calare una vera e propria cortina di ferro sui propri intrighi, genocidi, atti di intolleranza, razzismo, torture e lavaggi del cervello avvenuti in evidente opposizione con quanto consigliato da Gesù, fonte primaria del suo insegnamento.».
Aggiunse che il fanatismo con cui tutta questa brutalità era stata compiuta rappresentava ciò che lo spaventava di più:
«Il clero cristiano dice da secoli di operare in nome di Dio, e il celebre Dictatus Papae di Papa Gregorio VII, tuttora in vigore dal 1075, afferma senza mezzi termini che la Chiesa non ha mai sbagliato, né mai in futuro sbaglierà, come testimoniato dalle Sacre Scritture.».
Damhnaic raccontò che già all’ indomani della legalizzazione del culto cristiano, avvenuta nel febbraio 313 con l’ editto di Milano, voluto da Costantino, la Chiesa scatenò un inferno di inarrestabile violenza e intolleranza demolendo i luoghi di culto pagani, uccidendo i relativi sacerdoti, perseguitando ed eliminando un numero elevatissimo di fedeli. Antichi e importanti centri come il santuario di Esculapio nell’ Egea e quello di Eliopoli, il tempio di Afrodite a Golgota e quelli di Afaca nel Libano furono completamente distrutti. Sacerdoti cristiani particolarmente impietosi come Marco di Aretusa o Cirillo di Eliopoli furono celebrati come meritevoli «distruttori di templi», come vennero chiaramente nominati, mentre nel 356 fu stabilita la pena di morte per chi praticasse ancora i riti pagani. Nel VI secolo, infine, i pagani furono dichiarati fuorilegge:

«Non doveva esserci spazio che per la religione cristiana. L’ imperatore Teodosio, ad esempio, giustiziò perfino dei bambini che avevano giocato con alcuni resti di statue pagane demolite. Eppure, a detta di svariati storiografi cristiani, quest’ uomo rispettava con grande cura ogni dettaglio della condotta cristiana…».
Nemmeno Carlo Magno fu esente da gravi colpe, compiute in nome di Dio. Nel 782, per esempio, fece decapitare ben quattromilacinquecento sassoni colpevoli di non volersi convertire al Cristianesimo:
«Pure la mia Irlanda sopportò atrocità di questo genere. Nel XVI e XVII secolo, le truppe inglesi raggiunsero le nostre coste con l’ intento di pacificarci e civilizzarci. Ci ritenevano un branco di selvaggi gaelici, animali irragionevoli senza alcuna idea di Dio o di buone maniere che addirittura si dividevano la proprietà di donne e bambini, come avveniva per il bestiame.».
Sembrava che stesse rievocando dolorosi episodi di vita. Uno dei più importanti condottieri, un certo Humphrey Gilbert, fratellastro di Sir Walter Raleigh, fece mozzare dai corpi le teste di tutti coloro che erano stati uccisi in quel massacro, facendole spargere dappertutto lungo la strada:
«Tale offerta di civilizzazione causò grande sofferenza. Pensa a quanti videro sparse sul terreno le teste dei genitori, dei fratelli, dei bambini, dei parenti e degli amici. Decine di migliaia di persone furono mietute e oltraggiate nella morte per fini strettamente religiosi.».
Inutile dire che tutti quei cupi avvenimenti avevano ricevuto la benedizione della Chiesa. Scossi il capo, notevolmente turbato:
«Purtroppo, da quando esiste un Dio non si è fatto altro che uccidere nel suo nome.».
Il professore rispose che, disgraziatamente, in seguito era stato compiuto anche dell’ altro. Affermò che nei secoli del Medioevo la Chiesa aveva influito notevolmente sullo sviluppo culturale europeo, rallentandolo e addirittura arrestandolo, quando possibile. Grandi geni della ricerca, primo tra tutti Galileo Galilei, erano stati ingiustamente perseguitati, pubblicamente derisi, condannati e indotti a sospendere ogni attività, sconfessando i risultati già ottenuti e chiaramente dimostrati:
«Per un migliaio di anni la scienza fu bollata come una maledizione e un’ eresia. La fede, di fatto, non aveva bisogno di alcuna conferma da parte della scienza, e noi oggi non abbiamo la minima idea dello straordinario sviluppo culturale, scientifico e tecnologico di cui godremmo se questo vergognoso impedimento non fosse accaduto.».
Sempre nel Medioevo, epoca per vari aspetti tetra, la Chiesa era passata alla storia per ignobili e ripetuti atti di terrorismo su vasta scala: con la costante diffusione della paura del Demonio, la cui terribile influenza poteva scatenarsi in ogni momento, il fedele non aveva altra scelta che affidare tutto sé stesso allo stesso clero, mettendone diligentemente in pratica i precetti, assicurandosi la salvezza e la beatitudine del Paradiso. In periodi penosi come la Grande carestia del 1315-1317 e la Peste nera, avvenuta tra il 1347 e il 1353, l’ ordine ecclesiastico cominciò a trasmettere una religiosità fortemente basata sulla mortificazione, la penitenza e la rinuncia. Tra la gente divenne familiare la pratica di rituali cruenti come l’ autoflagellazione, in cui il fedele colpiva più volte il proprio corpo con il flagello allo scopo di rafforzare lo spirito e la vita interiore, e l’ impiego del cilicio, la celebre veste intessuta di peli di capra, ruvida e scomoda da indossare sulla nuda pelle con l’ intento di avvilire la carne, in un atto di penitenza. In alcuni ordini religiosi, pratiche del genere divennero veri e propri strumenti di santificazione e purificazione.
«Tuttavia, con l’ Inquisizione, iniziata con il Concilio di Verona del 1184, presieduto da papa Lucio III e dall’ imperatore Federico Barbarossa, si verificarono atti della peggiore brutalità, come la caccia alle streghe.» brontolò il luminare «Un vero e proprio attacco a volto scoperto contro il mondo femminile.».
Essendo un convinto femminista, si fece molto severo su questo punto. In realtà, nel periodo dell’ Inquisizione, l’ istituzione ecclesiastica fondata per indagare e punire mediante un apposito tribunale i sostenitori di teorie considerate contrarie all’ ortodossia cattolica, erano avvenuti numerosi atti di persecuzione ideologica, tra cui l’ accanimento a danno degli scienziati, ma la caccia alle streghe aveva effettivamente assunto un rilievo tutto particolare. Disse che il clero si rivelò particolarmente duro contro le donne, che passarono un brutto quarto d’ ora in un periodo compreso tra la fine del Quattrocento e la prima metà del Seicento. Per circa due secoli la Chiesa fu instancabile nella ricerca e nella persecuzione di donne sospettate di intrattenere rapporti con il Demonio, da cui avrebbero tratto il potere di compiere sortilegi e malefici capaci di danneggiare gli uomini, indebolendone la forza vitale. Ritenute pericolose tanto dalle autorità religiose quanto da quelle civili, le streghe venivano regolarmente punite con la morte:
«La realtà storica delle streghe fu notevolmente complessa e sfaccettata. Le donne venivano accusate di stregoneria semplicemente perché sorprese a praticare l’ antico sapere sciamanico, unito a usanze legate ai culti pagani della fertilità risalenti al mondo antico e preistorico.».
Il luminare ribadì che la Chiesa aveva sempre smentito con vigore le credenze magiche, ma era una assolutamente sicura dell’ esistenza al mondo di streghe e maghi, che bollava come agenti del Demonio. Nei secoli presentò peraltro diversi documenti contro la superstizione, come il Canon episcopi, destinato ai vescovi, e tredici bolle tuttora accettate dal Vaticano, in cui si accettava ufficialmente la realtà della stregoneria. Nel corso delle due grandi ondate della caccia alle streghe, la prima avvenuta tra il 1480 e il 1520 e l’ altra dal 1560 al 1650, furono perseguitate donne legate prevalentemente alle classi sociali inferiori, in larga parte vedove e prostitute, ma anche levatrici, erboriste e guaritrici che si prodigavano con decotti e infusi a base di piante per fronteggiare le malattie e alleviare i dolori delle partorienti. Spesso le autorità estendevano le condanne anche ai figli, soprattutto quelli di sesso femminile. Un’ infinità di persone innocenti, di ogni età e provenienza, colpevoli soltanto di essere donne come Eva, colei che tentò Adamo provocandone la caduta, divennero l’ oggetto di un’ ignobile ferocia. Tuttavia, alcuni dettagli avevano portato gli storici a identificare pure una bassa presenza di assassine e malviventi tra le condannate:
«Venivano presentate denunce anonime, mosse da futili ragioni, a cui seguivano torture strazianti atte a indurre le donne a confessare le proprie colpe e gli eventuali complici. Poiché in quel periodo erano in vigore leggi sulla confisca dei beni, nella maggior parte dei casi si induceva le prigioniere a fare il nome di persone ricche e potenti, divenute sgradite al sistema. A quel punto le streghe venivano date al rogo purificatore.».
In quel tempo, problemi quali malattie, morte, povertà e carestie erano in continuo aumento, e non riuscendo più a dare risposte esatte sulle cause e i rimedi il clero trovò nel mito delle streghe un ideale capro espiatorio. Il clima generale di tutta questa insensata ecatombe si ispirava a un versetto del Vangelo di Giovanni, in cui si afferma che chi non rimane in Gesù deve essere gettato via come un tralcio, per poi essere raccolto e bruciato. Damhnaic aggiunse che la condanna a morte attraverso il rogo non spettava propriamente alla Chiesa, ma alle autorità civili, opportunamente soggette alla sua influenza spirituale.
«Quante donne sono morte nella caccia alle streghe?» domandai.
Il professore scosse il capo, dicendo che il numero delle vittime era tuttora largamente dibattuto, anche a causa della perdita nel corso dei secoli di un gran numero di documenti processuali. Temendo che gli immensi archivi inquisitoriali cadessero nelle mani dei suoi molti nemici, infatti, la Chiesa diede alle fiamme quasi ogni testimonianza:
«Le cifre che gli esperti hanno ipotizzato rappresentano ordini di grandezza, e indicano circa centodiecimila processi in tutta Europa. Le esecuzioni sarebbero state pari al cinquantacinque percento dei processi, per un totale di circa sessantamila persone. Otto accusati su dieci erano di sesso femminile.».
Aggiunse che in realtà l’ ostilità contro le donne era cominciata molto tempo prima, con gli attacchi contro un celebre personaggio dei Vangeli quale Maria Maddalena:
«Si dice che quando Gesù la incontrò fosse posseduta dal demonio, e che lui la salvò. Colma di riconoscenza divenne una dei suoi seguaci più stretti, e lo aiutò anche economicamente. Con il tempo i due divennero molto vicini anche personalmente. Determinati passi dei Vangeli ci fanno intuire chiaramente la sua importanza, raccontando ad esempio che fu lei a vedere per prima Gesù risorto dalla morte. Tuttavia, in quanto donna che viveva tra gli uomini si attirò molte maldicenze, e venne considerata persona promiscua. La sua cattiva fama nella Storia nacque semplicemente così. Il racconto evangelico la introduce subito dopo l’ incontro di Gesù con una prostituta a cui lui concesse l’ assoluzione dalle sue trasgressioni. Lei e la Maddalena erano chiaramente due donne diverse, ma cinque secoli dopo la loro morte le cose sarebbero nettamente mutate.».
Nel sermone pasquale dell’ anno 591, infatti, papa Gregorio Magno dichiarò che l’ anonima prostituta e Maria di Magdala erano la stessa persona, sebbene non vi fosse alcun legame tra loro:
«Il Vaticano rigettò questa dichiarazione soltanto nel 1969, dopo un millennio e tre secoli di immotivato discredito. Che vergogna!».
Al termine di questo resoconto parziale, ma assai inquietante, sulla storia della Chiesa, il luminare rifletté:
«Come tu hai giustamente notato prima, in nome di Dio e Gesù sono state compiute le peggiori nefandezze della storia. Ma l’ aspetto più triste è che alla base di tutto questo fanatismo sta solamente un vile inganno: la più grande storia mai raccontata è stata opportunamente riscritta in una serie di giochi di potere, semplici ma orrendi, che hanno innalzato alle vette della grandezza gente avida e crudele. In altre parole, quasi nulla di quanto sappiamo oggi sulla vita di Gesù e l’ origine del Cristianesimo è vero. Per quanto mi riguarda, la Chiesa ha compiuto la più grande opera di disinformazione della storia.».
Tali parole, e soprattutto il loro tono così convinto e consapevole, mi colpirono molto. A dire il vero avevo sentito affermare questo concetto molte volte, e dalle persone più diverse, ma se affrontato dal celebre professor Joyce, che si esprimeva solo se supportato da elementi chiari e innegabili, assumeva un significato particolarmente veritiero.
«Che cosa vuoi dire?» domandai incuriosito.
Il mio amico asserì che la figura di Gesù aveva sempre suscitato una certa curiosità da parte degli storici, i quali tentavano di ricostruire la sua figura secondo i moderni metodi scientifici attraverso l’ analisi deduttiva di prove e testi antichi e il confronto con il contesto storico e culturale del suo tempo. L’ avvio della moderna ricerca risaliva alla fine del XVIII secolo, con la pubblicazione degli studi del filosofo e scrittore tedesco illuminista Hermann Samuel Reimarus, noto deista. Lo scopo era di ricostruire con più esattezza la sua vita e il suo insegnamento, prendendo in considerazione indizi e fatti concreti piuttosto che le più evanescenti considerazioni di fede, per quanto rispettabili, ma la Chiesa aveva sempre scoraggiato tali tentativi, per ovvie ragioni di potere:
«Il clero sostiene fin dai suoi albori di aver ricevuto l’ insegnamento direttamente da Gesù, ragion per cui l’ istituzione della Chiesa si è facilmente imposta come l’ unico soggetto capace di guidare il fedele direttamente al Signore. E chi mai avrebbe rinunciato volontariamente a questo importantissimo monopolio spirituale? Ben pochi.».
Sostenne inoltre che, a dispetto delle molteplici difficoltà legate al molto tempo trascorso dalla vita e morte di Gesù, ossia venti secoli sotto l’ egemonia della Chiesa, gli storici avevano saputo tracciare un primo quadro sulla sua esistenza e il suo messaggio:
«Negli anni del suo insegnamento, il Nazareno assunse il ruolo di maestro, o rabbino, e la gente lo rispettò come profeta. Tuttavia non disse mai di essere figlio di una vergine, nato da un’ immacolata concezione, o di dover morire per riscattare il genere umano dal Peccato originale. Tanto meno che sarebbe risorto dopo tre giorni o di voler fondare una Chiesa.».
Dal giorno della sua morte fino ai giorni nostri, su Gesù erano proliferati i più diversi miti e leggende, spesso e volentieri ripresi dalle religioni pagane ed esoteriche dell’ antichità, tuttavia il profilo autentico che stava lentamente ma inesorabilmente riemergendo dalle sabbie del tempo corrispondeva a quello di un ebreo che viveva perfettamente in tono con la Torah, la Legge che Dio aveva dato a Mosè sul monte Sinai centinaia di anni prima della sua nascita. Si trattava di un giovane uomo che amava la propria gente, di cui rispettava le antichissime tradizioni benché fosse assai critico verso tutti quegli aspetti che ormai si presentavano come sorpassati e marginali. Egli sognava di modernizzare e rendere più semplice e diretta la fede dei suoi padri, affinché fosse accessibile a tutti, soprattutto i più umili, e di incentrarla sul perdono e sul riscatto degli emarginati:
«Gesù fu una persona assai sfaccettata e solitaria, anche agli occhi dei suoi discepoli più intimi, e rimase legato ai propri ideali fino alla morte dolorosa su di una croce romana.».
Gli esperti non avevano dubbi sulla sua esistenza: egli era effettivamente vissuto in Israele un periodo approssimativamente compreso tra gli ultimi anni del principato di Cesare Augusto e di quello di Tiberio, era stato un uomo saggio e illuminato, un maestro capace di attirare vaste folle, e morì per crocifissione sotto Ponzio Pilato, con l’ accusa di lesa maestà:
«Ma era un normalissimo essere umano, come tutti noi. La sua grandezza stava nella notevole intelligenza e nella saggezza spirituale. E il suo insegnamento, basato sull’ amore per il prossimo e la fede verso Dio, era naturalmente rivolto ai soli ebrei, che da secoli attendevano un segno dal loro Signore.».
«Non disse ai discepoli di andare in tutto il mondo a insegnare quanto avevano visto e ascoltato?» domandai.
Damhnaic scosse il capo:
«Gesù era ebreo, e come tale parlava al suo popolo. La celebre frase che tu hai appena citato risulta un’ aggiunta successiva, fissata nelle Sacre Scritture dagli autori cristiani quando ormai il Cristianesimo aveva già oltrepassato i confini di Israele, sua terra d’ origine.».
Il ritratto di un Gesù divino, attualmente così familiare, sostenne, ci giungeva dai quattro Vangeli, che ispirarono i concetti e lo stile del Nuovo Testamento. Essi, però, furono composti a settant’ anni dalla Crocifissione, cosa che indusse gli storici a soppesare con grande attenzione la loro credibilità storica poiché, analogamente ad altri documenti umani, nella loro esistenza conobbero ovviamente una lunga fase di trascrizioni, interpretazioni e aggiunte. Peraltro, molti studiosi si ritenevano ormai quasi del tutto certi che gli autori non fossero realmente Marco, Matteo, Luca e Giovanni, ma seguaci delle scuole di pensiero sorte attorno ad essi. Si raccontava persino che San Pietro, San Giovanni e Giacomo, uno dei quattro fratelli di Gesù, ebbero un’ aspra disputa con San Paolo, giungendo a una rottura da cui sarebbero sorti numerosi Vangeli che però furono subito esclusi dalla teologia. Nel corso dei secoli numerosi di questi scritti andarono persi, finendo con l’ essere soltanto nominati in opere successive, ma alcuni vennero fortunatamente riscoperti nel corso di ritrovamenti archeologici avvenuti tra il XIX secolo e i giorni nostri. La Chiesa ne riconobbe solamente quattro, che vennero chiamati Canonici, mentre quelli rigettati in quanto ritenuti portatori di tradizioni misteriose o esoteriche furono detti Apocrifi, ossia «nascosti», «riservati a pochi».
Il Cristianesimo, così come Gesù l’ aveva insegnato originariamente, era semplicemente una scuola di pensiero dell’ Ebraismo, inizialmente seguita da una minoranza di ebrei. Risultava una via di fuga dal rigido insegnamento tradizionale, così come tempo addietro era avvenuto in India con il Buddhismo e il Giainismo nei confronti dell’ originaria filosofia induista:
«Dopo la morte di Gesù di Nazareth emerse con prepotente rilievo la figura di Saul di Tarso, che passò alla storia come San Paolo, l’ Apostolo delle Genti, l’ unico tra i seguaci a non averlo mai visto di persona. Egli fu il primo a insegnare il Cristianesimo ai non ebrei, viaggiando soprattutto nelle province romane di lingua e cultura greca, dove ebbe un grandissimo seguito, fino al giorno in cui fu arrestato e portato a Roma, dove fondò insieme a San Pietro la comunità cristiana locale, destinata in futuro a divenire la principale.».
Proprio perché i suoi discepoli non erano ebrei, San Paolo dovette staccare il Cristianesimo dall’ Ebraismo, e formulare una nuova teologia che ancora oggi risultava alla base della formazione dei sacerdoti. La sua influenza storica fu enorme, poiché mentre i Vangeli si occupavano in larga parte di narrare le parole e le opere di Gesù, le sue Lettere tracciavano la natura salvifica della sua incarnazione, passione, morte e ritorno alla vita. A detta di molti, fu il vero fondatore del Cristianesimo:
«Demonizzò per primo il sesso, parte naturale della nostra vita, accusandolo di ancorarci all’ esistenza terrena allontanandoci da Dio, idea che poi sarebbe stata ripresa con più forza da Sant’ Agostino. Anche solo mostrare il proprio corpo divenne un vergognoso peccato. Fece altrettanto con gli omosessuali, a cui negò il Regno di Dio nella Prima Lettera ai Corinzi, mentre in quella ai Romani li inserì in un elenco di peccatori meritevoli di morte.».
Come se non bastasse, contribuì a relegare nuovamente la donna a un ruolo di scarsa importanza, mentre Gesù, com’ era risaputo, la teneva in grande considerazione:
«Secondo le pagine dei Vangeli, non fu forse la Maddalena a incontrarlo risorto di fronte al sepolcro, mentre gli apostoli ritenevano che qualcuno avesse vilmente trafugato la tomba?».
Per quanto interessante fosse tutta questa narrazione, non potei fare a meno di porgere una domanda che, nella mia mente, si era fatta particolarmente pressante:
«Perché noi oggi veneriamo Gesù come essere divino? Chi impose veramente la sua divinità?».
Il professore affermò che la divinità di Gesù era dichiarata già nei primi testi cristiani, probabilmente su ispirazione diretta degli apostoli e di San Paolo. Tuttavia, nei primi tre secoli dopo la sua morte esistevano molte correnti cristiane che ritenevano il Nazareno un profeta mortale. L’ idea di un Gesù divino e non più semplice uomo fu successivamente ripresa dall’ imperatore Costantino, che se ne servì come base per stabilire la consustanzialità tra lui e Dio:
«Hai mai sentito parlare del Concilio di Nicea?».
Scossi il capo, e il luminare chiese di rimando che cosa sapessi su Costantino. Risposi che era passato alla storia per aver riunito l’ Impero sotto la sua autorità e, in seguito, per aver fondato Costantinopoli. Aggiunsi che aveva legalizzato il culto cristiano, che nei secoli precedenti era stato notoriamente proibito e perseguitato. Damhnaic annuì:
«L’ epoca e l’ intervento di Costantino rappresentarono una tappa fondamentale nella storia e nell’ evoluzione del Cristianesimo, quindi della Chiesa, poiché questo imperatore ne fece un notevole strumento di potere. Tale operazione fu successivamente completata da Teodosio, al termine del IV secolo, quando l’ insegnamento di Cristo divenne religione di Stato.».
Quella parte della storia mi era più nota, come dissi, visto che si studiava regolarmente a scuola.
«Ma i libri di storia scolastici sono esasperatamente sintetici circa il vero intento di Costantino.» sentenziò il mio amico «Dopo tutto, subiscono l’ influenza dei rapporti tra Stato italiano e Santa Sede sanciti con i Patti Lateranensi del 1929.».
Con parole chiare e semplici, disse che a partire dal 324, quando era uscito vittorioso da una violenta guerra civile, Costantino restaurò il classico sistema dell’ unico imperatore, venuto a mancare con quello della Tetrarchia imposta da Diocleziano, in cui il potere imperiale era stato suddiviso tra due Augusti e due Cesari, sparsi tra Occidente e Oriente. Ma l’ unità politica, purtroppo, non bastava ancora a garantire pace e stabilità:
«Per tradizione, l’ imperatore romano era anche pontefice massimo, ossia la massima autorità di tutte le religioni ammesse nell’ Impero. Nel 324 il Cristianesimo rappresentava già una corrente potente, perfettamente inserita nelle sfere più alte dell’ aristocrazia e della politica, sebbene fosse ancora una religione frammentaria.».
Spiegò che ogni città aveva ormai una comunità cristiana, con un suo vescovo, ma ciascuna aveva una propria filosofia, con un relativo insieme di Scritture e dogmi. Dopo l’ editto di Milano del 313, Costantino convocò nel 325 il Concilio di Nicea, allo scopo di fare del Cristianesimo una religione unica. Insieme ai vescovi, discusse e votò in tema di Scritture, sacramenti, festività, e, soprattutto, valutò con grande cura la divinità di Gesù: sostenne con autorità la dottrina della consustanzialità del Padre e del Figlio, e diede impulso a quella legata all’ incarnazione, morte e resurrezione di Cristo, oltre che a quella della nascita virginale di Gesù, già affermata nel Vangelo di Matteo:
«Da quel preciso momento Gesù passò alla storia come entità divina. Chiunque ancora lo considerasse umano sarebbe stato accusato di eresia.».
«Perché Costantino fece prevalere a tutti i costi la corrente che voleva Gesù divino?» domandai incuriosito.
«Per diventare il rappresentante di Dio sulla Terra.» fu la risposta decisa «Voleva che il potere imperiale fosse sacro e inviolabile, in quanto concesso direttamente da Dio. Con un Gesù generato direttamente dal Signore, in grado di tutti quei miracoli di cui abbiamo tanto sentito parlare, Costantino fu il primo dei sovrani europei la cui autorità derivava da un diritto divino. Tale concetto perdurò lungo tutto il Medioevo, gettando le basi dell’ Assolutismo.».
Damhnaic spiegò che il «Credo», tuttora recitato a messa la domenica, si basava sui concetti avvalorati da Costantino:
«‘Generato e non creato della stessa sostanza del Padre.’. Geniale, non trovi?».
Il risultato di quella celebre assemblea ecumenica fu dunque il Cristianesimo nella forma attuale:
«Sappiamo che Gesù ebbe quattro fratelli e varie sorelle, e che quasi sicuramente era sposato con figli, poiché tra gli ebrei del tempo il celibato era largamente disapprovato, analogamente a un matrimonio senza o con pochi figli. L’ ipotesi della Linea di sangue di Gesù, la sua figliolanza, fu già considerata addirittura nel XIII secolo. Ma nulla di ciò sopravvisse, poiché oggi, ovunque voltiamo lo sguardo, vediamo un essere mistico ascetico, distaccato, un figlio unico che riconobbe come fratelli, sorelle e madre soltanto chi compisse la volontà di Dio.».
A quel punto non potei fare a meno di chiedergli se credesse in Dio. Il professore scosse vigorosamente la testa, sostenendo che ogni divinità nominata dagli uomini era semplicemente una loro stessa invenzione, atta a dare risposta alle grandi domande sull’ esistenza, la vita e la morte:
«Sono tuttavia convinto che esista un qualche ordine universale che regoli tutto quanto. Nulla avviene mai per caso. Ma noi comuni mortali, attualmente, siamo troppo limitati per comprendere appieno questo meccanismo. Ma un giorno, forse…».
Aggiunse di avere una grande ammirazione per Gesù, ma di ritenere fondamentale presentarlo per come era stato effettivamente in vita: un uomo, un grande saggio che sapeva ridere e scherzare con i discepoli e i bambini, che amava la vita e le sue gioie. Bastava mantenere una mente aperta per costatare che Gesù era stato un uomo straordinariamente positivo, indipendentemente dagli eventi miracolosi con cui la sua vita fu successivamente abbellita:

«Per me essere cristiano significa esattamente questo: vivere la vita con amore e positività, facendo del bene agli altri, oltre che a noi stessi. Proprio come diceva Gesù.».