venerdì 29 dicembre 2023

La presentazione del libro del professor Barbero alla Biblioteca Civica di Biella

Un momento della presentazione a Biella;


Ieri sera alle ore 18:00 il professor Alessandro Barbero ha tenuto una piacevole presentazione alla Biblioteca Civica di Biella del suo nuovo libro «All’ arme! All’ arme! I priori fanno carne!», pubblicato con Editori Laterza. La visita a Biella di un personaggio famoso della qualità di questo docente di Storia medievale al Dipartimento di Studi Umanistici dell’ Università degli Studi del Piemonte Orientale Amedeo Avogadro e saggista è sempre una bella e graditissima opportunità per il nostro Biellese. Da anni, infatti, e con l’ aiuto dei mezzi di comunicazione, la Rete innanzitutto, il professor Barbero si rivolge ad un vasto pubblico parlando di storia e cultura in modo semplice e diretto, e sempre sulla base di solide fonti e ragionamenti logici, diffondendo conoscenza e, soprattutto, comprensione e quindi consapevolezza in un atteggiamento di riflessione personale e attenta al dettaglio, dimostrando che un uso corretto e positivo dei mezzi di comunicazione è effettivamente possibile, soprattutto se chi li usa lo fa con atteggiamento equanime e consapevole di ciò che esprime. E’ una cosa molto importante da tenere a mente oggi che, nell’ epoca delle informazioni e dei mezzi di comunicazione, la maggioranza di noi, tra cronisti e pubblico, tende curiosamente a promuovere informazioni false oppure di parte e a recepire tutto ciò che sente e legge senza mai pensare solo perché «così è detto, e così è scritto», in un’ inquietante operazione di intossicazione dei cervelli. Dopo lo scandalo dei giorni scorsi relativo al lucro sulla beneficenza per mezzo di pubblicità ingannevole con una nota azienda dolciaria di cui è stata protagonista l’ imprenditrice e diarista in rete Chiara Ferragni, che da quanto sta emergendo già aveva alle spalle una truffa analoga su cui ora chi di dovere sta cercando di vederci chiaro, mai come in questi ultimi tempi si è riflettuto sull’ importanza della comunicazione e l’ influenza che ha sul pensiero collettivo: il ragionamento in realtà ha origini molto antiche nel tempo, se pensiamo che già nel 528 prima di Cristo, in India settentrionale, il Buddha Śākyamuni, appena giunto al Risveglio per mezzo di un profondo stato meditazione, nel Discorso di Benares ai primi discepoli parlò di «retta parola», cioè l’ assunzione della responsabilità delle nostre parole, scegliendole con cura in modo da favorire la chiarezza anziché il fraintendimento, la verità piuttosto che l’ inganno, la gentilezza al posto della maldicenza, e limitandoci a parlare di ciò che abbiamo rettamente compreso. La parola, infatti, ha il potere di gettare luce e aprire nuovi orizzonti alla mente quando è sincera, così come quello di alimentare il velo della nebulosità quando è falsa.

Il nuovo libro del professore;

Il professor Barbero crede fermamente che uno storico, custode del nostro passato, debba coltivare un atteggiamento di retta parola e lui stesso incarna splendidamente il concetto: «Non è un mestiere facile, direi proprio il contrario, anche perché le false notizie sono sempre esistite. In principio non furono altro che ‘leggende’ architettate ad arte, modificate a piacimento, oppure orientate a seconda degli interessi dell’ una o dell’ altra parte. Inventare un episodio o modificarlo a seconda dei propri interessi o della parte di popolo che si voleva convincere era una pratica molto diffusa ed efficace già nella Roma imperiale. Certe volte noi non sappiamo affatto come sia andata la storia, perché di un evento spesso ci giungono più versioni, mentre le fonti vere e proprie possono scarseggiare o addirittura mancare. La storia è diversa dalla memoria: la storia è ricostruire i fatti all’ interno del loro contesto, a volte è l’ interpretazione dei fatti se sono acclarati. La memoria è soggettiva e non può essere condivisa ma pacificata, è una trappola. Non esiste una storia oggettiva, proprio perché l’ orientamento personale rischia di offuscare il giudizio. Detto ciò, si può raccontare la storia in forma lieve e senza essere troppo ponderosi, rispettando tuttavia le fonti e la verità storica. Oggi ci si è accorti che nel raccontare la storia essere rigorosi ed essere divertenti non è conflittuale.». Un pensiero molto positivo, che ha portato avanti anche con il libro di cui ha parlato ieri sera, incentrato sulle insurrezioni del Trecento. Esse giunsero completamente inaspettate e durarono pochissimo, talvolta solo qualche settimana, per poi venire represse. Ma in quel poco tempo accaddero cose tali da rimanere per sempre incise nella memoria collettiva. La storia, almeno negli ultimi mille anni, è costellata di momenti critici in cui una massa di persone stabilisce che il futuro così come lo vede non è accettabile, e tenta di cambiarlo. Il Medioevo non fu un’ eccezione, tutt’ altro: fu ricco di movimenti insurrezionali che nel loro sviluppo iniziale non paiono molto diverse dalle più travolgenti rivoluzioni moderne. Nella seconda metà del Trecento ne ebbero luogo così tanti da costituire un’ anomalia, e questo grande uomo di scienza e comunicazione ne racconta proprio le più spettacolari. Per molto tempo gli storici hanno visto nel loro fallimento non solo la prova che i rivoltosi non avevano nessuna possibilità di riuscire, ma che non perseguivano neppure un obiettivo consapevole: nulla di più falso, dato che i rivoltosi sapevano quello che stavano facendo, avevano rivendicazioni precise e si battevano consapevolmente per realizzarle.

giovedì 7 settembre 2023

Intervista a Totò



Totò, una leggenda della comicità italiana, famoso per il suo umorismo unico e il talento versatile, ci accoglie per un’ intervista cordiale che promette di farci riflettere. Con una carriera che spazia dal teatro al cinema e alla televisione, il «principe della risata» è indubbiamente uno degli attori più iconici dello spettacolo italiano. Attraverso la sua abilità nel creare personaggi stravaganti e il suo linguaggio comico spontaneo è stato in grado di conquistare il cuore di intere generazioni. La sua comicità travolgente è una mescolanza esplosiva di satira sociale, giochi di parole e mimica corporea brillante. Ma dietro il suo viso buffo si nascondono una sensibilità e una profonda intelligenza artistica che gli hanno permesso di superare i confini dello schermo e diventare una voce di denuncia sociale. Totò ci offre uno sguardo intimo sulla sua vita e la sua carriera, e promette di farci vivere un’ avventura comica che resterà impressa nella nostra memoria.


Buongiorno, siamo molto felici di parlare con lei oggi. Vorremmo che ci parlasse brevemente della sua carriera. Come è diventato così famoso nel mondo dello spettacolo?


«Grazie per l’ invito! Sono diventato famoso perché sono nato con un’ innata propensione alla comicità. Fin da piccolo facevo ridere mio nonno, che poveretto, non riusciva nemmeno a bere il caffè senza sputarlo fuori dalle risate!».


Ci può raccontare un momento particolarmente importante della sua carriera, qualcosa che l’ ha segnata?


«Certo, ero sul palco a teatro e dovevo recitare una battuta irresistibilmente divertente, ma mentre iniziavo a parlare, mi accorsi che mi ero scordato la battuta! Allora ho improvvisato dicendo: ‘Mi seccate con queste risate, lasciatemi finire!’. E beh, credetemi, tutti si sono piegati dal ridere! Quel momento mi ha insegnato l’ importanza dell’ improvvisazione e di saper prendere in giro me stesso.».


Tra le sue caratteristiche più note vi sono i suoi giochi di parole, che l’ hanno resa un’ icona del mondo della comicità italiana. Come ha sviluppato questa abilità?


«I miei giochi di parole fanno parte della mia natura intrinseca. Fin da piccolo amavo giocare con le parole, cercando di trovare nuovi significati e combinazioni divertenti. Ho affinato questa abilità negli anni, sperimentando e studiando il linguaggio in tutte le sue sfumature.».


Questi giochi di parole spesso si legano alla sua satira sociale, che l’ ha resa celebre non solo come comico, ma anche come critico sociale. Qual’ è il suo approccio nel creare una satira così pungente?


«La satira sociale è una forma d’ arte che permette di mettere in luce gli aspetti più ridicoli e ipocriti della società. Io cerco di farlo attraverso l’ umorismo, perché penso che sia importante far riflettere le persone senza essere troppo pesanti. Il mio approccio consiste nel prendere situazioni e personaggi reali, amplificarli e presentarli in modo grottesco. In questo modo, posso spingere il pubblico a riflettere su alcuni aspetti che altrimenti potrebbero passare inosservati.».


Altra caratteristica distintiva del suo stile comico è la tua mimica corporea, che riesce a comunicare così tante emozioni senza pronunciare una parola. Come ha sviluppato questa abilità?


«La mia mimica corporea è sempre stata una parte essenziale del mio modo di comunicare sul palco. Anche quando ero giovane, ho capito che le espressioni del viso e i gesti possono essere altrettanto potenti di qualsiasi battuta. Ho trascorso ore davanti allo specchio, studiando i miei movimenti e cercando di renderli più espressivi. Anche l’ osservazione della vita quotidiana mi ha aiutato molto, perché le persone reagiscono alle situazioni in modo molto variopinto, e io ho cercato di cogliere tutte queste sfumature e renderle accessibili al mio pubblico.».


Che consiglio darebbe ai giovani comici che vogliono intraprendere la sua strada?


«Guardate, ragazzi, la comicità è un mestiere molto serio, ma non bisogna prenderlo troppo sul serio. L’ importante è trovare sempre il lato divertente delle cose e non aver paura di mettersi in ridicolo. Siate spontanei, creativi e mai finti! E ricordate, se riuscite a far ridere anche una pietra, allora sarete dei grandi comici! Ricordatevi, la vita è una commedia, e dovremmo trascorrerla ridendo!».


Qual è, secondo lei, il segreto per farsi amare dal pubblico?


«Il segreto è sedersi al tavolo con il pubblico e farlo ridere di gusto. Bisogna saperlo conquistare, come si conquista una bella donna. Divertitevi con lui, coinvolgetelo e fatelo sentire speciale. E ricordate, le risate sono come gli abbracci, possono toccare il cuore delle persone!».


Quale è stata la sua intenzione principale nello scegliere i progetti cinematografici in cui ha recitato?


«Innanzitutto, vorrei dire che era quella di far sorridere e divertire il pubblico. Amo portare un po’ di leggerezza e allegria nelle vite delle persone, anche solo per qualche istante. Il mio obiettivo principale è far dimenticare le preoccupazioni della quotidianità e regalare un momento di svago.».


E’ importante per lei che i suoi film abbiano un messaggio o un significato più profondo?


«Assolutamente. Anche se il mio scopo principale è di far ridere, non intendo che i miei film siano solo spettacoli leggeri. Spesso cerco di dare un messaggio, una critica sociale o politica, con le mie storie e i miei personaggi. Vorrei far riflettere il pubblico sulle questioni importanti della società, usando il linguaggio della commedia per renderlo più accessibile a tutti.».


Ci ricorderebbe qualche esempio di film in cui ha cercato di trasmettere un messaggio più profondo?


«Potrei citare ‘Miseria e nobiltà’, dove metto in risalto le ingiustizie sociali e le difficoltà che le persone più umili devono affrontare. E’ una commedia brillante con una trama molto divertente. Mi sono divertito tantissimo sulla scena e credo che il pubblico abbia amato il film proprio perché si trattava di un perfetto miscuglio di comicità e satira sociale. Oppure ‘Guardie e ladri’, in cui critico la corruzione e l’ abuso di potere. Anche in ‘Totò, Peppino e la malafemmina’ affronto tematiche come il ruolo delle donne nella società e l’ amore incondizionato.».


Quali sono le sue influenze nel mondo del cinema? Ci sono registi o attori che ammira particolarmente?


«Ammiro moltissimo Charlie Chaplin. Il suo modo di combinare comicità e dramma era unico. Ho anche tratto ispirazione dal cinema di Buster Keaton e di Stanlio e Ollio. Ogni attore o regista che riusciva a creare una connessione emozionale con il pubblico è sempre stato una fonte di ispirazione per me. Ammiro l’ abilità di far ridere e piangere allo stesso tempo.».


Cosa spera che il pubblico provi o impari attraverso i suoi film?


«Spero che il pubblico si senta alleggerito e felice dopo aver visto i miei film. Voglio che ridano e si divertano, ma spero anche che riflettano su ciò che è stato rappresentato. Vorrei che prendessero coscienza delle ingiustizie, delle ipocrisie e dei problemi della società, e che magari anche tentino di cambiarli. Ma, soprattutto, che portino a casa con loro uno spirito positivo, perché la risata è un’ arma potente per affrontare la vita.».


Qual’ è stato il momento più emozionante per lei sulla scena di un film?


«E’ difficile scegliere un solo momento emozionante, ma se devo dirne uno, direi quando ho ricevuto il premio come miglior attore per il film ‘Guardie e Ladri’. E’ stato un riconoscimento incredibile per il mio lavoro e mi ha reso molto orgoglioso.».


Quale è stato il suo film preferito in cui hai lavorato, e perché?


«E’ ancora più difficile scegliere un film preferito, ma se devo dirne uno, direi ‘Miseria e Nobiltà’.».


Interessante. Passando ad un argomento diverso, vorrei chiederle cosa pensa dell’ evoluzione del cinema italiano nel corso degli anni.


«Penso che il cinema italiano abbia fatto grandi progressi. Ci sono stati periodi di grande successo e altri di crisi, ma quello che caratterizza la cinematografia italiana è la creatività. Abbiamo prodotto opere che hanno lasciato un segno nel mondo del cinema e abbiamo talenti straordinari che si distinguono in tutto il mondo. Tuttavia, credo che ci sia ancora molto da fare per promuovere e sostenere il cinema italiano a livello internazionale.».


Ha ragione, il cinema italiano ha avuto un impatto significativo sulla cultura cinematografica globale! Quale consiglio darebbe agli aspiranti attori che vogliono seguire le sue orme?


«Il consiglio che darei è di seguire la propria passione e di non lasciarsi scoraggiare dalle difficoltà. E’ un mestiere difficile, ma se si è disposti a lavorare duro e a dedicarsi interamente all’ arte dell’ interpretazione, allora si può raggiungere il successo. E’ importante studiare, prendere lezioni e affinare continuamente le proprie capacità. E, soprattutto, bisogna credere in sé stessi e non arrendersi mai.».


Quanto è importante per lei essere un nobile? E quali significati riconosce alle buone maniere?


«Essere un nobile non è solo una questione di titoli o di status sociale. Rappresenta un’ autentica eredità culturale, una tradizione di valori e di principi che mi sono sempre stati cari. Le buone maniere sono fondamentali per avere rispetto e dignità nella vita quotidiana. Le considero un ponte tra le persone e un modo per esprimere rispetto reciproco. Certo, può sembrare paradossale per un comico come me essere così attento alle buone maniere, ma le vedo come una forma di arte e di rispetto verso il prossimo.».


La nobiltà quindi non è una questione di titoli ereditari.


«Per me, la nobiltà è un’ aspirazione all’ elevatezza morale, all’ educazione e al rispetto per gli altri. Certo, la nobiltà ereditaria ha avuto la sua importanza in passato e non posso negarne l’ esistenza, ma quello che mi preme sottolineare è che non è sufficiente essere nobili per nascita. La vera nobiltà risiede nell’ animo e nelle azioni di un individuo. Per me, la vera nobiltà si esprime attraverso l’ atteggiamento di una persona nel suo rapporto con gli altri, implica comportarsi in modo gentile, rispettoso e generoso, sempre con uno sguardo rivolto verso il bene comune. La nobiltà è la saggezza, la modestia e la bontà d’ animo.


Perché pensa che sia così importante essere nobili, intesa nel suo senso, nella vita di tutti i giorni?


«Beh, secondo il mio punto di vista, quando una persona è nobile nel vero senso della parola, è in grado di influenzare positivamente il suo ambiente sociale. Un nobile di spirito diffonde gentilezza, rispetto e umanità, creando così un contesto sociale migliore. Inoltre, la nobiltà di atteggiamento e comportamento porta con sé anche una speciale responsabilità verso gli altri e il mondo. Essere nobili significa agire con integrità, aiutare coloro che sono meno fortunati e lavorare per il bene delle persone che ti circondano.».


Quindi la nobiltà è una sorta di obbligo morale.


«Esattamente. Sì, la nobiltà richiede responsabilità. Si tratta di un traguardo da raggiungere nella propria vita, sempre consapevoli delle nostre azioni e del loro impatto sulle altre persone. Essere nobili ci spinge a fare del nostro meglio per contribuire a un mondo migliore.».


Grazie per aver condiviso con noi la sua visione sulla nobiltà. Le sue parole fanno riflettere su quanto l’ atteggiamento e l’ integrità possano fare una differenza nel mondo. Come si sente in un mondo che si sta impoverendo socialmente e culturalmente?


«Mi rattrista profondamente vedere il progressivo impoverimento sociale e culturale della società. Vedo svanire lentamente quei valori che consideravo fondamentali per la coesione sociale. Il mio intento è sempre quello di intrattenere il pubblico, ma anche di indurre una certa riflessione e consapevolezza sui cambiamenti che hanno luogo intorno a noi. Cerco di far sorridere la gente, ma anche di farle prendere coscienza delle ingiustizie e delle contraddizioni del mondo. La mia comicità ha anche una componente satirica e critica nei confronti di una società che sta perdendo il suo equilibrio.».


Grazie infinite per questa gradevolissima intervista. E’ stato un onore parlare con lei e scoprire di più su ciò che voleva trasmettere con i suoi film.


«Grazie a voi per avermi dato questa opportunità. Spero che i miei film continuino a far sorridere e a far riflettere chiunque li guardi. La commedia è un dono prezioso, e sono felice di aver potuto condividerla con il pubblico.».

venerdì 28 luglio 2023

La parabola di Rocky Balboa

Rocky Balboa durante un importante incontro;


«Se io riesco a reggere alla distanza, e se quando suona l’ ultimo gong io sono ancora in piedi... se sono ancora in piedi io saprò per la prima volta in vita mia che... che non sono soltanto un bullo di periferia.» Rocky Balboa in «Rocky»; 


Uno degli espedienti a cui Gesù di Nazareth faceva spesso ricorso durante i suoi insegnamenti era la parabola, un racconto il cui scopo consisteva nello spiegare un concetto impegnativo e un insegnamento morale con parole semplici. Le parabole, dal greco antico παραβολή, ossia «confronto, allegoria», usate da Gesù portano con sé un esempio atto ad illuminare la realtà, con un unico punto di contatto tra immagine e realtà. L’ espediente della parabola è stato più volte preso in prestito in svariate culture e religioni in tutto il mondo, ma anche negli ambienti culturali più laici, al fine di riflettere, data la sua efficacia, sulle situazioni della vita e il significato di bene e male incoraggiando ad affrontare con uno spirito migliore le molte e difficili prove dell’ esistenza. Un esempio particolarmente familiare in cui oggi le parabole sono abilmente impiegate è il cinema, che con la presentazione di trame ispirate a personaggi eroici o moralmente esemplari, forte dell’ impatto visivo caratterizzato dalla recitazione degli attori, gli effetti speciali e la musica ha ispirato milioni di spettatori offrendo grandi esempi di vita a cui ispirarsi.

Tra le infinite parabole narrate dal cinema, una si è conquistata da subito un posto speciale nell’ immaginario collettivo, suscitando interesse e consenso divenendo un classico senza tempo, perché basata su valori tradizionali intramontabile: quella narrata nella serie di Rocky Balboa, il pugile italoamericano ideato e impersonato da Sylvester Stallone, un affascinante personaggio che incarna le grandi potenzialità dell’ essere umano che, se opportunamente stimolate e sorrette da uno spirito combattivo, emergono in tutta la loro forza premiando ampiamente gli sforzi compiuti.

Sylvester Stallone nei primi Anni Settanta;


Nel 1969, il giovane Sylvester Stallone, nato nel 1946 da un barbiere italoamericano e da un’ astrologa di discendenza ebraico ucraina, tornò a vivere nella natia New York dopo aver vissuto con la madre a Filadelfia dal 1961, a seguito della separazione dei genitori. Appassionato di recitazione e scrittura, iniziò a partecipare a piccole produzioni off-Broadway e a preparare sceneggiature e copioni sotto speudonimi, come Q Moonblood. Cresciuto in un ambiente molto modesto, ancora giovanissimo si era avvicinato al mondo dello sport grazie al fatto che sua madre possedeva una palestra, in cui senza condizionamenti di sorta e limiti di tempo aveva praticato assiduamente ogni tipo di esercizio ginnico, gettando le basi per lo sviluppo di un fisico fenomenale, ma senza tralasciare gli studi, trascorrendo dopo il diploma due anni all’ American College of Switzerland di Ginevra, che però abbandonò a poco dalla laurea.

Squattrinato al punto da venire sfrattato dal suo appartamento e vivere da senzatetto, riducendosi a dormire per tre settimane alla stazione degli autobus cittadina, nel 1970 partecipò per disperazione a «Porno proibito», un film ad alta componente erotica in cui, a differenza di quel che accade nella pornografia convenzionale, l’ atto sessuale non viene mostrato oppure viene presentato senza visualizzare i dettagli: «O facevo quel film o derubavo qualcuno perché ero alla fine, veramente alla fine della mia capacità di resistenza. Invece di fare qualcosa di disperato, lavorai due giorni per duecento dollari, levandomi dalle stazioni degli autobus.». Il film ebbe il merito di introdurre l’ artista esordiente nel mondo cinematografico, mentre il suo primo ruolo da protagonista in una pellicola cinematografica venne con «Fuga senza scampo», in cui interpretò una giovane guida studentesca che si unisce ad un gruppo di terroristi intenti ad organizzare un attentato. Nel 1971 partecipò a «Una squillo per l’ ispettore Klute», a cui seguì una piccola parte in «Il dittatore dello stato libero di Bananas», di Woody Allen. Nel 1974 si trasferì a Los Angeles, ove fu uno dei protagonisti in «Happy Days - La banda dei fiori di pesco», recitando insieme a Henry Winkler, Perry King e Susan Blakely. Nel 1975 partecipò ad altre produzioni: come comparsa in «Prigioniero della seconda strada» e, con un ruolo più di rilievo, in «Quella sporca ultima notte», dove impersonò Frank Nitti, guardia del corpo di Al Capone. Richard Fleischer lo inserì quindi nel cast di «Mandingo», ma poi la sua scena venne eliminata. Interpretò anche il ruolo dell’ investigatore Rick Daly in un episodio della serie «Kojak», e dopo un provino per il film «Una nuova speranza» di George Lucas, per la parte di Han Solo poi andata a Harrison Ford, partecipò come coprotagonista di «Anno 2000 - La corsa della morte» al fianco di David Carradine.

Rocky Balboa durante un allenamento;


Ormai avviato negli ambienti cinematografici ma purtroppo ancora in condizioni di vita piuttosto precarie, sposato da due anni con Sasha Czack e con un figlio appena nato, il piccolo Sage, nel 1976 il giovane Stallone balzò improvvisamente e inaspettatamente all’ apice del successo con «Rocky», film tratto dalla sua sceneggiatura e in cui interpretò il ruolo del protagonista.

Grande appassionato di pugilato, il 24 marzo 1975 assistette all’ incontro di tra Muhammad Ali, Campione del mondo dei pesi massimi, e un pugile semisconosciuto, Chuck Wepner, organizzato dal dirigente sportivo, imprenditore ed ex pugile Don King, noto per la personalissima acconciatura e il carattere controverso. L’ incontro si concluse con la vittoria di Alì, in quegli anni all’ apice della gloria, ma rimase segnato nella storia pugilistica poiché Wepner lo mise più volte in seria difficoltà, addirittura mandandolo al tappeto durante la nona ripresa, e riuscendo a resistere fino al K.O. durante la quindicesima ed ultima ripresa: la resistenza di questo sportivo ancora anonimo colpì profondamente Stallone, che ebbe l’ idea per una sceneggiatura di circa novanta pagine su di un pugile, Rocky Balboa, un individuo cupo, un antieroe del tipo che in quel tempo era molto amato dal pubblico. Dopo essersi consultato con la moglie, però, modificò il personaggio rendendolo meno sgradevole, grezzo e impenitente, e orientandosi maggiormente verso la figura di Rocky Marciano, anche per lo stile di combattimento. Presentò la nuova versione della sceneggiatura ai produttori Irwin Winkler e Robert Chartoff, i quali rimasero subito colpiti dal soggetto e proposero a Stallone un’ offerta notevole pari a circa trecentosessantamila dollari. Il giovane attore pretese il ruolo da protagonista, contro il parere dei produttori, convinti che la parte principale dovesse toccare ad attori già affermati come Robert Redford, Ryan O’ Neal, Burt Reynolds e James Caan. Alla fine, però, fu Stallone ad aggiudicarsela in quanto rifiutò di cedere la sceneggiatura.

Dopo le audizioni, che ingaggiarono attori del calibro di Burgess Meredith, Burt Young e Talia Shire, a cui si aggiunse il noto sportivo Carl Weathers, le riprese del film ebbero luogo in appena ventotto giorni interamente a Filadelfia, la stessa città in cui era ambientata la vicenda, in una produzione a basso costo, pari ad appena un milione e centomila dollari.

Rocky Balboa e Apollo Creed;


Alla sua uscita nelle sale, il film ottenne un grande successo, incassando duecentoventicinque milioni di dollari nel mondo, divenendo il più alto incasso del 1976. Successo di pubblico e critica, vinse tre Oscar come miglior film, miglior regia e miglior montaggio, e ricevette ben dieci nomine, tra cui quelle per Stallone come miglior attore protagonista e miglior sceneggiatura, diventando la terza persona al mondo, dopo Charlie Chaplin e Orson Welles, ad avere queste due candidature nello stesso anno. Roger Ebert di Chicago Sun-Times diede a «Rocky» quattro stelle e descrisse Stallone come «un giovane Marlon Brando». Da questo momento, la carriera di Stallone fu tutta in discesa, e divenne un mostro sacro di Hollywood. Nel personaggio di Rocky Balboa trasmise molto di sé stesso e della propria vita: entrambi italoamericani, appassionati di sport e nati e vissuti in un ambiente povero e mediocre da cui hanno tentato con tutte le proprie forze di riscattarsi con il proprio talento e un duro impegno, entrambi divenuti simbolo di rivincita su una società spesso chiusa e corrotta, superando avversità e ingiustizie contando solo su sé stessi. Come Stallone affermò in un’ intervista del 2019: «Amo uomini e donne resilienti. Non accetto la sconfitta facilmente. Amo chi combatte per rimettersi in piedi o reinventarsi. Le civiltà vengono distrutte, ma poi tornano.».

La serie di Rocky conta in tutto sei film, a cui si aggiunge una derivata sul personaggio di Adonis Creed, nella quale il vecchio pugile di Filadelfia, ormai settantenne e in ritiro appare nei primi due episodi, sempre interpretato da Stallone. Ognuno di essi poggia su di una storia ricavata da un’ idea ben precisa, atta a commentare le varie possibili tappe alla base del percorso che ogni persona di talento attraversa, contribuendo a tenere vivo l’ interesse del pubblico per un personaggio che di volta in volta poté presentarsi in modo significativo e non ripetitivo.

Rocky e Mickey Goldmill;


Nato a Filadelfia nel 1946, Rocky Balboa è un pugile dilettante della categoria dei pesi massimi, ma non riesce a imporsi a causa dello scarso impegno. Bullo di periferia, vive nella zona peggiore della città, e fa da esattore per Tony Gasco, un malavitoso italoamericano di quartiere, di stampo mafioso. Il suo stile di combattimento è molto simile a quello di Rocky Marciano, che il giovane indica come proprio modello di riferimento: tiene infatti la testa bassa per diminuire l’ allungo dell’ avversario e facendo affidamento su ottime doti da incassatore riesce a resistere ai colpi sfruttandone poi la stanchezza. Mancino, riesce a spiazzare l’ avversario e sbilanciarlo. Per sviluppare la necessaria resistenza aerobica, corre tutte le mattine da casa fino alla cima della scalinata del museo d’ arte di Filadelfia, mentre in palestra, oltre agli esercizi tecnici al sacco e alla pera, esegue soprattutto un lavoro di potenziamento muscolare.

Nella sua vita, entra in contatto con persone speciali da cui riceve qualcosa di prezioso, e che nei momenti più duri costituiscono un’ ottima spinta per rialzarsi e continuare a lottare: il burbero e ubriacone Paulie Pennino, suo migliore amico, gli è sempre accanto e lo sostiene, la dolce e timida Adriana, ricambiata, si innamora di lui, e infine l’ anziano e ruvido Mickey Goldmill, il suo allenatore, vede in lui i semi della grandezza e con asprezza lo sprona a fare di meglio. A proposito del personaggio della guida sportiva, Stallone dichiarò: «Quando scrissi il personaggio di Mickey pensai: ‘Questo è un ruolo chiave’, perché rappresentava in tutto e per tutto un uomo i cui sogni erano stati infranti, un essere umano assolutamente non realizzato. Quindi scelsi un uomo che avesse anche lui questo aspetto, quel tipo di integrità, potenza e onestà per mostrarlo sullo schermo.». E, infine, il Campione del mondo dei pesi massimi, Apollo Creed, dapprima suo superbo e sdegnoso rivale e poi grande amico e secondo mentore, che nei primi quattro film riveste un’ importanza notevole per la sua crescita personale e sportiva. Chiaramente ispirato al leggendario Muhammad Ali, Creed predilige la tecnica, la velocità e l’ agilità tralasciando in parte le capacità d’ incasso, e denota un carattere sfrontato ed esibizionistico, concedendosi spesso battute quali: «Ho incontrato i migliori battendoli tutti!», e: «Ho mandato più gente in pensione io della previdenza sociale…». Tutti questi personaggi, ognuno con un retroterra personale e una dote particolare, rappresentano un tassello essenziale nel mondo e nello sviluppo di Rocky. Stallone ha avuto il grande merito di dare loro grande importanza narrativa, rendendoli narrativamente completi e dettagliati, anziché semplici comprimari.

La rivincita contro Clubber Lang;


In «Rocky», ambientato nel 1976, Rocky è un anonimo pugile e un ragazzo di strada. La gente lo irride come persona, e crede che come pugile non si sia mai misurato in incontri seri e contro avversari impegnativi. Tutto però cambia improvvisamente, quando a sorpresa il grande Apollo Creed, all’ apice della sua carriera e fiero Campione del mondo, per una serie di incredibili circostanze è rimasto senza sfidanti in occasione di uno spettacolare incontro che aveva in programma come parte dei festeggiamenti del duecentesimo anniversario dell’ indipendenza degli Stati Uniti, ragion per cui decide di dare l’ opportunità ad un pugile sconosciuto di affrontarlo, e scegliendo personalmente proprio Rocky perché di discendenza italiana, come Cristoforo Colombo. Avvertito da Mickey, Rocky, in un primo momento intimorito al pensiero di trovarsi a tu per tu con il pugile per eccellenza e sotto i riflettori di tutto il mondo, si sottopone ad un intenso allenamento sotto la dura e costante disciplina impostagli da Mickey, e con il sostegno di Adriana con cui si fidanza, e di Paulie. Quella che doveva essere poco più di un’ esibizione si trasforma in una vera e propria guerra tra i due pugili, in cui alla prima ripresa Rocky riesce addirittura a mettere al tappeto il campione, e si protrae per tutte le quindici riprese, al cui termine Creed viene proclamato vincitore benché il verdetto dei giudici non sia unanime: per il pubblico, peraltro, il vero vincitore è Rocky e non Apollo.

Nel seguito, «Rocky II», Apollo è furioso per come è terminato l’ incontro con Rocky. Benché formalmente vincitore, si sente punto sul vivo e desidera una rivincita. Frattanto, Rocky ritira la sostanziosa borsa che ha incassato con la sfida, si sposa con Adriana, compra casa e si concede molti piccoli lussi ritirandosi dal pugilato a causa delle lesioni subite. Tuttavia il denaro finisce presto, e poiché Adriana è incinta accetta svariati lavoretti finché non si ritrova a fare l’ inserviente nella palestra di Mickey, dove viene preso in giro dagli altri pugili. A seguito delle incalzanti pressioni di Apollo, che avvia una dura e spietata campagna mediatica, e unitamente al parere dell’ anziano allenatore, concede la rivincita al Campione del mondo. Stavolta, Mickey lo sottopone ad una disciplina particolarmente severa, scandita da esercizi in vecchio stile, tipici dei suoi tempi, come il rincorrere una gallina per aumentare la velocità, il saltare la corda per migliorare l’ agilità, e lo induce ad allenarsi a colpire di destro. La sera del secondo incontro, Rocky si misura con un impeto particolare, deciso a riscattarsi dalle delusioni della vita, e trova il coraggio di resistere di fronte al feroce rivale in una battaglia ancora più cruenta della prima. Alla fine entrambi finiscono al tappeto, ma Rocky riesce a rialzarsi prima dello scadere del tempo e soprattutto prima di Apollo, diventando il nuovo Campione del mondo e dedicando la vittoria alla moglie, che da poco ha dato alla luce il loro bambino, Robert Junior. Ora è un campione a tutti gli effetti, non solo moralmente ma anche ufficialmente.

In «Rocky III», ambientato tre anni dopo la sua storica vittoria, Rocky è un uomo di successo, amato dagli sportivi di tutto il mondo, e ha vinto numerosi combattimenti difendendo il titolo di Campione del mondo. Lavora per la pubblicità, vive in una villa favolosa in cui si gode molti piaceri, tra motociclette e automobili. Tuttavia, ad un certo punto spiazza il mondo con la decisione sofferta di ritirarsi, ormai già ampiamente soddisfatto di tanti abbondanti successi, ma proprio in questo momento viene sfidato da Clubber Lang, un giovane e brutale pugile di colore, affamato di vittoria come lo era lui prima di emergere: dopo un drammatico confronto in pubblico, nel quale Lang lo apostrofa con rozzezza e volgarità, Rocky accetta di affrontarlo contro il parere di Mickey, il quale gli confida che come suo allenatore e dirigente negli ultimi tre anni ha programmato per lui incontri su misura poiché, dopo la vittoria del titolo e i compensi milionari, si è progressivamente ammorbidito e adagiato sui suoi successi, perdendo la grinta iniziale. Sconvolto e convinto che gli ultimi tre anni siano stati una farsa ingiusta, Rocky pensa che l’ incontro con Lang gli ridarebbe il rispetto per sé stesso, ma purtroppo la sera dell’ incontro Mickey ha un infarto e Lang, approfittando del suo sconforto, lo sconfigge divenendo il nuovo Campione del mondo dei pesi massimi. A pochi istanti dalla fine del drammatico combattimento, Mickey muore. Proprio quando Rocky si abbandona al dolore, Apollo Creed lo raggiunge e si offre di aiutarlo a prepararsi ad una degna rivincita: secondo lui, infatti, il vecchio Rocky è ancora vivo e occorre solo risvegliarlo. Lo porta con sé a Los Angeles, nel quartiere nero dove è cresciuto, e dopo che Adriana è riuscita a incoraggiarlo, il vecchio rivale, ora suo grande amico e nuova guida, lo allena in modo tale da trasmettergli quello stile veloce e leggiadro che a suo tempo ha fatto di lui un vincente. Il giorno della competizione, Rocky ritrova sé stesso dimostrando che gli sforzi sono valsi fino in fondo: alla terza ripresa, dopo una lunga scarica di colpi a contro uno sfinito Lang, riesce a vincere per KO riprendendosi così il titolo di Campione del mondo.

In «Rocky IV», le vicende di Rocky Balboa si intrecciano con quelle della Guerra fredda, assumendo per la prima volta aspetti politici. L’ Unione Sovietica lancia infatti la sfida al pugilato statunitense presentando l’ imponente e glaciale Ivan Drago, una figura inquietante dall’ impressionante stazza e dalla devastante potenza dei pugni, detentore della Medaglia d’ oro olimpica. Alla notizia che è giunto negli Stati Uniti per una sfida sportiva di alto livello, magari con Rocky in quanto Campione del mondo, Apollo decide di presentarsi dopo cinque anni di inattività. Rocky tenta di dissuaderlo poiché il giovane sovietico pare letteralmente invincibile, ma Creed non vuole sentire ragioni: ha bisogno di un incontro come questo per dimostrare di essere ancora l’ uomo vigoroso di un tempo. La sfida ha luogo a Las Vegas, dove l’ ex Campione del mondo viene massacrato dai colpi di Drago. Rocky vorrebbe interrompere il combattimento, ma Apollo esige di andare fino in fondo, e alla fine muore sotto i colpi impietosi dell’ avversario. Finito nella bufera per non aver gettato la spugna e intenzionato a vendicare il caro amico, Rocky accetta di combattere con Drago ma a causa delle tensioni fra i due Paesi la federazione pugilistica gli fa sapere che non riconoscerà l’ incontro e che quindi non sarà valido per il titolo. L’ incontro viene fissato dalle autorità sovietiche a Mosca nel giorno di Natale e senza premi in denaro per il vincitore. Giunto in Unione Sovietica, Rocky inizia ad allenarsi sotto la stretta sorveglianza delle guardie del corpo che gli sono state assegnate, ricorrendo a metodi rudimentali mentre Drago ha a disposizione macchinari all’ avanguardia e farmaci. L’ incontro si svolge alla presenza delle massime autorità sovietiche e Drago attacca ferocemente iniziando subito a mettere in difficoltà Rocky, che però mostra la sua proverbiale resistenza e alla seconda ripresa reagisce riuscendo a ferirlo: il sovietico inizia quindi a perdere fiducia, anche perché ogni volta che lo atterra Rocky si rialza. Il combattimento si protrae fino alla quindicesima ripresa fra il crescente imbarazzo delle autorità e il pubblico, che nel frattempo comincia ad acclamare a gran voce il pugile statunitense, il quale alla fine riesce a vincere. Appena concluso il combattimento, Rocky prende la parola e auspica una riconciliazione tra i due popoli, venendo applaudito anche dal Presidente sovietico e portato in trionfo dai tifosi e dai suoi cari mentre porta sulle spalle la bandiera a stelle e strisce. Dopo essere stato un ammirato personaggio sportivo ed un esempio da ammirare per impegno e costanza, ora Rocky è considerato un eroe nazionale, al centro di una grande retorica politica.

In «Rocky V», torna a Filadelfia, dove viene osannato per aver battuto uno sportivo sovietico nella sua stessa patria, ma a casa ha un’ amara sorpresa in quanto prima di partire per l’ Unone Sovietica su suggerimento di Paulie ha firmato imprudentemente una procura in favore del proprio commercialista, convinto che fosse una proroga per la dichiarazione dei redditi, mentre invece si trattava di una serie di speculazioni che non hanno avuto l’ esito sperato, riducendo i Balboa sul lastrico. Volendo rimettere a posto le cose, vorrebbe accettare la proposta di George Washington Duke, un avido e spietato promotore di eventi sportivi, ma su consiglio di Adriana si sottopone ad esami medici, dato che al termine dell’ incontro a Mosca si era sentito male nello spogliatoio, e apprende che a causa dei violenti colpi alla testa ricevuti da Drago ha riportato gravi lesioni cerebrali che potrebbero essergli fatali se ritornasse a combattere. Rocky è quindi costretto al ritiro dall’ attività sul ring, ed i suoi beni vengono venduti all’ asta: molti dei suoi ricordi, compresi la villa e la moto, consentono di ricavare abbastanza per rimediare al disastro finanziario. Il titolo di Campione del mondo rimane vacante, e torna a vivere nel vecchio quartiere, dove Adriana riprende a lavorare nel vecchio negozio di animali dove era impiegata prima di sposarsi, mentre lui inizia ad allenare pugili nella vecchia palestra lasciatagli in eredità dal defunto Mickey.

Mentre Washington Duke tenta in tutti i modi di convincerlo a combattere ancora, Rocky conosce Tommy Gunn, un giovane pugile molto promettente che accetta alla propria palestra. Tra i due nasce un legame molto stretto, l’ ex Campione del mondo vede sé stesso nel giovane, che dimostra grande forza, e gli insegna a superare le proprie paure e a padroneggiare la propria forza. Washington Duke torna alla carica e circuisce il giovane Tommy: poiché tra lui e Rocky c’ è solo un patto informale, promette di introdurlo nel mondo del pugilato ad alto livello con la promessa di un facile e copioso guadagno. Tentato da un radioso futuro, l’ emergente sportivo accetta e abbandona Rocky, che inutilmente tenta di avvisarlo che loschi figuri come Washington Duke sono pericolosi perché mirano a sfruttare un pugile finché si rivela per loro una fonte di opportunità e li gettano via alla prima occasione. Lui invece vorrebbe guidarlo in un sentiero più graduale e insegnargli a prendersi cura di sé stesso.

Sotto la gestione di Washington Duke, Tommy riesce a vincere il titolo di Campione del mondo tramite incontri opportunamente manovrati, ma la stampa continua a parlare del suo legame con Rocky, e il dirigente sportivo quindi pensa che un incontro tra i due sul ring metterebbe le cose a tacere. I due vanno a cercare Rocky al bar, dove l’ ex Campione del mondo propone una sfida in strada, mentre Washington Duke vorrebbe un incontro sul ring. Benché provato dalle lesioni, il vecchio pugile riesce a battere l’ ex allievo e amico, esprimendogli il proprio rammarico per la sua ingratitudine, e assiste al suo arresto per rissa dai poliziotti e all’ abbandono da parte di Washington Duke che lo accusa di essersi fatto mettere al tappeto e umiliare in strada da quello che considera ormai un vecchio rottame.

In «Rocky Balboa», Rocky, ormai quasi sessantenne e vedovo da qualche tempo, dopo aver ceduto la vecchia palestra ereditata da Mickey possiede e gestisce un ristorante italiano. Vede poco il figlio Robert Junior, che, sentendosi a disagio per la sua fama internazionale, si tiene lontano da lui e vorrebbe farsi un nome per conto proprio. Malinconico e nostalgico, balza nuovamente agli onori della cronaca quando una simulazione al computer lo dà vincente contro l’ attuale Campione del mondo dei pesi massimi, Mason Dixon, la cui potenza fisica e temperamento non concedono spettacolo e che hanno fatto perdere l’ interesse per il pugilato. Deciso a rimettersi in gioco, Rocky decide di riprendere ad allenarsi e a combattere per piccole esibizioni, e proprio a questo punto i dirigenti sportivi e allenatori di Dixon lo contattano per proporgli un incontro con lui. Dopo un’ iniziale esitazione, accetta poiché per quanto sia effettivamente avanti con l’ età: «E’ meglio essere felici scegliendo essere quello che si è, piuttosto che essere infelici rinunciandoci.». Si allena duramente sotto l’ anziano Tony Evers, il vecchio allenatore di Apollo Creed, sebbene il cognato Paulie e Robert Junior rispondano con scetticismo. La stampa lo deride, sottolineando spesso l’ assurdità del ritorno sul ring di un pugile ormai anziano, ma lui tiene duro fino alla serata dell’ incontro a Las Vegas. Tutti si aspettano di vederlo vacillare ancor prima della fine della prima ripresa, ma a sorpresa dimostra di possedere ancora una notevole resistenza e forza fisica e presto pubblico e cronisti fanno il tifo per lui. L’ incontro si rivela teso e avvincente, con i due avversari che si fronteggiano senza risparmiarsi e dandosi filo da torcere fino alla fine della quindicesima ripresa: Rocky rimane fieramente e ostinatamente in piedi, esattamente come Dixon. Il verdetto non è unanime, e dichiara Dixon vincente, tuttavia, come già avvenuto nell’ incontro del 1976 con Apollo, il vero vincitore acclamato dal pubblico è Rocky, che riesce a dimostrare innanzitutto a sé stesso di valere ancora qualcosa, che la vita non lo ha battuto e neppure piegato nonostante la sua durezza.

Allenatore e guida di Adonis, figlio di Apollo;


A questo punto le vicende del pugile italoamericano di Filadelfia parrebbero ormai finite, ma nel 2015 venne presentato «Creed - Nato per combattere», primo episodio di una nuova serie dedicata ad Adonis Johnson, figlio illegittimo di Apollo, nato dopo la sua morte e che dopo un’ infanzia difficile tra riformatori e affidamenti a seguito della morte della madre viene adottato dalla vedova del padre. Nonostante le agiate condizioni di vita e il buon lavoro, sente il richiamo dell’ attività pugilistica e dopo alcuni combattimenti di basso livello raggiunge Filadelfia e chiede a Rocky di insegnargli. Questi, rimasto solo dopo la morte di Paulie e il trasferimento del figlio in Canada, inizialmente rifiuta dicendo che con il pugilato ha chiuso e sta per andare in pensione anche con il ristorante, ma alla fine riconosce qualcosa del vecchio amico nel giovane e accetta di fargli da allenatore: «Tuo padre era speciale, e sinceramente non so se tu lo sei. Solo tu lo capirai quando sarà il momento, ma non accadrà da un giorno all’ altro, finirai al tappeto tante volte finché rialzandoti in piedi non capirai di avere quella scintilla. Ma dovrai darci dentro, anche perché se non lo farai giuro che ti mollo.». Durante una sessione di allenamento, però, viene colpito da un malore e benché in apparenza stia meglio dalle analisi mediche si scopre che è soggetto a un linfoma non Hodgkin. La prima reazione è quella di non volersi curare, memore della sofferenza che Adriana ha dovuto passare con la chemioterapia, che neppure l’ ha salvata dalla malattia. Quando Adonis lo viene a sapere, sconvolto, convince l’ allenatore a ripensarci, incoraggiandolo a combattere le loro personali battaglie insieme: da combattente qual’ è sempre stato, ora scende in campo contro un nemico del tutto particolare, senza dimenticare l’ impegno preso con il nuovo amico, che vuole guidare nella sua preparazione. Si sente infatti orgoglioso di quello che il ragazzo sta diventando, lo ringrazia per non averlo abbandonato ed averlo convinto a non mollare, e gli chiede di fare lo stesso: «Sai una cosa, non ho mai potuto ringraziare Apollo, per avermi aiutato dopo la morte di Mickey ma non è niente, in confronto a ciò che hai fatto tu! Tu mi hai spinto a lottare di nuovo! Tornerò a casa e combatterò questa cosa, ma se lotto io, devi farlo anche tu!».

In «Creed II», il giovane Adonis, che ha adottato il cognome del padre ed è divenuto Campione del mondo dei pesi massimi sotto la guida di Rocky, accetta di sfidare Viktor Drago, il figlio di Ivan, il pugile che portò il padre alla morte e che a seguito della sconfitta per mano di Rocky cadde in disgrazia trasferendosi in Ucraina. Rocky cerca di fargli cambiare per paura che faccia la stessa fine di Apollo, ma non ci riesce, ragion per cui gli comunica che questa volta se la dovrà vedere da solo: non lo allenerà e non sarà presente al suo angolo. Dopo essersi allenato con il figlio di Tony Evers, storico allenatore di suo padre e di Rocky stesso, affronta il giovane Drago, che lo massacra di colpi ma commette l’ errore di sferrare il pugno del KO mentre è inginocchiato, venendo squalificato. Adonis rimane Campione del mondo, ma è costretto ad una lunga convalescenza. Quando riprende gli allenamenti, deve innanzitutto riprendersi nello spirito, gravemente segnato. Dopo aver ritrovato l’ amico Rocky, riprende ad allenarsi intensamente e infine si recano in Russia per accogliere la rivincita richiesta da Viktor e Ivan Drago. Lo scontro è durissimo, ma alla fine Adonis vince e si conferma Campione del mondo. Al ritorno a casa, Rocky si fa coraggio e, dopo anni di silenzio bussa alla porta di Robert Junior per riabbracciarlo e soprattutto per conoscere il piccolo Logan, il nipotino mai visto: è questa la degna conclusione della parabola epica di un uomo, di un combattente che si avvia alla fine dei suoi giorni chiudendo il cerchio, dopo aver realizzato sogni profondi e risolto antiche difficoltà.

Rocky Balboa poco prima di riprendere a lottare;


Rocky Balboa è senza dubbio uno dei personaggi cinematografici più noti e amati di tutti i tempi, un classico capace di andare oltre l’ epoca in cui venne sviluppato e presentato al pubblico originario. Nel modellarlo, Sylvester Stallone si concentrò particolarmente sull’ idea che chiunque può avere successo nella vita, purché si scelga una stella e la segua con impegno e costanza: non bisogna mollare mai, e nessun ostacolo è insormontabile se ci si adopera al massimo. Non solo, durante la genesi del personaggio e delle sue vicende si ispirò soprattutto a sé stesso, e al proprio percorso di vita. Infatti, in molti, conoscendo i trascorsi personali di Stallone, riconoscono molto di lui in Rocky al punto da non vedere un confine preciso tra attore e personaggio: Filadelfia è la città in cui il giovane Stallone visse insieme alla madre ed entrò in contatto con lo sport, allenandosi con passione nella palestra materna e avvicinandosi al pugilato; sia Stallone che Rocky vissero in condizioni di vita piuttosto drammatiche prima dell’ improvviso e inaspettato successo, ed entrambi sono appassionati di arte: il primo è un pittore provetto in stile surrealista e l’ altro un frequentatore abituale del Philadelphia Museum of Art. Come raccontato dallo stesso Stallone, l’ improvviso successo lo portò ad un apprezzamento immenso da parte di pubblico e critica, e a incassi milionari con cui si concesse spese pazze e mondanità: «Mi sentivo come un bambino in un negozio di dolciumi in cui si può prendere tutto ciò che vuole liberamente, senza pagare.». Era corteggiatissimo, protagonista di film d’ azione e personaggio disinvolto nel mondo della pubblicità: proprio come Rocky in «Rocky III», che nei tre anni dopo la vincita del titolo di Campione del mondo ottiene un successo che gli dà alla testa sotto l’ occhio vigile e protettivo di Mickey, e solo l’ incontro con il brutale Lang, con la sua mortificante vittoria, lo richiama sonoramente alla realtà scuotendo la sua vanità. Durante gli anni della presidenza di Ronald Reagan, Stallone era divenuto un’ icona della Guerra fredda con l’ interpretazione di John J. Rambo in «Rambo», incentrato sulla figura del dramma di un reduce della guerra in Vietnam, e per sua natura Rocky ben avrebbe potuto seguirne le orme, in un film, «Rocky IV», che trattasse la contrapposizione tra Stati Uniti, culla di libertà e civiltà, e Unione Sovietica, impero del male e dell’ oppressione, per mezzo di un incontro tra sportivi che risultassero il prodotto del sogno americano da un lato e dell’ obbedienza ad un regime rigido e totalitario dall’ altro. A testimonianza di ciò, la caratterizzazione e gli atteggiamenti dei sovietici furono alquanto meccanici, tra il portamento, la disciplina, il nazionalismo e persino lo stile di allenamento. Proprio da questo tema ne sorse un altro di importanza centrale della storia: il confronto tra macchine e uomini, esaltato dalle macchine e tecnologie utilizzate negli allenamenti di Drago in contrasto con gli allenamenti rudimentali di Rocky e il robot domestico che viene regalato a Paulie per il suo compleanno.

Ad un certo punto, però, Stallone decise di invertire la tendenza. All’ inizio degli Anni Novanta, infatti, sentì il bisogno di diminuire con l’ impegno nel genere di azione che l’ aveva reso celebre, tentando un’ incursione anche nella commedia per dare risalto alla propria vena ironica, di cui era notoriamente dotato. Tali riflessioni ebbero conseguenze anche su Rocky, che nel terzo e nel quarto film era divenuto un personaggio più serio e cupo, per il quale provava meno simpatia in confronto al ragazzone semplice e trasandato come era stato nei primi due episodi, quindi in «Rocky V» richiamò il regista del primo film e fece di tutto per ricreare le atmosfere iniziali, arrivando al punto da far perdere a Rocky e famiglia la grande ricchezza accumulata in anni di successo sportivo e rimandandoli a vivere nel vecchio e povero quartiere, dove il suo personaggio avrebbe ripreso il ruolo di Mickey allenando un giovane allievo che avrebbe continuato a fare ciò che ormai a lui non sarebbe stato più possibile. Negli anni successivi, proprio come Rocky, Stallone visse un periodo di declino: se il pugile era ormai costretto per motivi di salute a non combattere più, l’ attore fu penalizzato per tutti gli Anni Novanta e buona parte dei primi Anni Duemila a insuccessi e produzioni di scarso peso. Le chiamate dalle grandi produzioni cessarono, e la stella che tanto aveva brillato pareva ormai affievolita. Tuttavia, la sua creatura più amata gli avrebbe nuovamente teso la mano, e alla non più tenera età di sessant’ anni lo interpretò nuovamente in «Rocky Balboa», storia in cui le analogie tra attore e personaggio sono infinite: entrambi, ormai vecchi, nostalgici e visti come ricordo di un periodo ormai trascorso decidono di rimettersi in gioco con ciò che sanno fare meglio, uno ricominciando con i film di azione e l’ altro riprendendo a combattere. Tanto Stallone quanto Rocky vengono inizialmente derisi e guardati con scetticismo, suscitando le reazioni meno lusinghiere, eppure tengono duro, sicuri di essere nel giusto, e si battono fino alla fine senza risparmiarsi: entrambi alla fine portano il pubblico a ricredersi, dimostrando che non è mai troppo tardi per essere ciò che si è, in piena libertà, a dispetto di un’ età che comincia a farsi sentire. Quando Mason Dixon, suo sfidante nell’ ultimo incontro, gli chiede perché sia sceso in campo, Rocky risponde sardonico ma incisivo: «Un giorno lo capirai!».

Sylvester Stallone in tarda età;


Ad un’ attenta analisi, Rocky Balboa appare molto più di un semplice personaggio cinematografico di genere sportivo, ma un esempio di vita e mentalità, e la sua storia vuole essere una parabola dal significato ben preciso. La vita sarà senz’ altro bella e meravigliosa come sacerdoti e filosofi ripetono da secoli, ma comporta anche una certa mole di dolori e avversità a cui occorre imparare a rispondere per crescere, evolversi, sopravvivere. Proprio come dice lo stesso Rocky in un drammatico confronto con il figlio, Robert Junior: «Il mondo non è tutto rose e fiori, è davvero un postaccio misero e sporco e per quanto forte tu possa essere, se glielo permetti ti mette in ginocchio e ti lascia senza niente per sempre. Né io, né tu, nessuno può colpire duro come fa la vita, perciò andando avanti non è importante come colpisci, l’ importante è come sai resistere ai colpi, come incassi e se finisci al tappeto hai la forza di rialzarti... così sei un vincente! E se credi di essere forte lo devi dimostrare che sei forte! Perché un uomo vince solo se sa resistere! Non se ne va in giro a puntare il dito contro chi non c’ entra, accusando prima questo e poi quell’ altro di quanto sbaglia! I vigliacchi fanno così e tu non lo sei! Non lo sei affatto!».

Con la sua caratterizzazione, Sylvester Stallone ha voluto presentare un personaggio che parlasse di sé e della sua voglia di realizzarsi, e nel quale ha immesso molto della propria personalità, narrando una parabola sulla vita e le sue difficoltà, ma anche sulla possibilità di riscattarsi tramite il duro impegno e la fiducia in sé stessi e nel proprio potenziale: «Non mi considero diverso dalle altre persone: il segreto è sconfiggere la paura. Tutti abbiamo problemi, ma se tieni duro può arrivare improvvisamente la telefonata che ti cambia la vita. Bisogna essere ottimisti. Rocky e Rambo sono così.».

venerdì 24 marzo 2023

La mancante laicità dello Stato italiano

Il Vaticano visto dal Tevere;


«Credo che molti si aggrappino alla religione non perché sia consolante, ma perché sono vittime del nostro sistema educativo, che non ha offerto loro la possibilità di una visione laica della vita.» tratto da «L’ illusione di Dio», di Richard Dawkins;


In ambito politico si afferma che per assicurare la democrazia è fondamentale la presenza di più partiti che, ciascuno con la propria particolare visione, diano vita ad uno scambio di idee tale da migliorare la risposta del governo ai bisogni e ai problemi della nazione in modo pacifico e civile, rivolgendosi in egual misura all’ intera cittadinanza, senza esclusivismi. Tale atteggiamento di apertura e stimolo alla presenza e allo scambio di più opinioni che portino ad un’ efficace azione comune a beneficio del maggior numero possibile di persone è così positivo da essere tipico non solo della politica, ma di ogni ambito della vita umana: laddove esistono le persone, singoli o gruppi, ogni cosa deve essere soggetta alla libera espressione e al confronto tra diverse forme di esperienza a vantaggio dell’ interesse generale, oltre quello particolare.

Negli ultimi cinquecento anni, questo grande valore si è fatto sempre più strada anche in ambito religioso per mezzo del processo di laicizzazione, ossia lo svincolamento della cultura e della politica dalla religione, che ebbe inizio con la rottura dell’ unità spirituale dell’ Europa cristiana con la Riforma protestante di Martin Lutero nel Cinquecento. Il termine laicità deriva dal greco antico laïkós, ovvero «del popolo», spesso inteso come «vivente tra il popolo secolare e non ecclesiastico». La netta separazione tra religione, riguardante la sfera privata della coscienza personale, e politica, che invece tocca l’ ambito collettivo del diritto e delle istituzioni civiche, è una condizione fondamentale per organizzare più agevolmente la convivenza umana nel rispetto del pluralismo e della tolleranza: una democrazia non può mai essere completa se manca di laicità, poiché lo Stato, realtà a cui tutti indistintamente appartengono oltre le varie e legittime differenze del singolo, deve richiamarsi a principi e valori che siano riconosciuti e condivisi da tutti, pertanto indipendenti da un particolare credo religioso, che per sua natura è tipico di una parte soltanto della collettività. La laicità dello Stato e delle sue leggi e istituzioni implica il riconoscimento di eguali diritti ad ogni confessione e credenza presenti sul suo territorio, in un atteggiamento super partes da un lato atto ad impedire intrusioni del potere politico nella sfera privata della coscienza dell’ individuo, e dall’ altro intento a favorire la promozione di valori universali in cui tutti possano riconoscersi indipendentemente dall’ orientamento religioso. E’ un principio così benefico che difende sia l’ autonomia di uno Stato dagli interessi particolari di un ordine sacerdotale che una fede dalla ragion di Stato, peraltro sottraendo scienza e conoscenza dai valori religiosi, dell’ ideologia e da pregiudizi di qualsivoglia provenienza.

Il Crocifisso, simbolo della cristianità;


Nel mondo moderno può ormai apparire non più necessario continuare a discutere sul valore della laicità, dato che oggi in Italia ci sono italiani cattolici che convivono con altri che aderiscono alle altre scuole di pensiero cristiano, addirittura con agnostici o atei, e persino con convertiti ad altre tradizioni, come Ebraismo, Islam, Induismo, Buddhismo e così via discorrendo, ma in realtà, purtroppo, nel nostro Paese la laicità statale continua ad essere più apparente che reale in quanto il potere politico subisce ancora l’ influenza di quello sacerdotale, con la Chiesa cattolica che si avvale di una forte autorità morale in quanto detentrice dell’ insegnamento di Gesù Cristo, in una situazione che confuta fortemente l’ idea di neutralità religiosa dal momento che «l’ Europa ha radici cristiane», come più volte chiaramente affermato da molte importanti personalità, primo tra tutti il fu Papa Benedetto XVI, il pontefice recentemente venuto a mancare che durante il suo lungo sacerdozio è sempre stato fermamente convinto che l’ ideale cristiano avesse il potere di estendersi ovunque, e quindi fosse tenuto a farlo per confermare «i giusti valori» contro «il pericolo del relativismo». Fin dalla caduta dell’ Impero romano, nel 476, i sacerdoti cattolici di ogni livello hanno sempre goduto di un potere sia spirituale che politico straordinariamente elevato, sostenendo apertamente che nel Vangelo sia riferito tutto ciò che valga la pena di sapere, e che la vita in questo mondo debba necessariamente essere la preparazione di quella nel prossimo: questo mondo è stato creato da Dio, che ha stabilito i valori fondamentali dell’ esistenza per i quali Cristo si è incarnato come semplice uomo. Non vi è quindi stacco tra vita terrena e quella spirituale, pertanto politica e religione devono essere tutt’ uno!

Sulla riva occidentale del fiume Tevere, a nord del centro di Roma, si trova la Città del Vaticano, il più piccolo Stato sovrano al mondo sia per popolazione che per estensione territoriale, una città-Stato senza sbocco sul mare retta da una monarchia assoluta teocratica. Il papato, nei secoli passati cuore di tutta la cristianità e oggi del Cattolicesimo, presentato enfaticamente come la pura dottrina di Cristo, superiore alle altre forme di Cristianesimo, ha la propria sede praticamente al centro della capitale d’ Italia. Durante il Risorgimento, la breccia di Porta Pia del 20 settembre 1870 da parte dell’ esercito italiano decretò la fine dello Stato Pontificio quale entità storica e politica. Il governo presieduto dal Conte Camillo Benso di Cavour fece della città la terza e definitiva capitale della neonata nazione dopo Torino e Firenze. Il Santo Padre, forte di un’ enorme influenza sia spirituale che politica su tutta l’ Europa cattolica, perse la propria dignità di Papa Re, e ne conseguì un animato terremoto politico che compromise gravemente i rapporti tra Stato e Chiesa, tanto che Papa Pio IX rifiutò di riconoscere lo Stato italiano e impedì ai cattolici di partecipare alla vita civile del Regno con il famoso non expedit, infliggendo poi la scomunica a Casa Savoia, da Re Vittorio Emanuele II ai suoi successori, insieme a chiunque partecipasse alla politica italiana. La scomunica venne ritirata solo in punto di morte del Sovrano: quando seppe della ormai imminente scomparsa del monarca sabaudo volle inviare al Quirinale un sacerdote affinché gli accordasse i sacramenti. Fu invece il cappellano di Corte a officiarli, poiché si temeva che dietro la generosità del Santo Padre si nascondessero scopi segreti. Solo la convalida dei Patti Lateranensi dell’ 11 febbraio 1929, in piena dittatura fascista, portò alla ricomposizione della frattura tra potere temporale e ordine spirituale.

In Italia, ben più che in altri Paesi europei e occidentali, quando si parla di religione e politica si citano due fattori fortemente intrecciati tra loro. Sarà per la presenza fisica al centro di Roma del Vaticano, che da sempre riserva una particolare attenzione al circostante Belpaese, piuttosto che per un clero italiano così predisposto ed esteso sul territorio da vantare molti e precisi interessi da difendere accanto ai tradizionali valori che insegna, o ancora per la debolezza delle istituzioni repubblicane che spesso avvertono l’ esigenza di tener conto di che cosa il Cattolicesimo rappresenti per la nazione. Come se la politica non potesse avere vita autonoma e indipendente dalla religione, dovendo costantemente fare i conti con essa, e come se il Cattolicesimo non potesse esentarsi dallo svolgere un ruolo particolare in ambito politico! Queste dinamiche sono tuttora fortemente presenti in Italia, alimentando il confronto su come in parte lo Stato debba comportarsi in una società che si scopre di giorno in giorno sempre più variegata, vedendo aumentare accanto alla fede maggioritaria sia tradizioni religiose diverse che gruppi di popolazione laici o irreligiosi, e in parte su come debbano agire nella società multicolore le stesse confessioni religiose, quella prevalente inclusa, che nello svolgimento della propria funzione non possono ignorare le numerose alternative e i riferimenti culturali che caratterizzano il giorno d’ oggi. Si presenta pertanto in tutta la sua complessità la questione della laicità in Italia, un fenomeno complesso eppure necessario per assicurare quell’ equilibrio che ogni democrazia decente vede tra sfera religiosa e secolare, improntato su di un leale e reciproco rispetto dei rispettivi ambiti di pertinenza.

 

Un chierico ad una inaugurazione pubblica;

La «laicità all’ italiana», come spesso viene definita, si fonda su varie insidie, se non addirittura contraddizioni, come di recente è stato confermato dalla cronaca con la reazione papista in occasione del dibattito sul disegno di legge presentato dal deputato Alessandro Zan durante la XVIII legislatura della Repubblica e approvato nel novembre 2020 alla Camera per poi rimanere bloccato in Senato. Il provvedimento prevede aggravanti specifiche in sede tribunalizia per i crimini d’ odio e discriminazioni contro omosessuali, transessuali, donne e disabili, ma ha alimentato accese discussioni. Sono state richieste importanti modifiche, a cui ha risposto in Parlamento il Presidente del Consiglio dei ministri, Giuseppe Conte, il quale ha affermato che «l’ Italia è uno Stato laico» e che «il nostro ordinamento contiene tutte garanzie per rispettare gli impegni internazionali tra cui il Concordato». Indipendentemente dall’ assenza di un’ affermazione chiara in sede costituzionale sulla laicità dello Stato, a cui la giurisprudenza ha cercato di porre rimedio tramite una serie di sentenze della Corte costituzionale, come la 440 del 1995, la 334 del 1996, la 329 del 1997 e la 508 del 2000, è l’ Articolo 7 della Costituzione che rappresenta, sin dal 1948, il perno della laicità che il Conte di Cavour ben definì con la celeberrima espressione «libera Chiesa in libero Stato» nei discorsi tenuti tra i mesi di marzo e aprile del 1861 al primo Parlamento italiano.

Dopo una lunga e attenta discussione etica e politica, l’ Assemblea Costituente, il celebre organo legislativo preposto alla stesura della nuova Costituzione nazionale all’ indomani del voto referendario del 1946 tra Monarchia e Repubblica, trovò una soluzione per la regolazione dei rapporti tra la nascente Repubblica e la Chiesa cattolica nella promulgazione dell’ Articolo 7, che recita: «Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani. I loro rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi. Le modificazioni dei Patti, accettate dalle due parti, non richiedono procedimento di revisione costituzionale.». A questo seguì l’ Articolo 8: «Tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge. Le confessioni religiose diverse dalla cattolica hanno diritto di organizzarsi secondo i propri statuti, in quanto non contrastino con l’ ordinamento giuridico italiano. I loro rapporti con lo Stato sono regolati per legge sulla base di intese con le relative rappresentanze.». E’ bene ricordare che la Costituzione è la legge specifica che regola il funzionamento dello Stato, di conseguenza qualunque altra fonte legislativa, Parlamento compreso, non può concepire norme in contrasto con la Carta costituzionale stessa, pena la loro abrogazione per incompatibilità costituzionale. Tuttavia, dato che sulla base dell’ Articolo 7 i rapporti tra Stato e Chiesa sono regolati dai Patti Lateranensi, essi sono da considerarsi parte a tutti gli effetti della legge fondamentale della Repubblica, godendo peraltro di uno statuto privilegiato non essendo necessario un processo di revisione costituzionale ordinario, sulla base dell’ Articolo 138 della stessa Costituzione, ma un semplice accordo tra le due parti interessate. I Patti Lateranensi furono rivisti, dopo lunghissime e difficili trattative, nell’ Accordo di Villa Madama, stipulati il 18 febbraio 1984 al fine di rimuovere la clausola che faceva del Cattolicesimo la religione di Stato in Italia. La rinegoziazione pose fine allo status di religione di Stato di cui il Cattolicesimo godeva, eppure questo continua a vantare ancora oggi una posizione di privilegio rispetto a qualunque altra fede religiosa, che consente alla Chiesa di Roma di intervenire con importanza nelle questioni di natura prettamente interna riguardanti la politica e la società dello Stato italiano. L’ Articolo 2 del Concordato del 1984 recita: «La Repubblica italiana riconosce alla Chiesa cattolica la piena libertà di svolgere la sua missione pastorale, educativa e caritativa, di evangelizzazione e di santificazione. In particolare, è assicurata alla Chiesa la libertà di organizzazione, di pubblico esercizio del culto, di esercizio del magistero e del ministero spirituale nonché della giurisdizione in materia ecclesiastica». Tradotto, se in Italia fosse considerata la proposta di una legge atta a promuovere valori non contemplati o addirittura contrari a quelli tanto cari alla Chiesa cattolica, essa sarebbe da reputarsi incostituzionale. E l’ Articolo 4 del disegno di legge Zan, di fatto, urta la concezione eterosessualista e procreativista che è da sempre caldeggiata dal magistero. Ne segue che, finché il Cattolicesimo continuerà a insegnare che tra eterosessualità e omosessualità sussiste una differenza e che la seconda è peccato, agli occhi dell’ Articolo 4 del disegno di legge Zan tale ottica è discriminatoria e pone un gigantesco conflitto sia culturale che giuridico tra Stato e Chiesa. Il Concordato del 1984 riconosce alla Chiesa cattolica la piena libertà di esercizio del suo magistero, il quale però pone un forte freno allo sviluppo culturale, sociale e giuridico dello Stato.

I Patti Lateranensi e le loro modifiche quindi sono quindi qualcosa di molto più di un semplice trattato internazionale: essendo stati inclusi nella Costituzione, ne sono divenuti un valore vincolate. Ogni cittadino italiano, sia egli credente, non credente o diversamente credente, deve farci i conti. La questione è pertanto assai più complessa di quanto generalmente si pensa. In Italia la laicità è assolutamente mancante e generica a netto vantaggio della Chiesa cattolica, solo a parole la Repubblica può vantare il proprio secolarismo. La Costituzione repubblicana è incatenata e depotenziata da una forte incoerenza logica e giuridica, la cui soluzione ideale sarebbe l’ annullamento dei Patti Lateranensi partendo da una proposta di emendamento dell’ Articolo 7, e proporre una normativa più chiara e dettagliata che stabilisca il giusto confine tra potere spirituale e politico.

 

Il 19 aprile 1989 la Gazzetta ufficiale pubblicò la sentenza della Corte costituzionale numero 203, in cui per la prima volta si stabilì che il principio di laicità è supremo, al pari di altri valori come quello della dignità della persona. Un passo davvero importante, addirittura storico. Fino a cinque anni prima il Cattolicesimo era la religione di Stato. Solo con tale delibera si parlò per la prima volta in Italia di laicità nell’ ambito dell’ ordinamento dello Stato, benché il Risorgimento così come il Conte di Cavour lo aveva concepito nell’ Ottocento fosse animato da ideali chiaramente anticlericali. Attualmente, però, bisognerebbe riflettere a proposito di un Belpaese in cui i politici sventolano i Vangeli, come il leghista Matteo Salvini durante i suoi comizi, mentre negli edifici pubblici è ancora ben chiaramente esposto il Crocifisso. Laicità implica un’ autonomia decisionale non vincolata da norme confessionali: l’ autorità che governa una nazione non dovrebbe quindi essere condizionata da qualsivoglia valore religioso, ma morale ed empirico. Ovviamente, i nostri politici sono in maggioranza cattolici, e questo non è un problema: in occasione della legge sull’ aborto del 1978 i politici cattolici accettarono un compromesso inserendo l’ articolo sull’ obiezione di coscienza. Anche se oggi lo si attua spesso e in modo sconsiderato, non è stata usata una legge per affermare un valore religioso. In questi anni si è assistito a un aumento delle già forti intromissioni sacerdotali in questioni riguardanti lo Stato. Uno degli esempi più importanti riguarda la campagna referendaria per la modifica della legge sulla procreazione assistita del 2005, quando le gerarchie ecclesiastiche promossero la tesi della superiorità dell’ embrione a discapito della salute della madre. Per non parlare delle campagne ideologiche da loro incoraggiate per negare i diritti agli omosessuali, o ancora a chi voleva regolamentare il fine vita. Il Parlamento si è costantemente espresso con prudenza: si direbbe che la politica cerchi di rincorrere la Chiesa, impoverendo lo spirito della Costituzione e dimostrando la debolezza di uno Stato che si fa scudo con la religione. Il fatto è che gli esponenti della Chiesa cattolica hanno certamente il diritto di esprimere il proprio pensiero in temi di carattere civile, altra questione però è incitare i fedeli ad azioni politiche, soprattutto rigidamente ostili al progresso culturale e sociale. Questo vale quando il Santo Padre si esprime sull’ aborto, ma anche sulla questione dei migranti: il confine evidentemente è labile ma spetta ai politici il compito di governare la nazione e condurla lungo il sentiero della democrazia, della civiltà e della modernità.

In Italia siamo abituati a sentire il parere della Chiesa su qualsivoglia argomento. Sembra normale, tuttavia il concetto di laicità è inteso diversamente a seconda della forma mentis della singola persona. Insomma, la laicità in Italia non vive affatto un momento prospero: la Repubblica è uno Stato a sovranità limitata, e il Vaticano, forte della sua posizione geografica e della preminenza che il Cattolicesimo vanta nella storia e cultura del Belpaese, nei suoi confronti non sta certo con le mani in mano. Anzi, le usa entrambe: una aperta a palmo largo per ricevere offerte, e l’ altra intenta a suonare manrovesci alla politica, soprattutto in occasione dei risultati di vari referendum, come quello sul divorzio nel 1974, sull’ aborto nel 1981, nel 2005 per la già citata questione dell’ abrogazione della legge sulla fecondazione assistita e infine sull’ ostacolo all’ adozione della legge sull’ eutanasia. E cardinali come Camillo Ruini, fermamente convinto della necessità di una presenza della Chiesa e dei cattolici nel mondo della cultura, svolgono il duplice ruolo di guide sia spirituali che politiche: lo stesso Ruini è stato apertamente contestato da componenti laiche e non della politica italiana, che pur giudicando inerente alla missione ecclesiastica l’ interesse per questi argomenti, hanno discusso il settarismo e la pretesa di universalità di alcune sue esternazioni, ritenendo che su certi argomenti il messaggio della Chiesa non debba entrare nello specifico della legislazione di uno Stato sovrano, ma limitarsi a indicazioni di carattere generale e senza imporre per legge le prescrizioni di un’ ideologia o fede particolare. In seguito, Papa Benedetto XVI ha più volte bollato come «relativismo etico» tutto ciò che non aderisce ai dettami catechetici, «un lasciarsi portare qua e là da ogni vento di dottrina» fino ad arrivare a essere una dittatura «che non riconosce nulla come definitivo e che lascia come ultima misura solo il proprio io e le sue voglie». L’ influenza morale della Chiesa sulla società civile italiana ha conseguenze più che evidenti con cui la cittadinanza deve fare i conti: l’ aborto è legalizzato, ma è spesso difficile accedervi a causa delle dimensioni del fenomeno dell’ obiezione di coscienza. L’ eutanasia è vietata, ma è ammesso il testamento biologico, oggetto di forte discussione in quanto eticamente sensibile tra varie correnti di pensiero di tipo radicale di ispirazione cristiana sull’ eutanasia e di forte privazione della libertà di scelta sulla propria vita. L’ accesso fecondazione artificiale è pesantemente limitato dalla legge. Per le coppie di fatto, anche omosessuali, esiste un riconoscimento di legge a partire dal 2016, sebbene debba essere ancora perfezionato. Il divorzio è consentito, eppure i tempi per ottenerlo sono lunghi quando vi sono beni e figli in comune. Il vilipendio è considerato un reato.

 

Matteo Salvini esibisce i Vangeli a un comizio;

Che l’ Italia e la Chiesa cattolica avrebbero avuto una convivenza scomoda fu subito chiaro ai padri risorgimentali. Nel suo primo discorso in Parlamento dopo l’ unità nazionale, il Conte di Cavour parlò di Roma come la naturale e necessaria capitale del nuovo Regno, confermando l’ idea della libera Chiesa in un libero Stato. Una sorta di contratto con gli italiani, ma anche in questo caso le promesse furono piuttosto azzardate: la storia italiana è piena di intromissioni sempre meno appropriate da parte della Chiesa in politica; che fosse l’ omelia in dialetto del parroco di paese o la nota ufficiale del pontefice, le parole del mondo cattolico hanno spesso rallentato, invalidato, favorito, fatto e disfatto. E l’ Italia, il più delle volte, ha ascoltato. E quando il Santo Padre o i cardinali non si esprimono apertamente, ci pensano i gruppi influenti di ideali cattolici a manovrare leggi e iniziative sociali, ritardando intollerabilmente il Paese su temi sociali rispetto al resto d’ Europa. Più in generale, il problema riguarda il rapporto tra la libertà di tutti e il dogma dell’ infallibilità pontificia. Per mezzo secolo in Italia ha avuto un ruolo onnipervasivo il partito politico della Democrazia Cristiana, fondato nel 1943 e attivo fino al 1994, retto da ideali religiosi e sostenuto apertamente dalla Chiesa cattolica, in opposizione al Partito Comunista Italiano. In occasione della campagna referendaria del 1974 in tema di divorzio, fu emblematico l’ intervento di Amintore Fanfani, figura storica della DC, essendo stato per cinque volte Presidente del Senato e per sei Presidente del Consiglio dei ministri: «Dopo il divorzio verrà l’ aborto, poi il matrimonio tra omosessuali e magari un giorno vostra moglie scapperà con la serva!». E la Chiesa, allora guidata da Papa Paolo VI, scese in campo con tutte le sue forze politiche e sociali, ma dovette incassare il colpo della sconfitta e il divorzio divenne realtà.

Gli esempi sulla mancante laicità nello Stato italiano, purtroppo, sono davvero tanti. Il più famoso per eccellenza riguarda il Crocifisso nei luoghi pubblici, come scuole, aule di tribunale e ospedali. Con le disposizioni emanate in epoca fascista, per la precisione tra il 1924 e il 1928, la presenza del Crocifisso trovò una base giuridica che le successive novità legislative non scalfirono, benché la Costituzione del 1948 sancisca l’ eguaglianza delle religioni di fronte alla legge e nonostante numerose sentenze della Corte Costituzionale riaffermanti la laicità dello Stato e la supremazia dei valori costituzionali nell’ interesse generale. Negli ultimi anni sono state espresse molte richieste di rimozione, ma ognuna è stata respinta nella convinzione che il Crocifisso sia parte del patrimonio storico e culturale italiano, sebbene il nostro retaggio non poggi esclusivamente sul Cristianesimo: l’ Occidente, Italia compresa, poggia soprattutto su basi culturali celtiche, greche e romane, pertanto il Cristianesimo, sorto in epoca romana e diffusosi dapprincipio nelle province di lingua e cultura greca, si adeguò a tali schemi privandosi dei fondamenti ebraici originari fin dall’ insegnamento di San Paolo. La cristianità e i suoi simboli e valori sono solo una piccola parte della nostra civiltà, nonché la più recente e la sola a godere di tanta visibilità. In uno Stato laico, nella piena attuazione di una Costituzione che non prevede religioni di Stato, la presenza di simboli religiosi è una contraddizione, un privilegio senza giustificazione per il Cattolicesimo. Essendo chiaramente assurdo concepire la presenza dei simboli di tutte le religioni ammesse visto il loro grande numero, la via più logica da percorrere è la rimozione del Crocifisso dagli edifici pubblici alla pari di ogni altra icona spirituale. La presenza nei tribunali è poi ancora più inconcepibile, in quanto abbinata al concesso secondo cui la legge è uguale per tutti: come può sentirsi giudicato serenamente un italiano di fede ebraica dinnanzi a magistrati con un Crocifisso cristiano che troneggia alle loro spalle? O uno musulmano? O ancora uno induista o buddhista? Senza contare che, per gli stessi cattolici, la crocifissione di Gesù Cristo fu un’ ingiustizia! In passato vi sono state diverse interrogazioni parlamentari, presentate chiedendo chiarimenti sulla presenza del Crocifisso nei luoghi pubblici: nel 1996 fu la volta dei senatori del PDS, e sulla scia della vicenda Montagnana nel 2000 vennero presentate altre due interrogazioni parlamentari, una da parte dei DS, e l’ altra dei Verdi, ma nessuna di queste ottenne mai risposta.

Un discorso vale anche per l’ ora di religione cattolica a scuola. Esiste per via dell’ Accordo di Villa Madama. Nella legislazione postunitaria l’ insegnamento era previsto solo per le scuole elementari, affidate ai comuni. Nel 1923 il primo Governo Mussolini lo rese obbligatorio con la riforma della scuola. Con i Patti Lateranensi lo si introdusse anche nelle scuole medie e superiori, quale «fondamento e coronamento dell’ istruzione pubblica». Nelle modifiche concordatarie del 1984 la formula venne mutata: «La Repubblica italiana, riconoscendo il valore della cultura religiosa e tenendo conto che i principi del Cattolicesimo fanno parte del patrimonio storico del popolo italiano, continuerà ad assicurare, nel quadro delle finalità della scuola, l’ insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche non universitarie di ogni ordine e grado.». Un protocollo addizionale sancisce: «E’ impartito in conformità della dottrina della Chiesa.». E’ pertanto chiaro che l’ ora di religione serve esclusivamente alla Chiesa cattolica per insegnare la propria religione, cosa che sarebbe più opportuno fare nelle proprie parrocchie durante il catechismo. E’ possibile insegnare anche le dottrine delle altre religioni, ma soltanto da un punto di vista cattolico. Come prescrive il Codice di diritto canonico: «L’ Ordinario del luogo si dia premura che coloro, i quali sono deputati come insegnanti della religione nelle scuole, anche non cattoliche, siano eccellenti per retta dottrina, per testimonianza di vita cristiana e per abilità pedagogica.». Gli insegnanti di religione nelle scuole pubbliche sono scelti dai vescovi ma pagati dai contribuenti. Lo Stato è talmente escluso da questo insegnamento che lo stesso Luigi Berlinguer, Ministro della pubblica istruzione tra il 1996 e il 2000, in un’ intervista a Famiglia Cristiana, sostenne di non sapere bene cosa effettivamente si insegni durante l’ ora di religione...

Un’ affissione municipale;


Quando l’ Italia era uno Stato confessionale, il servizio pubblico televisivo si limitava alla messa domenicale e a un sermone il sabato antecedente, in un meritevole atteggiamento misurato. Oggi pare vero l’ esatto contrario: in un Paese laico e ormai largamente scristianizzato, la RAI attribuisce un’ enfasi colossale agli ambienti papisti e alle questioni religiose. La figura del pontefice gode di ampio risalto, tra ciò che riguarda la sua salute e le sue affermazioni anche su questioni minori. In occasione dei suoi viaggi per il mondo è seguito da uno stuolo di telecronisti. Nell’ ora di massimo ascolto imperversano sceneggiati sui protagonisti del racconto biblico ed evangelico, prodotti con un copioso investimento e che riscuotono elevati profitti: i consulenti che garantiscono il rispetto della dottrina si fanno pagare profumatamente, e i divi non fanno sconti sulle tariffe. In essi, peraltro, i patriarchi ottantenni sono spesso interpretati da attori ben più giovani e prestanti, segno che i consulenti non prestano la dovuta attenzione all’ aderenza della realtà storica se la narrativa già aderisce ai valori che è chiamata a promuovere. Non sempre però gli ascolti sono quelli sperati, non superando il più delle volte il quinto della popolazione: una produzione dedicata a Padre Pio, ad esempio, ha avuto ascolti inferiori a quelli del Grande Fratello. Nei salotti e nei dibattiti la presenza di un sacerdote, anche sui temi più distanti dall’ evangelizzazione, non manca mai: talvolta sono anche più di uno, magari tra gli ospiti che commentano le partite della squadra del cuore. Le rare volte in cui il dibattito presenta un confronto tra esponenti di fedi diverse, mancano rappresentanti dell’ ateismo che espongano un parere non religioso. Non stupisce che, nel corso di un dibattito tra giornalisti televisivi, Michele Santoro abbia potuto commentare nel silenzioso assenso degli intervenuti che «non è facile definire la linea politica di questo o di quel canale: evidente è invece l’ influenza del Vaticano su tutti i canali.». Il clericalismo della RAI è tale che, nell’ agosto 2014, l’ UAAR, ossia l’ Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti, chiese l’ intervento della Commissione parlamentare di vigilanza. Ma la risposta fu che la TV di Stato non ha nessun obbligo normativo di assicurare un vero pluralismo.



Purtroppo, in Italia la laicità dello Stato è più irreperibile di un partigiano alla macchia in montagna ai tempi della Repubblica di Salò. La religiosità di un popolo è qualcosa di assolutamente legittimo, legato alla sua particolare cultura, unica e irripetibile, tuttavia essa non può pretendere di influenzare la più ampia e dinamica realtà di un governo e il relativo sistema legale. Un dogma o una divinazione non hanno il diritto di influenzare le disposizioni di un governo e le leggi di un Parlamento. Questo è avvenuto nelle teocrazie. Oggi gli italiani sono un popolo culturalmente molto più differenziato di un tempo per via di una maggiore istruzione che ne ha reso la mentalità più flessibile, cosa che si è ripercossa anche sul piano della religione, da cui sono più lontani o che vivono in maniera differente in confronto a una volta, eppure in Italia la giornata del non credente e del diversamente credente è costellata da continue sollecitazioni di origine cattolica e tradizionale che influenzano la sua attenzione. Qualcuno dirà che ciò è inevitabile, vivendo in un Paese convenzionalmente cattolico, ma in realtà il Belpaese è solo in parte cattolico: i praticanti sono una minoranza, è invece la Chiesa che, non volendosi arrendere a tale evidenza e mancando di rispetto verso chi non segue le sue verità indiscutibili, tende a infiltrarsi in ogni ambito della vita italiana come una tossina in tono con la sentenza del Dictatus Papæ di Papa Gregorio VII nel 1075, tuttora in vigore in Vaticano: «La Chiesa romana non ha mai sbagliato né mai in futuro sbaglierà, come testimonia la Sacra Scrittura.». In secondo luogo, questa massiccia sovraesposizione religiosa non è quasi mai giustificata: è solo frutto dell’ accondiscendenza di tanti alla tesi dell’ Italia cattolica, ormai superata dagli eventi.

Le invadenze papiste sono praticamente ovunque. Le nomine nei consigli di amministrazione delle banche e delle fondazioni bancarie di competenza politica vedono sempre più spesso la scelta di esponenti legati alle diocesi, quando non di ecclesiastici in carne e tonaca. Forse lo si deve alla competenza tipicamente clericale nel maneggiare il denaro! A Natale, Pasqua e così via il sacerdote che passa per benedire le case è un classico consolidato: gli si può anche non aprire la porta, tanto lo farà un altro condomino a cui chiederà chi è quel maleducato che non accetta la parola di Dio, e cosa si può fare per farlo ravvedere. Nelle carceri, un cappellano stanziale ha a disposizione permanentemente una o più cappelle dove celebrare le sue funzioni. I carcerati devono poter usufruire di locali idonei per le pratiche rituali: nessuna menzione per gli atei e gli agnostici all’ interno della normativa, evidentemente la popolazione non credenti negli istituti penitenziari è minore rispetto alla popolazione non credente totale! Vedendo sempre alti prelati cattolici partecipare in posizioni d’ onore alle cerimonie pubbliche, e quindi laiche, molti pensano che ciò possa essere il retaggio di antiche consuetudini sopravvissute all’ avvento della Repubblica e della Costituzione, alla rinegoziazione del 1984 e alla perdita dello status di religione di Stato offerto dal Fascismo alla Chiesa cattolica. Invece, la presenza di un sacerdote è dovuta ad una normativa sui cerimoniali pubblici di recente adozione, diligentemente osservata dai nostri governanti, e di ogni schieramento: tali disposizioni risiedono in un Decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, le «Disposizioni generali in materia di cerimoniale e disciplina delle precedenze tra le cariche pubbliche» firmate il 14 aprile 2006 da Silvio Berlusconi, poco prima delle elezioni politiche, e già oggetto di una estesa riforma da parte di un altro decreto firmato il 16 aprile 2008 dal suo successore Romano Prodi. Tali provvedimenti distinguono le cerimonie pubbliche nazionali da quelle territoriali, e per ognuna delle due categorie fissa nel dettaglio l’ ordine delle precedenze da accordare alle varie cariche: per le cerimonie nazionali viene riconosciuto al vescovo della diocesi il quarantaduesimo posto di precedenza, in ordine assoluto, mentre per le cerimonie territoriali viene riconosciuto allo stesso l’ undicesimo posto. Una prima osservazione riguarda lo status di carica pubblica che il Decreto sembra riconoscere al vescovo della diocesi: scorrendo gli elenchi delle cariche si può infatti notare che in esso sono compresi altri soggetti che non sono cariche pubbliche, come ad esempio Premi Nobel, scienziati, umanisti e artisti di chiarissima fama, industriali di assoluta eminenza a livello nazionale e regionale, segretari regionali dei partiti politici rappresentati nel Consiglio regionale, Presidente regionale della Associazione Industriali, Segretari regionali dei sindacati maggiormente rappresentativi in sede regionale, ma tali soggetti, a differenza delle cariche pubbliche, sono indicati tutti quanti tra delle parentesi. Invece il vescovo della diocesi, tra i soggetti non appartenenti alle istituzioni pubbliche, non è compreso tra parentesi apparendo così riconosciuto come personaggio: alla faccia della laicità dello Stato e dell’ abrogazione della religione di Stato! La seconda osservazione nasce dall’ esame delle postille che accompagnano i posizionamenti del vescovo. Le posizioni richiamate potrebbero considerarsi, tutto sommato, abbastanza moderate considerato il diffuso stato di asservimento dei nostri politici e delle nostre istituzioni all’ imperium vaticano, ma leggendo le postille si trova la sorpresa: nel caso in cui il vescovo della diocesi sia anche un cardinale, egli balza al primo posto assoluto di precedenza, tra tutte le cariche, sia nelle cerimonie nazionali che in quelle locali. Il solo scrupolo, per i nostri governanti, è che in questi casi il sacerdote non può assumere la presidenza della cerimonia, che sarebbe davvero la manifestazione della mancanza laicità in Italia. L’ assurda conseguenza di queste previsioni normative del nostro ordinamento, attualissime e ben studiate dai nostri politici di entrambe le ali parlamentari, è che il Papa, in quanto vescovo della Diocesi di Roma e capo di Stato estero, sia considerato una sorta di seconda carica dello Stato, dopo il Presidente della Repubblica. Si può peraltro aggiungere che la Regione Marche ha provato ad impugnare questo Decreto davanti alla Corte costituzionale, per conflitto di attribuzione, contestando che almeno la disciplina delle cerimonie pubbliche locali dovrebbe rientrare nella competenza normativa delle Regioni, e non in quella dello Stato, ma la Corte, con la sentenza 104 del 2009, ha respinto la contestazione, dichiarando che la materia del cerimoniale pubblico sia nazionale che locale rientra nella competenza normativa esclusiva dello Stato. Insomma, in Italia la disciplina del cerimoniale pubblico è questa del Decreto del 14 aprile 2006, e va rispettato con tutte le gerarchie cattoliche ben salde nei loro seggi d’ onore, davanti a fotografi e telecamere.

Anche il calendario delle festività italiane può a buon diritto essere considerato un’ invadenza clericale, essendo ancora composto in maggioranza da ricorrenze religiose cattoliche, come Immacolata Concezione, Natale, Santo Stefano, Pasqua, e così avanti. Una cosa a parte sono le festività paesane, vera e propria baldoria per la parrocchia quando si festeggia il santo patrono. Spesso avvengono fuori da ogni regola: nel settembre 2002 i NAS dovettero intervenire al santuario di Polsi, in Aspromonte, dove la «secolare tradizione di uccidere e cucinare capre e agnelli sul posto» non rispettava la normativa sanitaria. Ovviamente le festività religiose devono svolgersi senza la minima concorrenza laica: il vescovo di Imola, ad esempio, ha più volte protestato contro «l’ inopportuna» coincidenza del Gran Premio di Formula 1 di San Marino con la ricorrenza pasquale. La folta delegazione italiana in rappresentanza del governo al Giubileo straordinario indetto da Francesco per il cinquantesimo anniversario della conclusione del Concilio Vaticano II si limitò soltanto a confermare una realtà da tempo sotto gli occhi di tutti: una parte consistente del governo e del Parlamento non risponde agli elettori, ma direttamente agli alti dignitari del Vaticano. Le conseguenze sono evidenti per tutti: mentre i Presidenti della Repubblica e quelli del Consiglio dei ministri appena insediati formalmente danno molta enfasi alla prima udienza con il Santo Padre, le manifestazioni che la Chiesa cattolica disapprova suscitano in costoro disdegno e ironia, e vengono tollerate soltanto perché ancora vige una Costituzione. Le cose vanno anche peggio nel cosiddetto sottogoverno: autorevoli esponenti della gerarchia ecclesiastica vengono chiamati a far parte di consulte e commissioni…



La religione è un prodotto culturale umano. Fin dall’ origine dei tempi, dai giorni remoti della Preistoria in cui gli uomini delle caverne presero a riflettere sulle origini della vita e sulla possibilità di vita dopo la morte, ogni popolo ha sviluppato la propria spiritualità a cui poi si è imposta una religione organizzata, con il suo clero e, con l’ andare del tempo, con la sua ramificazione in svariate scuole di pensiero caratterizzate ciascuna da una differente interpretazione e liturgia a seconda dei tempi e dei luoghi. Ha un ideale di fondo positivo, tutto considerato. Eppure si può affermare che non viene vissuta con spirito positivo e di servizio dalla maggior parte dei suoi sacerdoti, come dovrebbe avvenire per la democrazia in politica. E’ divenuta con il tempo un sistema di potere rigido e oppressivo, finendo con l’ occuparsi di potere politico così da governare secondo «i sani principi divini», perseguitando e reprimendo tutto ciò che ignorasse la sua ortodossia, bollandola come eresia.

Nel mondo di oggi, scandito dalla rivoluzione scientifica che dal Seicento ha portato la luce della comprensione e della consapevolezza ramazzando la superstizione promossa da dignitari religiosi avidi e ambiziosi, è rimasta come sistema tradizionale. Tuttavia, benché in confronto ad una volta il mondo si sia ampiamente allontanato dall’ antica mentalità devozionale e puramente fideistica, la Chiesa cattolica continua a promuovere una concezione della vita e del mondo rigidamente conservatrice, e soprattutto in Italia ha abdicato al potere temporale solo in apparenza, preservando un forte potere influenzando la mentalità dei credenti per mezzo della trasmissione di concetti convenzionali, influenzando la vita politica inducendo i cittadini a votare candidati opportuni alle elezioni e favorevolmente o contrariamente ai referendum incentrati su questioni morali: in tal senso si può dire tranquillamente che l’ epoca del Papa Re non sia veramente cessata di esistere con il pontificato di Pio IX a seguito della presa di Roma da parte di Casa Savoia nel 1870, lo Stato italiano infatti soffre una grave ed intollerabile mancanza di laicità a tutto vantaggio delle invadenze papiste nella vita civile…