venerdì 29 marzo 2019

Il Dalai Lama, un’ autorità tra potere spirituale e temporale

Il XIV Dalai Lama del Tibet;
«‘Per la prima volta,’ scrissi nel mio diario quella sera ‘ho avuto modo di cogliere la sua personalità, al di là dell’ istituzione in cui è inserito. E’ un uomo semplice, ma incredibilmente lucido. Sembra avere una mente lineare. La sua umiltà è talmente irresistibile da renderlo carismatico. Era straordinario vederlo passeggiare tra la gente senza essere attorniato da sfarzo e servilismo.’. Eppure, per quanto lo ammirassi, il Dalai Lama restava per me più una figura iconica che una persona con cui potessi avere uno scambio profondo.» tratto da «Confessione di un ateo buddhista» di Stephen Batchelor;

Dalla seconda metà del Novecento, il XIV Dalai Lama è uno degli uomini più famosi e stimati in tutto il mondo. Nato ed educato in Tibet, un lontano, remoto e misterioso Paese che per secoli è rimasto quasi del tutto isolato tra montagne ciclopiche e gole spaventose, cime sublimi e cieli di tempesta, passando alla storia come una terra leggendaria popolata da nomadi, pellegrini e mistici, colma di monasteri appollaiati su monti apparentemente inaccessibili, alternati dalle grotte abitate dagli eremiti, raccolti nella più assoluta e terrificante solitudine, egli è la decima e ultima guida suprema di un sistema religioso e politico sfarzoso e suggestivo, rimasto rigorosamente immutato e uguale a sé stesso per trecento anni, in un periodo compreso tra il 1642 e il 1959, nel quale l’ insegnamento del Buddha Śākyamuni rappresentava la cosa più importante di tutte e i lama, ammantati in un alone di santo risveglio e infallibile illuminazione, detenevano un’ autorità di cui nessuno avrebbe mai osato dubitare.
Rifugiato politico in India dal 1959, ove vive con il generoso sostegno del governo di Nuova Delhi, e non solo, insieme a migliaia di tibetani di ogni classe sociale ed età a seguito dell’ occupazione politica e miliare da parte della Cina, avvenuta progressivamente in un periodo compreso tra il 1950 e il 1959, dopo un primo periodo di anonimato divenne un personaggio noto a livello mondiale, soprattutto a partire dal 1967, anno in cui intraprese una serie di viaggi che nei decenni successivi lo avrebbero portato in oltre quarantasei nazioni. Profondamente stimato per la rivendicazione del diritto dei tibetani alla libertà e all’ autonomia con soli mezzi pacifici nonché per la ferma critica al regime di Pechino, definendolo nocivo innanzitutto per lo stesso popolo cinese, contro cui non ha mai mai aizzato l’ opinione pubblica, nel 1989 ricevette il Premio Nobel per la Pace, che, come il Presidente del Comitato affermò, volle essere anche un tributo alla memoria del Mahatma Gandhi, grande personaggio di cui lo stesso Dalai Lama è ammiratore, nominato senza successo per ben cinque volte tra il 1937 e il 1948. Attualmente considerato una delle personalità più influenti del mondo, il celebre maestro buddhista viene definito in modi diversi da gente diversa, come lui stesso afferma nell’ introduzione alla propria autobiografia, «La libertà nell’ esilio»: per i tibetani è il quattordicesimo e divino re del Tibet; per i buddhisti di scuola tibetana è la reincarnazione di Avalokiteśvara, il Bodhisattva della Compassione; per i cinesi è un monarca feudale dal quale hanno liberato il Tibet, antica regione occidentale della Cina; per l’ Occidente è invece il Premio Nobel per la Pace. Lui, invece, ama definire sé stesso un semplice essere umano, incidentalmente tibetano, che ha voluto essere un monaco buddhista. Personaggio camaleontico, egli è ormai universalmente riconosciuto come la personificazione del cammino pacifico verso due liberazioni: quella spirituale, indicata duemilacinquecento anni fa dal Buddha Śākyamuni, e quella politica del Tibet, venuta meno negli Anni Cinquanta. Dal 1959 in poi, il XIV Dalai Lama, che a differenza dei suoi predecessori ha vissuto ed esercitato la propria autorità quasi completamente in esilio, vedendo sfumare per sempre durante il proprio regno l’ indipendenza del Tibet, oggi adibito a regione cinese, è divenuto il simbolo vivente della saggezza, della moralità e della disciplina mentale insegnate dal Buddha, nonché del Madhyamāpratipad, ossia «Via di Mezzo» in sanscrito, termine indicante la retta condotta di vita che evita gli eccessi e gli assolutismi, quanto il lassismo e l’ individualismo, e soprattutto dell’ ahiṃsā, l’ ideale nonviolento basato su di una serie di concetti morali quali compassione, amicizia e gentilezza, che uniformano e ispirano non solo la pratica spirituale ma anche la convivenza civile.
Il Dalai Lama con i membri del suo governo nel 2016;

Occorre tuttavia precisare che esistono determinati aspetti poco considerati e quindi discussi dell’ istituzione del Dalai Lama, come quelli relativi alla sua autorità politica, analoghi a quelli del papa della Chiesa cattolica, il quale nei secoli divenne sovrano assoluto dello Stato Pontificio, una figura di notevole influenza e prestigio sulla scena dell’ Europa sia medievale che moderna: nella sfera più strettamente temporale della carica di cui è insignito, l’ attuale Dalai Lama ha personalmente preso decisioni oppure appoggiato quelle del proprio governo, il Kashag, pur nella consapevolezza che alcune di esse fossero in un certo modo distanti dai valori spirituali fermamente in vigore in Tibet e di cui lui stesso è depositario, dando origine a svariati paradossi tipici di tutti i sistemi teocratici avvicendatisi nella storia del mondo, indipendentemente dalla religione da cui sono stati generati.
Per quanto il Dalai Lama sia una persona intelligente e lungimirante, sinceramente impegnato a beneficio del proprio popolo e assolutamente meritevole di rispetto, occorre analizzare la sua figura nel quadro più ampio possibile, in tutte le sue sfaccettature, onde evitare di cadere nella trappola dei giudizi soggetti alle convenzioni del momento, spesso e volentieri caldeggiati da mezzi di comunicazione di parte, alcuni a lui favorevoli, dai quali emerge l’ immagine forte di un santo illuminato, semplice e benevolo, ai limiti di un candore perduto, e altri ben più ostili, secondo cui sarebbe un astuto manipolatore di masse mirante al potere, mosso da un movente avido ed egoistico.
Il Potala di Lhasa, residenza tradizionale del Dalai Lama;

Il Buddhismo tibetano è caratterizzato da quattro scuole nettamente distinte tra loro, dotate ciascuna di propri testi e metodi di meditazione e sorte in periodi differenti della diffusione della religione del Buddha nel Regno delle Montagne. Intorno al VII secolo, il re Songtsen Gampo, della dinastia di Yarlung, unificò tutti i territori dell’ altopiano himalayano e fondò l’ Impero tibetano, favorendo per primo la diffusione del Buddhismo dall’ India, introducendo la scrittura, trasferendo la capitale a Lhasa e facendo costruire il Jokhang, il primo tempio buddhista sul suolo tibetano, sebbene buona parte dell’ aristocrazia e della popolazione restassero fedeli al Bön, la religione tradizionale locale. Un secolo dopo, con l’ ascesa al trono di Trhisong Detsen, devoto buddhista, la resistenza al Buddhismo si accentuò forse per il l’ approccio troppo filosofico ed elitario, e non volendo creare contrasti insanabili con il popolo invitò il rispettato Padmasambhava, un grande maestro proveniente dal Kashmir, che fece fiorire in Tibet il Buddhismo tantrico, basato su numerose e complesse dottrine mistiche trasmesse in via diretta e segreta da maestro a discepolo. Venne fondata la scuola Nyingma, alla cui tradizione dedicato il Monastero di Samye. Nell’ 836, il re Ralpacan, a sua volta protettore del Buddhismo e firmatario di un trattato di pace con la Cina, che segnava i confini storici fra i due regni, venne assassinato dal fratello Langdarma, sobillato dalla nobiltà Bön ancora molto influente, che una volta salito al trono compì persecuzioni contro il Buddhismo, allontanando tutti i monaci da Lhasa. Più tardi, nell’ 842, con l’ assassinio dello stesso Langdarma ad opera di un lama travestito, l’ Impero si divise in tanti piccoli regni perennemente in lotta tra loro dando inizio ad un periodo buio per il Tibet, con Lhasa che perse il suo ruolo di capitale politica e spirituale.
Poco dopo il Mille, su invito del sovrano di Ngari, il grande maestro indiano Atiśa giunse in Tibet con una serie di maestri e monaci che diffusero di nuovo il Buddhismo sull’ altopiano, dando inizio ad una rinascita spirituale che si diffuse in molte sue aree, stimolando un fermento nel campo delle arti, specialmente nella letteratura con la traduzione e lo sviluppo dei concetti espressi nei testi sacri del Buddhismo indiano. Ad Atiśa viene attribuita la fondazione della scuola Kadam, destinata ad acquisire una grande importanza nei secoli avvenire. Un centinaio di anni dopo, per opera di Drogmi e Tilopa, nacquero due altre scuole, ossia la Sakya e la dei Kagyu, i cui insegnamenti e lignaggi diedero inizio ad una nuova trasmissione, destinata a giocare un ruolo importante nella vita politica tibetana, contribuendo a stabilire un legame indissolubile tra il potere religioso e quello politico in Tibet. Nel Trecento, invece, il rispettato e autorevole lama tibetano Tzong Khapa riformò la scuola Kadam, a cui apparteneva, tramutandola nella scuola Gelug.
Il Dalai Lama e Mao Tse-tung durante la visita in Cina;

Durante il Seicento, con il Bön ormai in netta minoranza, i monaci buddhisti vantavano ormai un immenso potere politico, sociale e culturale in Tibet, soprattutto per mezzo di due fenomeni divenuti tipici del Buddhismo tibetano: la dottrina del tulku e la diffusione del Buddhismo tra i khan mongoli. Il tulku, ossia il lama reincarnato, è forse l’ aspetto più noto e suggestivo del Buddhismo tibetano. Se per i praticanti comuni la reincarnazione è un’ esperienza sgradevole, rischiosa e imprevedibile a cui si cerca di sfuggire con l’ illuminazione spirituale della Bodhi, a cui segue la cessazione finale del soffio rappresentata dal Nirvana, per un lama è invece un avvenimento volontario dettato da motivi altruistici: pur essendosi illuminato pienamente, maturando le condizioni adatte a dissolversi nella luce finale, sceglie di rinascere per continuare a insegnare la dottrina del Buddha e guidare tutti gli altri esseri al di fuori della sofferenza. La pratica di identificare in un bambino la reincarnazione di un lama defunto si impose in Tibet nel Trecento, e nei secoli successivi si contarono oltre mille lignaggi di lama reincarnati, quasi tutti uomini, con pochissime donne, in quanto per tradizione si ritiene che la buddhità sia possibile in forma maschile.
Durante il Seicento, epoca di espansione da parte degli imperi mongolo e cinese, i monasteri tibetani erano ormai talmente importanti da rappresentare una notevole risorsa diplomatica. I conflitti interni fra i vari regni e le scuole di pensiero ad essi associate fecero ritornare il Tibet nella sfera d’ influenza dell’ Impero mongolo, che già nel Duecento ne aveva fatto un protettorato. Altan Khan, potente governatore mongolo discendente di Kublai Khan, invitò il famoso lama Sönam Gyatso, di scuola Gelug, che al suo arrivo nel campo chiamò Dalai Lama, che in mongolo significa «Oceano di Saggezza». Il maestro adottò ufficialmente tale titolo, ed essendo riconosciuto come la reincarnazione di due famosi insegnanti lo attribuì anche ad essi, passando alla storia come il III Dalai Lama. Tra i Gelug tibetani e i guerrieri mongoli ebbe inizio un intenso legame spirituale che da una parte fornì appoggio materiale ai monaci di tale scuola in Tibet, la quale divenne gradualmente la più potente, e dall’ altra favorì la diffusione del Buddhismo in Mongolia.
Nel 1640, in un periodo di forti lotte con i Kagyu, insediatisi a Shigatse, nello Tsang, la parte occidentale della valle dello Yarlung, portarono ad un nuovo frazionamento del Tibet, permettendo ai Gelug di prendere il controllo di Lhasa. Nel 1642, il V Dalai Lama, abate del Monastero di Drepung a Lhasa riconosciuto come la reincarnazione dei suoi quattro predecessori, si appellò agli alleati mongoli, che intervennero distruggendo l’ esercito dello Tsang e consegnandogli di fatto un Paese nuovamente unito: il Dalai Lama assunse quindi i pieni poteri politici, divenendo un sovrano vero e proprio, promuovendo l’ idea che vedeva lui e le sue precedenti incarnazioni come reincarnazioni dei primi tre sovrani del Tibet che sostennero la diffusione del Buddhismo, nonché la manifestazione terrena di Avalokiteśvara, il Buddha della Compassione, ora indicato come leggendario progenitore del popolo tibetano e protettore del Tibet. La nuova aura di sacralità e inviolabilità che avvolse il «Grande Quinto», come il Dalai Lama venne soprannominato, si consolidò con l’ avvio nel 1645 della costruzione del Potala, l’ immenso palazzo adibito a reggia, monastero e quartier generale del governo, eretto sul monte omonimo di Lhasa, già al centro delle leggende buddhiste locali il cui nome deriva dal palazzo di Avalokiteśvara, e destinato a divenire il simbolo eloquente della nascente teocrazia. Statista capace e solida guida religiosa, il V Dalai Lama fece del Tibet una nazione religiosa e dimostrò grandi abilità nel mantenere intense e proficue relazioni con i mongoli, destreggiandosi efficacemente tra loro e i cinesi, salvaguardando l’ indipendenza nazionale. Il suo regno garantì un’ era di pace, benessere e stabilità. Nel 1652 si recò alla corte dell’ imperatore cinese Shunqi, vivendo tuttavia una situazione equivoca destinata a durare a lungo nel tempo, in quanto i cinesi lo consideravano un proprio vassallo, al pari dei mongoli, mentre lui intendeva essere il sovrano di un regno indipendente.
Il Dalai Lama divenne presto il centro della vita sia politica, svolgendo le funzioni tipiche di un sovrano e di un capo di governo, che religiosa, pur non essendo la massima autorità di nessuna delle quattro scuole buddhiste tibetane, nemmeno quella dei Gelug, che riconoscono tuttora come propria guida il Ganden Tripa, «Detentore del Trono di Ganden» in tibetano, un lama scelto tramite elezione tra gli abati dei loro più autorevoli monasteri. In entrambi i casi, agiva e prendeva decisioni tenendo conto di premonizioni, oracoli e segni divini. Volendo consolidare la propria autorità, pur promuovendo con vigore e convinzione la scuola Gelug a cui apparteneva, favorendone la posizione con diritti e privilegi che nessun’ altra scuola ottenne mai, si aprì convenientemente alle altre tre scuole buddhiste, soprattutto la Nyingma, accettando di ricevere iniziazioni e insegnamenti, trasmettendone poi a sua volta: la popolazione di tutto il Tibet, indipendentemente dall’ orientamento dottrinario, prese gradualmente a vederlo come il supremo protettore spirituale. Tuttavia, all’ ala più conservatrice dei Gelug l’ impegno politico e tale apertura alle altre dottrine non piacquero affatto, ragion per cui diede vita ad una resistenza a cui prese parte Tulku Dragpa Gyaltsen, coreggente del Monastero di Drepung insieme al Dalai Lama, convinto a sua volta che le faccende terrene e le aperture dottrinali avrebbero inevitabilmente contaminato la pura dottrina di lama Tzong Khapa.
Il Dalai Lama e Nehru a Mussoorie;

Con la morte del V Dalai Lama, avvenuta nel 1682 e tenuta segreta per i successivi quindici anni per sua espressa volontà affinché il Reggente, che ricorse ad un monaco che somigliava molto al lama-sovrano, potesse consolidarne l’ operato politico e portare a termine i grandiosi lavori di costruzione del Potala, terminato nel 1693, l’ istituzione del Dalai Lama si indebolì, dapprima a causa della condotta libertina e ribelle del suo immediato successore, il famoso VI Dalai Lama che rinunciò ai voti monastici per dedicarsi alla poesia e alle donne, pur senza perdere mai la devozione del suo popolo, convinto che le strade scelte da un Buddha vivente non sempre fossero comprensibili alle persone comuni. Con la morte del VII Dalai Lama, che non partecipò mai alla gestione degli affari politici, lasciando la piena gestione del potere temporale ad un Reggente laico, investito del potere dai cinesi, la figura dei Dalai Lama entrò definitivamente in declino, in quanto le successive incarnazioni, dall’ ottava alla dodicesima, morirono in giovane età e in circostanze sospette, dopo essere vissuti manovrati dai Reggenti, molti dei quali filocinesi, che li relegavano in una condizione puramente simbolica, e che forse li uccisero. Solo il XIII Dalai Lama, nato nel 1876, poté vivere abbastanza a lungo, morendo all’ età di cinquantasette anni, denotando forza di carattere e autonomia di pensiero intraprendendo una politica di modernizzazione e riforma atta a fare del Tibet una nazione più odierna, munita di agi e servizi resi possibili dalle innovazioni dell’ Occidente, soprattutto l’ elettricità, il telefono e l’ automobile, e politicamente più efficace, riducendo il vastissimo potere dei monaci-funzionari in favore della nobiltà pur mantenendo il Paese in un contesto teocratico, e alleggerendo lo strapotere che i governanti vantavano sulla popolazione senza però introdurre un sistema propriamente democratico, per il semplice motivo che il «Grande Tredicesimo» non conosceva il concetto di democrazia. Buona parte delle sue iniziative vennero contrastate o addirittura ignorate dalla maggioranza dei suoi dignitari sia politici che religiosi, desiderosi di conservare l’ autorità e i privilegi che il sistema tradizionale concedeva loro, facendo rimanere il Tibet una nazione feudale, in cui nonostante i dettami di saggezza e compassione insegnati dal Buddha Śākyamuni erano in vigore una rigida divisione tra classi sociali, la servitù della gleba e la schiavitù, nonché le punizioni corporali, soprattutto fustigazione e mutilazioni, che in mancanza ufficiale della pena di morte risultavano spesso letali. In questo particolare sistema non solo i nobili, ma anche i lama spesso godevano di immense ricchezze, comportandosi spesso da padroni arbitrari e ingiusti, beneficiando coscientemente delle prerogative che la propria posizione comportava, mantenendo le distanze con il popolo e ignorando i più bisognosi, salendo la gerarchia grazie ad amicizie e scambi di favori più che per meriti personali. Perfino molte reincarnazioni venivano scelte all’ interno di determinate famiglie privilegiate, che avevano influenti legami o che beneficiavano generosamente i monasteri, traendo ulteriore prestigio per aver dato i natali ad un nuovo lama. Alla corte di diversi Dalai Lama trovarono spazio moltissimi impiegati corrotti e monaci infidi, intenti a favorire i propri interessi personali a scapito delle reali necessità della gente, e di cui spesso gli stessi Dalai Lama subivano l’ influenza. Vari lama furono individui ambiziosi e avidi coinvolti in faccende mondane e spesso poco limpide, che imponevano il proprio volere ricorrendo ai Dob Dob, i celebri monaci soldato armati di manganelli e fruste che componevano la polizia religiosa del Tibet, ricordati come persone brutali e arroganti, fortemente rissose e temute per l’ atteggiamento provocatorio e perennemente assetato di zuffe, che tuttavia non vennero mai condannati dal popolo, da cui anzi erano stimati per gli aiuti ai bisognosi.
Il Dalai Lama in atteggiamento suggestivamente affabile;

Il XIV e attuale Dalai Lama, Jetsun Jampel Ngagwang Losang Yeshe Tenzin Gyatso, ovvero «Sacro Signore, Gloria gentile, Eloquente, Compassionevole, Difensore della fede», nato nel 1935 e riconosciuto come reincarnazione del Grande Tredicesimo ad appena due anni, si ritrovò a capo del Tibet nel periodo più tragico e penoso della sua storia. Mentre veniva condotto a Lhasa nel 1939, ove venne consacrato come monaco novizio e insediato come nuovo Dalai Lama, avviando un anno dopo l’ educazione religiosa tra le mura del Potala, in completo isolamento dal resto del mondo esterno, avendo contatti solo con i precettori, gli abati dei più grandi monasteri della capitale e la servitù, la vicina Cina precipitava nei conflitti interni tra i nazionalisti del partito del Kuomintang e i militanti del Partito Comunista Cinese, mentre sulla scena internazionale era alle prese con i giapponesi, che nel nordest avevano montato uno Stato fantoccio, il Manciukuò. Nel 1949, Mao Tse-tung e i comunisti presero il potere su tutta la Cina, proclamando la nascita della Repubblica Popolare Cinese: appena un anno dopo il governo di Pechino decretò l’ occupazione del Tibet, sostenendo ufficialmente che per secoli era stato una regione occidentale della Cina finché gli imperialisti angloamericani lo avevano sottratto a tradimento insediandovi un oppressivo regime feudale con a capo il Dalai Lama.
Tra il 1950 e il 1959, l’ Esercito Popolare di Liberazione occupò gradualmente il Regno delle Montagne, trasformandolo in una regione della Cina, favorendo in seguito abbondanti migrazioni di cittadini cinesi. L’ esercito tibetano era composto da settemila soldati, tra tibetani e volontari nepalesi e bhutanesi, primitivamente armati ed equipaggiati, che prevedibilmente non seppero contenere un’ armata di circa quarantacinquemila soldati che compirono ripetutamente violenze e abusi contro la popolazione, spogliando aristocratici, religiosi e gente più modesta delle loro proprietà per ridistribuirle alla collettività secondo i principi comunisti, eseguendo arresti e uccisioni contro chiunque protestasse o semplicemente manifestasse il proprio dissenso contro l’ invasione e il drastico cambio di sistema, giustificato dalla propaganda come una «riunificazione pacifica alla madrepatria», piuttosto che come una «liberazione da un regime oppressivo fomentato dagli imperialisti stranieri». Contrariamente a quanto si pensa, buona parte del pacifico ma orgoglioso popolo tibetano non accettò passivamente l’ occupazione straniera, ma vi rispose imbracciando le armi in quanto non si sentiva per nulla parte della Cina. Per oltre vent’ anni, sul Tetto del Mondo si combatté una sanguinosa resistenza che rese difficile a Pechino l’ occupazione. I partigiani tibetani si organizzarono in piccoli gruppi, soprattutto nelle campagne e nelle zone montane, effettuando con alterne fortune vari attacchi contro i presidi cinesi più isolati. Nel 1950, appena quindicenne, il XIV Dalai Lama venne sospinto ad assumere i pieni poteri politici sollevando il Reggente dall’ incarico, contrariamente alla consuetudine rispettata dai predecessori, che avevano assunto il potere una volta maggiorenni. Il nuovo lama-sovrano e il suo governo rivolsero appelli ai governi dell’ India, del Nepal, degli Stati Uniti, della Gran Bretagna e della Cina, nonché all’ Organizzazione delle Nazioni Unite: l’ India, appena divenuta indipendente dall’ Impero britannico e retta dal Primo ministro Jawaharlal Nehru, erede del Mahatma Gandhi, rispose di non potersi schierare per ragioni diplomatiche contro la Cina, con cui aveva già rapporti delicati; il Nepal fece altrettanto, come la Gran Bretagna; le Nazioni Unite non prestarono particolare attenzione alla situazione in Tibet, in quanto il mondo temeva una guerra atomica con Unione Sovietica e Corea come epicentro, e il solo Stato membro a lanciare un appello fu El Salvador.
Il solo aiuto venne dagli Stati Uniti, che dopo aver formalmente dichiarato la propria neutralità nel timore di aggravare i rapporti con l’ Unione Sovietica, incaricarono la Central Intelligence Agency, meglio nota come CIA, di andare in aiuto del Tibet contro la Cina comunista.
Il Dalai Lama, seduto al centro, tra i partigiani tibetani;

Riverito come sovrano divino, in una posizione analoga a quella dei faraoni nell’ antico Egitto, il giovane e ancora inesperto Dalai Lama era costantemente affiancato e consigliato dai membri del Kashag e da un alto consiglio di nobili e abati anziani, i quali lo informavano costantemente sulla situazione e rispettavano la sua indole risoluta, nonché la sua curiosità e intelligenza, e che in quei giorni lo informarono del piano di aiuti previsto da Washington: ossia il finanziamento, l’ addestramento alla guerriglia e l’ equipaggiamento occulti della ribellione tibetana contro la Cina. All’ indomani della Seconda Guerra Mondiale, infatti, di fronte alle minacce ai loro alleati democratici e senza alcun meccanismo per incanalare l’ assistenza politica, i governanti statunitensi ricorrevano a mezzi segreti, mandando nascostamente consiglieri, attrezzature e fondi per sostenere la lotta al comunismo, anche a soggetti quali giornali e partiti sotto assedio. Tali passaggi avvenivano soprattutto attraverso il National Endowment for Democracy e altri canali più sicuri e meno visibili rispetto alla CIA.
I primi contatti tra il governo tibetano e gli agenti della CIA ebbero luogo nel 1951, a un anno dalle prime aggressioni cinesi, attraverso l’ ambasciata statunitense a Nuova Delhi e il consolato a Calcutta: il Pentagono assicurò al Dalai Lama in persona armi leggere e aiuti finanziari al movimento di resistenza. Nell’ estate 1956, fu lanciata l’ operazione «ST Circus», che in codice stava per «Circo Tibet», atta ad assicurare l’ autonomia del Tibet e a impedire la nascita di simpatie per il comunismo tra la popolazione. I servizi segreti statunitensi si impegnarono a rifornire i tibetani di tonnellate di armi e costanti cifre di denaro, versando annualmente centottantamila dollari come aiuti finanziari al Dalai Lama, i cui due fratelli maggiori, Thubten Jigme Norbu, riconosciuto come XXIV Taktser Rinpoche, e Gyalo Thondup, erano in contatto diretto con la CIA: il primo raccoglieva fondi e dirigeva la propaganda, l’ altro organizzava la resistenza materiale e faceva da interprete tra gli agenti segreti e i guerriglieri tibetani. Gli istruttori dell’ agenzia statunitense prelevarono per anni i partigiani tibetani e li mandarono in un campo situato dapprima sulle isole dei mari meridionali, e in seguito in uno sulle Montagne Rocciose del Colorado, in una zona a tremila metri di altezza e coperta di neve, molto simile alla loro patria, ove li addestrarono alla guerriglia e all’ uso delle armi moderne da usare contro il nemico comune, trasformando quei miliziani appartenenti ad un esercito preistorico e disorganizzato ad affrontare la guerra moderna sparando, minando, usando la radio e costruendo bombe.
Quando nel 1957 i primi battaglioni furono pronti, un bombardiere B-17 senza segni di riconoscimento, guidato da un pilota polacco e con un tecnico ceco lanciò con il paracadute i combattenti sul Tibet: si trattava in tutto di ottantacinquemila combattenti fanatici che portavano al collo un amuleto con l’ immagine del Dalai Lama e una capsula di cianuro con cui suicidarsi nel caso in cui fossero stati catturati dai cinesi. Una volta stabilito un contatto con le altre formazioni partigiane, concordarono una strategia comune, e insieme riportarono le prime grandi vittorie. Se i soldati cinesi si rendevano colpevoli di atti eccessivi e brutali, i guerriglieri tibetani non furono certamente da meno, come confermato da un veterano: «Uccidevamo volentieri quanti più cinesi possibile, e a differenza di quando macellavamo bestie per cibarci, non ci veniva di dire preghiere per la loro morte.». Soddisfatta dai primi successi, la CIA decise di continuare ad addestrare la guerriglia e a sostenerla, rivolgendo la propria attenzione anche ai gruppi ribelli cinesi di religione musulmana, oltre il confine.
Il Dalai Lama e Barack Obama;

Ma la situazione tibetana prese presto a degenerare. La ribellione e la guerriglia si facevano sempre più intense, e Mao Tse-tung decise di ripulire il Paese dagli ultimi retaggi della cultura tradizionale e della religione buddhista, anche a costo di imprigionare il Dalai Lama, al quale era stato concesso di continuare a esercitare il proprio ruolo di guida spirituale, sebbene questo fosse stato relegato a funzioni più onorifiche e simboliche che sostanziali. I soprusi e le violenze nei confronti della popolazione nel contesto dell’ imposizione del modello maoista sulla società tibetana aumentò vertiginosamente, tanto che il 10 marzo 1959, il movimento di resistenza tibetano scatenò una grande sollevazione a Lhasa, che fu duramente repressa dall’ Esercito Popolare di Liberazione, in un massacro che mieté centinaia di vittime, tra uomini, donne e bambini, sia nelle strade della capitale che in altri luoghi. Il successivo 17 marzo una squadra partigiana, penetrata nottetempo a Lhasa, riuscì a far fuggire il Dalai Lama e un gruppo di suoi alti dignitari verso il sud del Paese, controllato in buona parte dal movimento di resistenza. Due settimane dopo, scortato da una pattuglia di guerriglieri addestrati dalla CIA, con cui erano in costante collegamento radio, il giovane lama-sovrano arrivò in India, ove venne accolto dal governo come rifugiato politico. Venuti a sapere della fuga, i cinesi si vendicarono sulla popolazione civile: nella sola Lhasa massacrarono almeno tremilacinquecento persone, arrestandone molte altre.
L’ appoggio diretto della CIA proseguì fino al 1965, nonostante le difficoltà iniziali legate al fatto che un aereo spia statunitense U-2 fosse stato abbattuto in spazio aereo sovietico il 1 maggio 1960, inducendo Washington a sospendere momentaneamente qualsiasi operazione di appoggio ai guerriglieri anticomunisti, mentre in Tibet l’ esercito cinese aveva individuato tramite alcune spie determinate basi partigiane, ammassando lungo i confini numerosi reparti che tennero imboscate e respinsero con relativa facilità le forze ribelli che, volendo penetrare dal Nepal, si ritrovarono ad affrontare mesi terribili di abbandono, isolamento e fame.
Frattanto, Nuova Delhi e Katmandu espressero in maniera sempre più forte la propria ostilità nei confronti della guerriglia, mentre la CIA subiva pesanti attacchi dagli oppositori in patria, e svariati uomini d’ affari si dimostravano interessati a riaprire rapporti economici con i cinesi. L’ ambasciatore statunitense un India, John Kenneth Galbraith, arrivò addirittura a definire le operazioni a supporto dei patrioti tibetani «un’ insana impresa». Messi alle strette, i servizi segreti posero fine al proprio piano, effettuando nel maggio 1965 l’ ultima operazione di aviolancio di armi e rifornimenti ai partigiani del Tibet meridionale, ridotti allo stremo e praticamente circondati dalle superiori forze cinesi.
L’ amicizia con Richard Geere;

Il Dalai Lama implicato nella lotta armata contro la Cina rappresenta di fatto una grossa sorpresa, un argomento che solo di recente è stato dibattuto con toni sommessi, generando un clima di sdegno incoraggiato prevalentemente dai suoi oppositori, non soltanto cinesi. E’ assolutamente comprensibile che come sovrano e patriota abbia accettato l’ aiuto della CIA per difendere il proprio Paese dall’ aggressione straniera, peraltro colpevole di svariati soprusi e violenze, ma l’ errore compiuto da lui e dagli ambienti che lo circondano è stato senz’ altro l’ omissione di questo importante dettaglio al pubblico. Solo in anni recenti, a seguito di continue indiscrezioni e precise domande in proposito, il Dalai Lama ha riconosciuto l’ aiuto ricevuto dalla resistenza, senza tuttavia ammettere il proprio personale coinvolgimento: anzi, ha addirittura risposto con una nota piccata che gli Stati Uniti erano intervenuti, per altro di nascosto, soltanto per usare strategicamente il Tibet contro la Cina, allora nemico di entrambi.
Per un monaco buddhista, la violenza rappresenta certamente un male da evitare, è contraria ai suoi voti di nonviolenza, ma il Dalai Lama ha spesso affermato che diventa accettabile soltanto come ultima risorsa, quando tutte le altre soluzioni hanno fallito, e se viene usata nell’ interesse del maggior numero possibile di persone da una grave minaccia. Talvolta le esigenze strategiche del sovrano urtano con quelle morali del monaco, senz’ altro, ma di fatto la censura di buona parte delle informazioni relative al supporto della CIA alla rivolta tibetana con la previa approvazione del governo capeggiato dal Dalai Lama rappresenta un’ abile scelta pubblicitaria, il primo atto di un’ operazione atta a costruire un personaggio legato indissolubilmente a specifici valori morali in modo tale da riscuotere consenso in tutto il mondo. Omettendo su determinati dettagli, peraltro senza necessariamente mentire, si è potuto presentare in scena una guida spirituale candida e senza macchia, eppure, come è risaputo, prima o poi le notizie finiscono per emergere, ponendo seri dubbi di credibilità.
Il Dalai Lama passa in rassegna i tibetani nell’ esercito indiano;

Occorre tuttavia tener conto che il Dalai Lama e il suo governo ricevettero aiuti non soltanto sul fronte interno, ma anche sul piano internazionale. Dopo essersi stabilito in India, dapprima a Mussoorie e poi a Dharamsala, ricevendo un grande supporto da parte del governo di Nehru, il Dalai Lama continuò a ricevere aiuti da parte degli Stati Uniti, che intendevano fare di lui un simbolo della lotta contro il comunismo: tra il 1959 e il 1972, oltre ai centottantamila dollari ricevuti personalmente dalla CIA, cosa che ha negato fino al 1980, ha ricevuto un milione e settecentomila dollari annui per l’ attuazione della propria rete internazionale, tramite la dotazione del NED, organizzazione non governativa statunitense il cui bilancio è nutrito dal Congresso.
A partire dal 1967 intraprese una serie di viaggi in giro per il mondo, quando si recò per la prima volta in Giappone e Thailandia, cogliendo l’ occasione per porsi in evidenza, mentre nel 1973 compì il suo primo itinerario in Europa, tra Italia, Svizzera, Olanda, Belgio, Irlanda, Norvegia, Svezia, Danimarca, Gran Bretagna, Germania Ovest e Austria, incontrando per la prima volta l’ Occidente, in cui da qualche tempo si stavano aprendo molti centri di Buddhismo tibetano, legati a tutte e quattro le scuole, soprattutto la Gelug, che ancora una volta confermò la propria supremazia, da vari discepoli di lama che avevano avuto un certo seguito tra gli occidentali, soprattutto gli hippie, che dopo un periodo trascorso in India o nei Paesi circostanti ove il Buddhismo tibetano si era imposto nei secoli erano tornati in patria conservando un certo legame con i vecchi maestri, che dietro loro invito si trasferirono gradualmente nel Vecchio Continente, oltre che negli Stati Uniti e in Oceania: sebbene nessun governo occidentale riconosca più il Dalai Lama come autorità politica, intrattenendo per contro legami diplomatici e commerciali sempre più importanti con la Cina, che aumentava la propria importanza sulla scena internazionale, la diffusione del Buddhismo tibetano in Occidente, la creazione di istituzioni religiose e umanitarie di supporto alla causa del Tibet, nonché le visite del Dalai Lama nei vari centri contribuirono moltissimo a combattere la dittatura cinese e il comunismo in generale. Il Dalai Lama in particolare scelse coscientemente di assumere l’ immagine di un personaggio costantemente affabile e socievole, sorridente e spiritoso, sempre aperto alla modernità e alle altre tradizioni religiose, culturali e scientifiche nonché a coniugare le antiche tradizioni del suo popolo con l’ innovazione del mondo moderno, guadagnandosi generali consensi.
Gli aiuti statunitensi alla causa tibetana e del Dalai Lama cessarono d’ un tratto nel 1972, con la storica visita in Cina del Presidente Richard Nixon, preparata grazie agli incontri segreti di Henry Kissinger effettuati tra il 9 e l’ 11 luglio del 1971, e che portò alla distensione e al miglioramento dei rapporti tra Stati Uniti e Cina: l’ indipendenza del Tibet venne sacrificata sull’ altare delle ambizioni politiche, diplomatiche e commerciali delle due potenze, che isolarono l’ Unione Sovietica. Il Dalai Lama vide sfumare d’ un tratto il proprio ruolo di simbolo anticomunista tanto caro all’ alleato statunitense, che lo abbandonò al suo destino, per non parlare dei molti guerriglieri tibetani che, rimasti sconvolti da questo clamoroso voltafaccia, si spararono in bocca o si tagliarono la gola o le vene piuttosto che cadere in mano al Guabuo, la Gestapo cinese, e di coloro che invece sfuggirono in India per arruolarsi nei corpi speciali indiani, con la benedizione dello stesso Dalai Lama, fotografato mentre passava in rassegna un loro reparto.
Dorje Shugden;

Ma il ruolo politico del Dalai Lama era tutt’ altro che esaurito, dovendosi concentrare insieme ai suoi funzionari politici e religiosi sulle costanti e particolari esigenze delle migliaia di profughi che ogni anno sfidavano le autorità cinesi e i monti per trovare asilo politico in India, Nepal e Bhutan, sottraendosi ad un regime sempre più ferreo e brutale, che tra il 1966 e il 1976 sfociò nella barbara follia della famigerata Grande rivoluzione culturale. Dopo il suo predecessore, egli era di fatto il primo Dalai Lama a godere di una vita lunga e ad esercitare attivamente il proprio ruolo politico, ma la sua istituzione era ancora lontana dal godere di una soluzione adeguata, o della minima saldezza e stabilità, senza tener conto di ciò che rappresentava la vita in esilio. Dopo aver istituito un governo in esilio con sede a Dharamsala, nonché una serie di istituzioni culturali e umanitarie con cui preservare la civiltà e la religione del Tibet all’ estero, i tibetani avevano più che mai bisogno di una guida dietro a cui schierarsi andando oltre le vecchie divisioni politiche, sociali e addirittura religiose che un tempo li avevano divisi con forza e tanto a lungo. Ebbero quindi luogo alcune importanti aperture e concessioni, che permisero non solo ai Gelug, che incarnavano tuttora il centro del potere, ma anche alle altre scuole di emergere per mezzo dei propri più importanti maestri e la diffusione dei relativi insegnamenti, nonché tramite la diffusione di testi che prima venivano tenuti segreti. Di fronte a tanta liberalità, i tradizionalisti Gelug risposero promuovendo il predominio dell’ istituzione dello stesso Dalai Lama, promotore di una politica non settaria e una certa libertà di pensiero, sugli affari tibetani e in un certo modo sulle altre scuole. Egli stesso seguì la via già intrapresa dal Grande Quinto e dal Grande Tredicesimo, aprendosi molto alle pratiche e agli insegnamenti Nyingma, stringendo poi legami importanti con i maestri Kagyu e Sakya. A tal proposito si sostiene gli venne esplicitamente richiesto dalle massime guide di tutte le scuole di abbandonare il culto di Dorje Shugden, una controversia entità spirituale di cui il suo precettore più giovane, Trijang Rinpoche, era stato un grande praticante e diffusore analogamente al proprio insegnante, Pabongka Rinpoche, uno dei più influenti maestri Gelug di fine Ottocento e inizio Novecento: oggetto di un culto sorto durante il Seicento, e ritenuto reincarnazione di Tulku Dragpa Gyaltsen, l’ influente lama reincarnato contemporaneo del V Dalai Lama e morto in circostanze sospette, forse per malattia oppure assassinato, dopo aver manifestato la propria opposizione all’ idea che i Gelug si occupassero di politica e praticassero anche gli insegnamenti delle altre scuole, Dorje Shugden viene considerato dai praticanti un dharmapāla, ossia uno spirito illuminato che avrebbe assunto il ruolo di protettore della scuola Gelug, custode della dottrina più pura ed efficace, intento a favorire anche a livello temporale tutti quei praticanti dediti alla sola dottrina di Atiśa e lama Tzong Khapa, senza mai mischiarla con quella delle altre scuole. In passato, i seguaci più fanatici di questo culto costituirono l’ ala più rigida dell’ ortodossia Gelug, di cui incarnavano la pratica più rigorosa e chiusa, meno ligia ai cambiamenti, e furono spesso protagonisti di iniziative settarie sfociate in azioni persecutorie e violente nei confronti delle altre scuole, soprattutto la Nyingma, ritenuta erede di determinate dottrine buddhiste cinesi e addirittura induiste, pericolosamente lontane dall’ ortodossia e quindi pericolose per il tradizionale ordine delle cose.
Nel 1975 il Dalai Lama, lui stesso praticante da ben venticinque anni, affermò pubblicamente di aver personalmente interrotto la pratica di tale entità spirituale, ufficialmente a seguito di frequenti sogni infausti, presto supportati da presagi inquietanti, premonizioni e profezie che anticipavano gravi sciagure, definendola uno spirito demoniaco e nocivo, sorto per effetto di preghiere e invocazioni distorte e capace di distruggere gli insegnamenti buddhisti e di danneggiare gli esseri senzienti. Aggiunse peraltro che la sua pratica era degenerata al punto da assumere la connotazione di un vero e proprio culto con marcate caratteristiche settarie, consigliando ai praticanti di interromperla e richiedendo a coloro che invece volessero continuarla di non partecipare ai suoi insegnamenti, iniziazioni e conferimenti di voti, non volendo metterebbe in pericolo sia il maestro che i suoi studenti a causa di una relazione perturbata.
Da allora, il governo tibetano in esilio ordinò la rimozione delle immagini di Dorje Shugden dai monasteri e dai templi. Ai monaci e ai funzionari del governo fu richiesto di sottoscrivere un atto di abiura: da quel momento iniziò una grave divisione nella comunità tibetana, con i devoti al Dalai Lama e i seguaci del culto della controversa entità coinvolti in violenti scontri e scambi di accuse, pestaggi, incendi di case ed emarginazione. La protesta dei lama, monaci e discepoli Gelug rimasti legati al culto si levò prontamente, e negli anni culminò con le accuse rivolte al Dalai Lama di sopprimere la libertà religiosa. Le loro abitazioni vennero conseguentemente perquisite, forse dai loro avversari religiosi, e alcuni di loro furono assaliti, mentre le immagini e gli altari di Dorje Shugden subirono atti di distruzione. In risposta, i seguaci accusarono il Dalai Lama di sopprimere la libertà di religione, e sia all’ interno della Regione Autonoma Cinese che all’ estero si avvicinarono alle autorità cinesi, ricevendo numerosi sostegni economici e agevolazioni politiche.
Il  4 febbraio 1997, ghesce Lobsang Gyatso, un rispettato ed eminente lama amico del Dalai Lama e fiero oppositore del culto di Shugden, direttore dell’ Istituto di Dialettica, venne brutalmente assassinato insieme ai sue due attendenti tra le mura del suo alloggio, ad appena poche centinaia di metri dalla residenza del Dalai Lama. Il suo assassinio scosse profondamente la comunità tibetana in esilio, e inasprì la controversia riguardante Dorje Shugden. Soprattutto, come sostenuto dalla polizia indiana e dall’ Interpol, pare che nella vicenda fossero coinvolti anche agenti segreti infiltrati, con l’ intenzione di seminare discordia tra la gente vicina al Dalai Lama.
Dalai Lama e lama Ösel a Nuova Delhi nel 1986;

Sebbene la CIA avesse interrotto dal giorno alla notte il proprio intervento a beneficio del governo del Dalai Lama in nome di Tibet autonomo e anticomunista, l’ immagine di paladino dei diritti umani impegnato nella lotta nonviolenta contro un regime oppressivo che il Dalai Lama incarnava piaceva molto al pubblico occidentale, e i centri buddhisti tibetani che spuntavano uno per uno in giro per il mondo si rivelarono una preziosa opportunità. Finanziati in parte dal governo tibetano, a sua volta beneficiario del contributo statunitense e indiano, nonché dai numerosi discepoli occidentali, essi diffusero ad alto livello il Buddhismo in una vera e propria opera missionaria, gettando peraltro le basi di aiuti umanitari e filantropici con cui beneficiare i tibetani sia in Tibet che in esilio, tra donazioni per gli insediamenti e adozioni a distanza. Di fatto, la scuola tibetana è oggi la forma più conosciuta di Buddhismo in Occidente, mentre le altre, come il Buddhismo Theravāda, considerato molto più vicino all’ insegnamento predicato dal Buddha, avendo più di tutti evitato ogni innovazione teorica, nonché buona parte delle scuole cinesi, giapponesi e coreane, ancora oggi sono soggette ad una diffusione piuttosto lenta e difficile, ben poco reclamizzata.
La Fondazione per la Preservazione della Tradizione Mahayana, fondata nel 1975 da lama Yeshe e dal suo discepolo lama Zopa, maestri Gelug che avevano un largo seguito di discepoli occidentali, è da sempre la principale istituzione impegnata a coordinare e valorizzare le attività dei centri occidentali, nonché la pubblicazione di libri a tema e la commercializzazione dell’ artigianato religioso. Il Dalai Lama sostiene da sempre di essere un semplice monaco e di non aver mai voluto fare proseliti in alcun modo: «Noi crediamo che, finché qualcuno non ci chiede di spiegare il Buddismo, non dobbiamo farlo. Io non voglio convertire la gente al Buddhismo, perché tutte le grandi religioni, se interpretate correttamente, hanno lo stesso potenziale di bene. Peraltro, ognuna ha i suoi specifici dogmi e concetti, quindi cambiare fede non è facile, crea difficoltà nella mente. Ho notato come, dopo aver cambiato fede, arrivi una grande confusione mentale.». Eppure, non si può negare l’ utilità che la diffusione del Buddhismo tibetano in Occidente abbia tuttora per la causa tibetana, soprattutto tenendo conto del gran numero di conversioni e addirittura ordinazioni monastiche tra gli occidentali. L’ incontro tra il Tibet e l’ Occidente fu come una collisione in volo fra due gruppi dai contrastanti desideri: il primo era in fuga dal comunismo cinese, l’ altro dalla crisi dei valori tradizionali, dalla Guerra fredda, dal militarismo e dal capitalismo. Nessuna delle due parti comprendeva appieno i bisogni dell’ altra: i tibetani chiedevano aiuto per sopravvivere in esilio in un mondo alieno ed ostile, mentre gli occidentali speravano che le sublimi intuizioni del Buddhismo risolvessero le loro crescenti ansie esistenziali. A tale proposito occorre notare che questa nuova religione è molto amata dall’ ateismo occidentale e da molti laici: vari centri sono frequentati da fieri oppositori alla Chiesa cattolica, se non all’ intero Cristianesimo, in cui vedono lotte di potere e avidità di ricchezza. Negli anni, peraltro, il fenomeno dei lama reincarnati assunse un notevole valore strategico, essendo un tema di grande fascino in Occidente, già alla base di una certa produzione letteratura e cinematografica, come confermato dal celebre film «Il bambino d’ oro», del 1986, con Eddie Murphy. Alcuni monaci occidentali sono stati addirittura riconosciuti come lama reincarnati, suggestionando particolarmente l’ immaginario collettivo occidentale, come avvenuto dal caso emblematico di Tenzin Ösel Hita Torres, meglio noto come lama Ösel, ossia «Chiara Luce» in tibetano, uno spagnolo nato nel 1985 i cui genitori erano stati discepoli di lama Yeshe, del quale ad appena un anno e due mesi venne riconosciuto come la reincarnazione. Il suo riconoscimento, confermato dagli oracoli più importanti e persino dal Dalai Lama, che si era personalmente interessato al caso, destò molta sensazione in Europa. Salutato come un’ opportunità unica nel suo genere per l’ avvicinamento tra Tibet e Occidente, come un’ avanguardia di immenso valore, venne immediatamente portato all’ importante Monastero di Sera, riedificato in India dai tibetani, dove venne sottoposto alle antiche e immutate regole monastiche tibetane, nonché ad una rigidissima educazione accompagnata da forti attenzioni e pressioni data l’ unicità della sua situazione. Appena diciottenne, il reincarnato spagnolo abbandonò la vita monastica, per lui sempre più intollerabile, e in svariate interviste espose ricordi drammatici: «Ho fatto rientro in Spagna perché sono arrivato al punto di non sentirmi più adatto per una tale vita. Non potevo trovare me stesso perché per me era una bugia stare là per vivere qualcosa che era imposto dal di fuori. Mi hanno tolto alla mia famiglia, mi hanno gettato in un mondo medievale dove ho sofferto come un cane.». La madre di Ösel, Maria Torres Crespo, che dopo il divorzio aveva intrapreso una lunga battaglia contro i monaci per riavere il figlio, disse più volte che essi stavano modellando una specie di mostro: «Non m’ interessa che sia un lama importante, ha ancora bisogno di sua madre! Lo viziano a dismisura, lo trasformano in un piccolo tiranno, invece che in un piccolo Buddha. Ero attratta dal Buddhismo per la sua tolleranza. Ma adesso sto scoprendo che questi monaci non sono per nulla tolleranti. Il ragazzo deve conoscere il suo Paese, la sua cultura.». Ösel visse in due mondi distinti, ormai dolorosamente in collisione, e dopo la rinuncia ai voti intraprese gli studi di cinematografia con il desiderio di fare il regista e produttore, pur senza recidere del tutto i legami con il Buddhismo tibetano e il Dalai Lama.
Le istituzioni religiose di cui fanno parte la Fondazione per la Preservazione della Tradizione Mahayana, ma non soltanto questa, contribuirono peraltro a diffondere un’ idea romantica ma poco veritiera del Tibet, spesso descritto come una nazione povera e arretrata sul piano materiale ma spiritualmente e culturalmente molto ricca, con una meravigliosa storia alle proprie spalle, abitato da saggi e profondi lama e da una popolazione felice, altruista e pacifica nonostante le forti ristrettezze e l’ ostilità dell’ ambiente. Una nazione che non necessitava forze di polizia perché il suo popolo osservava spontaneamente le leggi di causa ed effetto espresse nella dottrina del karma. Lo stesso Dalai Lama ha dato adito a tali immagini idealizzate sul Tibet, mediante affermazioni come: «La civiltà tibetana ha una ricca e lunga storia. L’ influenza persuasiva del Buddhismo e le asperità di una vita fra gli ampi spazi aperti di un ambiente incorrotto, ha avuto come risultato una società dedicata alla pace e all’ armonia. Provavamo diletto nella libertà e nella contentezza, nell’ essere paghi.». In realtà, nel Regno delle Montagne avevano luogo corruzione, scambi di favore, abusi di potere, soprusi, rigide divisioni tra classi sociali e schiavitù. Solo durante l’ esilio in India il Dalai Lama iniziò a parlare di democrazia, diritti umani, costituzione e libertà religiosa, concetti rimasti sconosciuti in Tibet e appresi solo di recente, durante gli scambi con l’ Occidente. La Repubblica Popolare Cinese è effettivamente un regime totalitario spesso biasimato a livello internazionale, essendo colpevole di oppressione e violazioni a danno prima si tutto dello stesso popolo cinese, detentore del più elevato numero di condanne a morte al mondo, con sentenza certa nel novantacinque percento dei casi. Oltre al Tibet, ha annesso al proprio territorio anche la Manciuria, la Mongolia Interna e il Turkestan orientale, ampi territori tramutati in regioni cinesi sfruttandone ampiamente le risorse strategiche. Tuttavia, neppure il Tibet fu mai un paradiso terrestre. Il monastero, spesso dotato di una prigione, era un centro di potere non solo religioso, ma anche politico e finanziario, in cui talvolta avvenivano abusi sessuali sui novizi da parte dei monaci anziani. La maggior parte della terra arabile era ancora organizzata attorno a proprietà religiose o feudali lavorate da servi della gleba, eccessivamente tassati e, mentre molte donne erano costrette a subire i capricci dei padroni e dei loro figli maggiori. Lama e monaci, molti dei quali opportunamente coinvolti in faccende mondane, riuscirono ad accumulare individualmente notevoli ricchezze tramite la partecipazione attiva negli affari, nel commercio e nell’ usura. Il Tibet era dotato di un esercito professionale, sebbene di piccole dimensioni, e una gendarmeria al servizio dei proprietari terrieri, con l’ incarico di mantenere l’ ordine e catturare i servi della gleba fuggitivi. La legge prevedeva la tortura e la mutilazione, comprese l’ asportazione di occhi e lingua, l’ azzoppamento e l’ amputazione di braccia e gambe: erano le punizioni principali inflitte ai ladri, ai servi fuggiaschi, e ad altri criminali. Dal Seicento fino al Settecento, le varie scuole erano impegnate in ostilità armate ed esecuzioni sommarie.
I mezzi di comunicazione occidentali, soprattutto giornali e case editrici, promossero invece romanzi, saggi e guide turistiche in cui si dipinse il Paese come una sorta di Shangri-La, retto da santi e beati, mentre Richard Gere parlava del Dalai Lama definendolo il più grande essere umano vivente.
Il Dalai Lama e lama Zopa, discepolo ed erede di lama Yeshe;

Quando i cinesi occuparono il Tibet rivendicandone la propria sovranità, in un primo tempo attuarono una politica moderata, in una chiara strategia persuasiva atta a convincere i tibetani dell’ efficacia e utilità del sistema comunista, permettendo ai vecchi sistemi monastico e feudali di continuare immutati, limitandosi a perseguire con esemplare durezza e severità coloro che condannavano pubblicamente come reazionari e sostenitori dell’ imperialismo. In seguito, pretesero più apertamente il controllo militare e il diritto esclusivo di gestire le relazioni estere, esigendo che Lhasa promuovesse le riforme sociali. Tra le prime riforme varate ci fu quella che riduceva i tassi d’ interesse da usuraio in caso di prestiti, e la costruzione di alcuni ospedali e strade. Mao Tse-tung desiderava la cooperazione del Dalai Lama nell’ abbandonare il sistema feudale dell’ economia tibetana in favore di quelli socialisti, ma quando le prime terre vennero espropriate a nobili e monaci per ridistribuirle le ostilità si aggravarono enormemente.
Tuttavia, occorre tenere presente che se il Tibet è stato santificato dalla propaganda, la Cina è stata invece demonizzata: agli aristocratici e ai monaci non infastidiva il fatto che gli intrusi fossero cinesi, con cui avevano già avuto a che fare nei secoli, ma comunisti, ossia gente che credeva in un sistema ostile alla religione, che avrebbe portato ad un sistema collettivista che avrebbe smantellato definitivamente la teocrazia con i suoi privilegi in nome della lotta di classe, fomentando i malumori delle classi più basse che ne avevano lungamente sopportato il peso. Pechino provocò senz’ altro migliaia di vittime innocenti durante le varie repressioni, oltre che arresti indiscriminati e persino esemplari, sparizioni, condanne a morte, detenzioni decennali e brutali nelle quali le torture e i maltrattamenti a danno dei prigionieri erano la norma, senza contare i thamzing, le famigerate sedute di accusa nelle piazze di comportamenti controrivoluzionari e ostili alla «madrepatria socialista». Negli anni favorì peraltro immensi flussi migratori di cittadini da varie regioni della Cina, favorendo le loro condizioni a scapito della popolazione tibetana. A Lhasa e nelle principali città la polizia è dappertutto, anche in incognito, mentre nei monasteri il programma di studi religiosi dei monaci, retti da funzionari cinesi, è stato impoverito in qualità, con l’ ordine di dedicare tempo allo studio dell’ ideologia comunista. I crimini e le semplici infrazioni contro i diritti umani perdurano, tanto che perfino una delegazione dell’ Organizzazione delle Nazioni Unite si è vista rifiutare dalle autorità cinesi l’ accesso al carcere dove erano rinchiusi e torturati alcuni lama e monaci. Eppure va ricordato che lo stesso governo cinese abolì la schiavitù ed il sistema di servi della gleba, le punizioni corporali e l’ utilizzo di prestazioni non pagate, per poi creare piani di lavoro, riducendo in gran parte la disoccupazione e la miseria. Realizzò i primi ospedali e un nuovo sistema educativo, rompendo il monopolio dei monasteri, costruì i sistemi d’ irrigazione per fini agricoli e portò l’ energia elettrica a Lhasa.
Una scena di «Sette anni in Tibet»;

La costruzione del mito del Tibet come una sorta di paradiso in terra e del Dalai Lama come guida unicamente spirituale, non coinvolta in alcun modo nella politica nonostante la veste di monarca assoluto, e mossa unicamente da elevati ideali ultraterreni trovò un valido contributo anche nel mondo cinematografico: molte celebrità di Hollywood, in particolare Richard Gere, Harrison Ford, Barbra Streisand, Steven Seagal, Goldie Hawn e Meg Ryan, hanno espresso pubblicamente il loro sostegno, e nel 1997 vennero prodotti due film sul lama-sovrano, ossia «Sette anni in Tibet», tratto dal libro autobiografico «Sette anni nel Tibet» dell’ alpinista ed esploratore austriaco Heinrich Harrer, e «Kundun», ispirato alla prima autobiografia dello stesso Dalai Lama, «La libertà nell’ esilio».
Entrambi i film presentano alcune inesattezze, e tendono a mostrare i tibetani completamente buoni e i cinesi completamente cattivi. In «Sette anni in Tibet», per esempio, i monaci tibetani vengono mostrati intenti a raccogliere delicatamente i vermi dalla terra durante la costruzione al Potala del cinema del Dalai Lama, in accordo con il voto buddhista di non recare danno ad alcun essere vivente, mentre durante la visita a Lhasa dei delegati cinesi alle controparti tibetane avviene la profanazione del maṇḍala di sabbia pronunciando la battuta secondo cui la religione è veleno: se la prima scena suscita ammirazione verso i tibetani, l’ altra provoca sdegno verso i cinesi, eppure l’ episodio dell’ oltraggio cinese venne rappresentato solo nel film, il libro infatti non lo cita, analogamente alle numerose storie scritte sull’ argomento. Appena uscito, il film ricevette pesanti condanne dal governo della Repubblica Popolare Cinese, secondo cui i militari cinesi vennero tendenziosamente rappresentati in comportamenti brutali contro la popolazione locale, mentre i tibetani, al contrario, furono rappresentati unicamente in modo positivo, con l’ eccezione di Ngawang Jigme, un giovane aristocratico usato dai cinesi per facilitare la propria presa di potere sul Tibet, e che storicamente fece una lunga carriera come membro del Partito Comunista Cinese, impegnandosi nell’ amministrazione del Tibet cinese, venendo definito traditore dagli indipendentisti della causa tibetana in esilio e troppo moderato dai cinesi, finendo con il divenire un simbolo della presenza cinese in Tibet, un mito negativo da contrapporre a quello positivo del Dalai Lama e della sua resistenza al potere cinese. In conseguenza di ciò, il regista Jean-Jacques Annaud e gli interpreti principali della pellicola, Brad Pitt e David Thewlis, vennero banditi per sempre dal territorio cinese.
In «Kundun», analogamente, molti eventi nel film non sono completamente fedeli agli eventi così come avvennero storicamente o come descritti nell’ autobiografia del Dalai Lama, omettendo alcuni personaggi come Heinrich Harrer e, soprattutto, il X Panchen Lama, seconda autorità religiosa dopo il Dalai Lama e abate del monastero di Tashilhunpo, approvato come nuova incarnazione sotto la regia dei funzionari e ufficiali cinesi che già erano stati vicini al precedente Panchen Lama, ma che il XIV Dalai Lama e il governo tibetano confermarono solo con i negoziati del 1951. Soggetto fin dall’ inizio all’ influenza della Cina, che ne regolò l’ educazione così da sfruttarne un giorno l’ autorità per fini politici, il Panchen Lama rimase in Tibet a differenza del Dalai Lama, e durante la Grande Rivoluzione Culturale cadde in disgrazia agli occhi dei cinesi, che lo incarcerarono e torturarono per lunghi anni come nemico dello Stato, avendo chiaramente denunciato la condotta cinese, morendo infine in circostanze sospette. Analogamente a Ngawang Jigme, divenne una figura piuttosto malvista dagli indipendentisti tibetani in quanto tibetano filocinese. Specialmente, il film ignora l’ iniziazione del giovane Dalai Lama al culto di Dorje Shugden, avvenuta nel 1950, in occasione del trasferimento della sua corte al Monastero di Dunkhar, al confine con l’ India, ove si praticava il culto dell’ entità spirituale, con tanto di consultazioni oracolari: rimasto soddisfatto dai responsi dell’ oracolo connesso a tale figura, il Dalai Lama decise di elevarlo a secondo oracolo di Stato, insieme a quello tradizionalmente consultato dal governo, ossia Nechung, connesso a Pehar, spirito sottomesso secondo la tradizione da Padmasambhava e adottato dal V Dalai Lama. Peraltro, persino la deposizione del Reggente, Reting Rinpoche, in favore di Taktra Rinpoche, viene privata di molti dettagli, in quanto l’ oracolo che suggerisce a Reting di ritirarsi per dedicarsi alla preghiera, facendo penitenza per non aver tenuto fede ad alcuni voti, è proprio quello di Dorje Shugden, scontento del fatto che praticasse il sesso tantrico e che indulgesse al piacere degli alcolici, in tono con le dottrine Nyingma. Taktra prende il suo posto come Reggente, ma non viene detto che storicamente esercitò il potere in modo dispotico e nepotistico, se non addirittura corrotto, e che anni dopo violò il patto iniziale con Reting, secondo cui gli avrebbe restituito la carica di Reggente una volta terminato il ritiro di purificazione. L’ ex Reggente tenta con una rivolta e un attentato, sostenuti entrambi dai monaci del Monastero di Sera, di riprendersi la carica, venendo infine arrestato, ma il film ignora il fatto che tale azione fu storicamente sostenuta dai cinesi, nel desiderio di avere un loro collaboratore in una posizione tanto importante. In questo film il Dalai Lama assume il potere a quindici anni, principalmente per l’ incombere della minaccia cinese, mentre in realtà oltre a questo vi furono molte proteste popolari che accusavano Taktra Rinpoche di molteplici e reiterati abusi, nonché di estrema rigidità.
In entrambi i film viene citato molto a malapena il tema dei tibetani filocinesi, collaborazionisti che hanno trovato vantaggi nella sottomissione a Pechino. Tra le classi più basse era molto diffuso un sentimento ostile a Lhasa, che criticavano per l’ eccessivo autoritarismo e la pressione tributaria, mentre nel Tibet orientale, la zona più prossima alla Cina, il fenomeno acquisiva proporzioni assai maggiori, in quanto il Panchen Lama e i suoi dignitari, che dal 1924 avevano rapporti difficili con il Dalai Lama e il suo governo per via di una questione di tasse e privilegi, tanto che il IX Panchen Lama lasciò il Tibet alla volta della Mongolia interna, ove si avvicinò ai cinesi. Il XIII Dalai Lama vietò ai lama e ai monaci a lui fedeli di ricoprire qualsiasi incarico al di fuori di Lhasa, ed essi aderirono ai concetti di «liberazione» cinese. Molti monaci e laici sostenevano apertamente l’ Esercito Popolare, simpatizzando con la Cina già dai tempi della Lunga marcia, la gigantesca ritirata militare intrapresa dall’ Armata Rossa Cinese avvenuta nel 1934 per ritirarsi dagli accerchiamenti da parte delle truppe del Kuomintang. Insieme alla totale mancanza di sostegno internazionale nella lotta dell’ indipendenza del Tibet, la presenza di un Tibet filocinese aiuta a spiegare la moderazione assunta negli ultimi decenni dal Dalai Lama, nonché la sua rinuncia ad ogni slogan indipendentista in favore dell’ autonomia interna e i suoi omaggi ripetuti ai benefici terreni assicurati dalla Cina: «Il mio Tibet è arretrato, siamo un grande paese ricco di risorse naturali ma del tutto sprovvisto di tecnologie o conoscenze per sfruttarle. Perciò se restiamo dentro la Cina potremmo ottenere benefici più grandi, a patto che rispetti la nostra cultura e il nostro ambiente naturale. La nuova ferrovia costruita dai cinesi, per esempio, è un’ ottima cosa, utile allo sviluppo, purché non la usino politicamente.». I tibetani filocinesi aiutano a capire il pragmatismo del Dalai Lama e a tingere una rappresentazione più realistica della situazione, anche a costo di deludere i sostenitori più romantici della causa tibetana in Occidente. Per i tibetani filocinesi gli antagonismi con i cinesi etnici non sono un grosso problema, avendo trovato un accettabile modus vivendi, e la cultura del Tibet non sarà mai dimenticata neppure da loro. Se si guardano i giovani ha l’ impressione che stia cambiando tutto, che loro siano diversi: quello che mangiano, come si vestono, nulla è come nelle generazioni meno recenti. Ma nel loro animo sono tuttora affezionati alle tradizioni, perfino al Buddhismo: può sembrare una contraddizione, ma alcune contraddizioni sono più antiche del dominio cinese. Visitando i monasteri, ad esempio, oltre alla forza della religione come base dell’ identità nazionale è impossibile non vedere l’ altra faccia del Buddhismo tibetano, quella più arcaica e retrograda: i contadini magri, affamati e analfabeti che investivano nei pellegrinaggi il raccolto di un anno o forse più, arricchendo l’ orlo traboccante dei forzieri dei lama; i templi tappezzati ovunque di banconote, sopra e sotto le statue, negli altari, date in elemosina alla sua casta sacerdotale. Nel vecchio Tibet i servi della gleba erano oppressi, e contro lo sfruttamento da parte dei religiosi il Maoismo ebbe un ruolo liberatorio, fino a quando non manifestò l’ intenzione di estirpare la religione stessa, inducendo i tibetani a capire che l’ anima della loro nazione non sarebbe sopravvissuta a tale eliminazione.
Una scena di «Kundun»;

Altro ambito in cui il Dalai Lama ha agito secondo esigenze più politiche che spirituali, è stato il caso del riconoscimento del XVII Karmapa, massima guida spirituale della scuola Kagyu e primo lignaggio di lama reincarnati apparso nella storia del Tibet, iniziato nel XII secolo con Dusum Kyenpa, i cui appartenenti, analogamente ai Dalai Lama, sono considerati manifestazioni terrene di Avalokiteśvara.
Per tradizione, l’ identificazione di un lama reincarnato avviene tramite la valutazione di sogni e presagi, nonché delle tracce premonitrici lasciate dallo stesso lama prima di morire, e la consultazione degli oracoli, coinvolgendo i lama e monaci al seguito del defunto e le guide più importanti della sua scuola, che una volta riconosciuta la reincarnazione, solitamente identificata in un bambino piccolo, provvedono ad ordinare e istruire, dando vita a veri e propri lignaggi di trasmissione. L’ identificazione dei lama reincarnati delle scuole Nyingma, Kagyu e Sakya è sempre avvenuta autonomamente, senza mai consultare il Dalai Lama, eccezion fatta nei casi in cui egli aveva avuto diretti rapporti spirituali con il lama defunto, occasioni nelle quali gli si richiedeva un parere. Durante gli Anni Venti, tuttavia, ebbe luogo un tentativo da parte del governo del XIII Dalai Lama di imporre un candidato, figlio di Lungshawa, il Ministro delle Finanze, quale reincarnazione del XV Karmapa, morto nel 1922. Tuttavia, questo riconoscimento non venne accettato dai dignitari del Karmapa, e il bambino morì poco dopo in circostanze non molto chiare, cosa che permise al Monastero di Tsurphu di riconoscere in autonomia la reincarnazione secondo i consueti sistemi. Secondo la tradizione della scuola Kagyu, prima di morire ogni Karmapa lascia una lettera con i dettagli relativi alla ricerca della propria reincarnazione. Il XVI Karmapa, Rangjung Rigpe Dorje, rifugiatosi in Bhutan nel 1959 e in seguito stabilitosi al Monastero di Rumtek, in Sikkim, morì nel 1981 ad appena cinquantasette anni a Zion, negli Stati Uniti. Nel 1992 venne resa pubblica dal XII Situ Rinpoche, il terzo lama più importante della scuola Kagyu, la sua lettera di predizione, che contribuì a identificare la sua reincarnazione in un bambino di otto anni, figlio di una coppia di pastori nomadi nel Tibet orientale, che venne riconosciuto ufficialmente in una cerimonia che si tenne il 27 settembre di quell’ anno al monastero di Tsurphu, la tradizionale sede dei Karmapa, con il nome di Ogyen Trinley Dorje. Per la prima volta, il bambino vene riconosciuto quanto dal seguito del suo predecessore, quanto dal Dalai Lama e persino dal governo cinese, oltre che da diversi autorevoli maestri delle varie scuole tibetane. Le autorità cinesi diedero ampio risalto all’ avvenimento, salutando il nuovo Karmapa come «fulgido esempio di lama patriottico, fedele allo Stato, al Partito e alla Madrepatria».
Il Dalai Lama e Ogyen Trinley Dorje;

Il XVII Karmapa venne tuttavia contestato dai lama del Monastero di Rumtek, dai membri dell’ influente organizzazione Karmapa Charitable Trust e dai rappresentanti dei maggiori centri Kagyu dell’ Occidente, che non parteciparono al suo insediamento. L’ opposizione, secondo cui la Cina voleva fare del nuovo candidato una credibile alternativa al Dalai Lama, una pedina da usare a piacimento come massima autorità spirituale di tutto il Tibet una volta che questi fosse morto, legittimando l’ occupazione del Regno delle Montagne, si coagulò attorno al XIV Shamarpa, nipote del Karmapa defunto, dal quale era peraltro stato identificato a sua volta come lama reincarnato. Dopo essersi a sua volta rifiutato di presenziare cerimonia di Tsurphu nella convinzione che il bambino non fosse la vera reincarnazione, proclamò la falsità della lettera di predizione esibita dal XII Situ Rinpoche, di cui pretese una perizia legale che però non venne mai concessa. Lo Shamarpa denunciò di conseguenza un inganno perpetrato dai più alti dignitari tibetani al fine di ingraziarsi la Cina, sostenendo che questa appoggiasse Ogyen Trinley Dorje non solo per indurlo a legittimare l’ occupazione del Tibet ma anche per seminare zizzania tra i tibetani in esilio: in assenza di una lettera di predizione riconosciuta da tutti e tenendo conto delle segnalazioni di alcuni lama di Lhasa, il 17 marzo 1994, nel corso di una cerimonia che si svolse a Nuova Delhi, conferì il titolo di XVII Karmapa a Trinley Thaye Dorje, nato a Lhasa nel 1983 e figlio di Mipham Rinpoche, autorevole lama Nyingma. I sostenitori di Ogyen Trinley Dorje risposero prontamente accusando il XIV Shamarpa di avere agito mosso da avidità e ambizione personale, nel desiderio di ereditare le fortune accumulate dallo zio Karmapa al Monastero di Rumtek, ammontanti a circa un miliardo e duecento milioni di dollari. Per oltre vent’ anni si tenne una controversia che provocò grandi tensioni tra le diverse componenti del Buddhismo tibetano, generando gravi episodi di violenza e addirittura accuse di responsabilità delle parti in causa in vicende di sospetto omicidio. Oltre alle due fazioni contrapposte vi furono alcuni eminenti lama che cercarono di mediare tra le parti, sostenendo che entrambi i giovani potessero essere riconosciuti come la reincarnazione del XVI Karmapa in quanto manifestazioni separate della sua essenza, coesistendo in maniera pacifica e costruttiva.
La vicenda di Ogyen Trinley Dorje balzò agli onori della cronaca internazionale il 5 gennaio 2000, quando il giovane, appena quattordicenne, giunse a Dharamsala con i propri attendenti dopo essere sfuggito il 28 dicembre 1999 dal Monastero di Tsurphu, attraversando buona parte del Tibet e il Nepal. Ottenuto l’ asilo politico, si stabilì al monastero di Gyuto, a Sidhbari, non lontano da Dharamsala, ove il XIV Dalai Lama si prodigò molto attivamente fin dal primo giorno perché fosse adeguatamente istruito in tono con la sua tradizione. Secondo i beninformati, la fuga del giovane Karmapa, definita «rocambolesca» e un colpo durissimo da accettare per Pechino, sarebbe stata una sorta di messinscena permessa fin dall’ inizio dagli stessi cinesi. I mezzi di comunicazione di massa riferirono che il governo cinese cercò dapprima di negare l’ evidenza affermando che Ogyen Trinley Dorje si era recato in India per recuperare alcuni testi religiosi, accusando poi «i soliti ambienti reazionari e imperialistici» di aver preparato la fuga, per poi concedere un dialogo diplomatico al Dalai Lama avendo compreso quanto fosse divenuto imbarazzante il caso del Tibet, mentre secondo determinate indiscrezioni le vicende del giovane e la sua fuga in India rientrerebbero in un piano politico di lungo termine, che vedrebbe il Dalai Lama e la Cina concordi: dopo essere stati dello stesso parere circa la nomina di Ogyen Trinley Dorje quale nuovo Karmapa, sia Dharamsala che Pechino vedrebbero in lui la chiave di volta della soluzione della questione del Tibet, l’ erede dell’ autorità terrena e spirituale del Dalai Lama, a cui è molto vicino, quando questi verrà a mancare. Quest’ ipotesi troverebbe peraltro conferma nell’ abdicazione del Dalai Lama al proprio ruolo politico nel 2011 in favore del Primo ministro del governo in esilio nel contesto di un progetto di riforme del governo tibetano iniziato già nel 1963, con l’ adozione di una bozza di costituzione basata su un sistema di governo democratico a cui si aggiunsero dal 2001 le elezioni del governo tibetano, e nelle sue recenti affermazioni a proposito del fatto che potrebbe essere l’ ultimo esponente del proprio lignaggio di reincarnazione: «Lo scopo ultimo di una reincarnazione è quello di portare a termine i compiti che quella precedente non è riuscita ad ultimare, ma se l’ istituzione del Dalai Lama continuerà ad esistere oppure no dipende esclusivamente dalla volontà del popolo tibetano. Spetta a loro decidere. Oggi come oggi, l’ istituzione del Dalai Lama è utile alla preservazione della cultura tibetana e alla tutela del popolo tibetano e quindi penso che se io dovessi morire oggi i tibetani sceglierebbero di avere un nuovo Dalai Lama. In futuro, se l’ istituzione del Dalai Lama dovesse rivelarsi irrilevante o inutile e la nostra attuale situazione dovesse cambiare, allora questa istituzione potrebbe cessare di esistere. Personalmente ritengo che l’ istituzione del Dalai Lama abbia raggiunto i suoi scopi: abbiamo avuto il Dalai Lama per cinque secoli, e il Buddhismo tibetano non dipende da un solo individuo, abbiamo un’ ottima struttura organizzata, i nostri studiosi e i nostri monaci sono formati al meglio.».
La controversia sulla reincarnazione del XVI Karmapa attraversò nuovamente una tappa fondamentale all’ inizio del 2017, quando l’ altro candidato, Trinley Thaye Dorje, annunciò ufficialmente di voler rinunciare ai voti per sposarsi a Nuova Delhi con una donna bhutanese, sua amica d’ infanzia: «Ho una forte sensazione, nel profondo del mio cuore, che la mia decisione di sposarmi avrà un impatto positivo non solo per me, ma anche per la scuola. Qualcosa di bello, qualcosa di benefico emergerà per tutti noi.». Sebbene gli ambienti a lui favorevoli confermarono che avrebbe conservato per sé il ruolo di Karmapa e continuato ad offrire insegnamenti ai seguaci in tutto il mondo, appare evidente quanto questo avvenimento favorisca la figura di Ogyen Trinley Dorje, con cui si incontrò per la prima volta in Francia nell’ ottobre 2018.
Il Dalai Lama e Sogyal Rinpoche;

Quella degli abusi sessuali in ambito religioso fu una serie di gravi scandali che scosse non soltanto la cristianità e la Chiesa, soprattutto quella cattolica, ma anche gli ambienti del Buddhismo, incluso quello tibetano. Molti casi ebbero luogo già durante gli Anni Ottanta, davanti ai quali la massima guida tibetana rimase per molti anni in silenzio, evitando persino di rispondere alle lettere che gli venivano inviate da tutto il mondo per richiedere spiegazioni. Tra le vicende che destarono maggior clamore e sdegno vi furono quelle videro protagonista Sogyal Rinpoche, lama reincarnato di rilievo della scuola Nyingma e fondatore dell’ associazione Rigpa, dedita all’ insegnamento in Occidente, autore del celebre testo «Il Libro tibetano del vivere e del morire» e noto per aver interpretato la parte di Khenpo Tenzin nel film «Piccolo Buddha», di Bernardo Bertolucci: accusato nel 1994 da una donna statunitense per abusi sessuali, fisici e mentali, non venne chiamato in giudizio grazie ad un patteggiamento in cambio di risarcimento economico. Sogyal Rinpoche respinse sempre tutte le accuse, conservando la propria posizione di rilevanza, seconda solo a quella del Dalai Lama, essendo considerato la reincarnazione di un grande maestro Nyingma che ebbe notevole influenza sul XIII Dalai Lama, sebbene le voci sui suoi abusi sessuali continuarono a circolare numerosi per molti anni, venendo raccolte in un documentario canadese del 2012, in cui si racconta tramite la testimonianza diretta di alcune donne che subirono le attenzioni intime del maestro, tutte facenti parte del cosiddetto circolo interno, un gruppo molto ristretto di donne, tutte giovani e belle, a cui si accedeva per chiamata diretta come privilegio dovuto ad un buon karma accumulato nelle vite precedenti, in quanto nel Buddhismo tibetano la vicinanza stretta con il maestro è reputata fonte di grandi benedizioni per un discepolo. Tuttavia, ben presto chi ne faceva parte comprendeva di dovere in cambio alcuni favori speciali, cosa che non veniva contestata dalle più perché un lama viene visto di gran lunga superiore in confronto ad un uomo normale, dunque qualsiasi cosa egli richieda va fatta senza opporsi, nella convinzione della sua bontà e dell’ impossibilità da parte di capire le motivazioni profonde di tale richiesta. Peraltro, in genere le vittime erano riluttanti a denunciare le molestie sessuali subite perché Sogyal Rinpoche, analogamente ad altri lama dalla condotta sessuale scorretta, temevano una vendetta o altre conseguenze negative quali la dannazione, la possessione da parte di spiriti maligni e l’ attacco di forze negative. Il mondo esterno era peraltro demonizzato dalle stesse guide spirituali, inducendo le vittime a non fidarsi di nessuno. In ambito buddhista, peraltro, due regole fondamentali vengono opportunamente distorte: l’ astensione dalle maldicenze, al fine di raggiungere la calma mentale, ma anche per bloccare commenti critici, e il samaya, la sacra promessa volta a conservare la purezza del comportamento del praticante in un legame di lealtà al maestro, che può anche esser presentato come una minaccia di gravi danni per sé e la famiglia qualora venga infranto. I profughi tibetani sono da lungo tempo in lotta contro ogni forma di avversità, e vedendo nei lama la speranza di preservare la loro civiltà e tradizione dall’ estinzione, nella loro società si è rinforzata la già grande venerazione nei loro riguardi, indipendentemente dai dubbi, cosa che insieme alle sue attività filantropiche e divulgative per lungo tempo ha favorito Sogyal Rinpoche.
Queste donne, tuttavia, negli anni si ribellarono alle evidenti contraddizioni tra l’ insegnamento di Sogyal Rinpoche e le richieste di scambi di natura sessuale, denunciando l’ accaduto. Venne inviata una lettera anche al Dalai Lama con richiesta di spiegazioni riguardo al comportamento di questo insegnante, ma da Dharamsala non giunse alcuna. Nel luglio 2017 emersero ulteriori scandali relativi ad abusi sessuali, violenze psicologiche e fisiche dovute al fatto che il lama avrebbe problemi di gestione della rabbia, avendo insultato e maltrattato fisicamente diversi studenti, monaci e monache, ad esempio tirando loro addosso vari oggetti. Questi comportamenti avrebbero superato anche la «folle saggezza», ovvero comportamenti eccentrici e fuori dalla righe tipici di alcuni maestri della scuola Nyingma, volti a scardinare le convenzioni mentali, sconfinando in veri e propri abusi e comportamenti sessuali scorretti. Finora nessun nuovo procedimento legale è stato intentato contro il lama, che comunque all’ indomani del nuovo scandalo annunciò tramite i portavoce della Rigpa di voler entrare in un periodo di ritiro e riflessione, pur non ammettendo gli abusi. In seguito si dimise dalla direzione del suo movimento, rendendo noto di soffrire di tumore. Il Dalai Lama, che secondo una delle vittime degli abusi, Oane Bijlsma, vivrebbe «ignaro di ciò che sta accadendo intorno a lui», riferendosi ai suoi seguaci che, «circondati dal lusso, si sono approfittati della loro posizione di monaci rispettabili per abusare delle persone che cercano solo risposte a domande esistenziali», solo a molti anni dai fatti ammise di esserne a conoscenza fin dall’ inizio, enunciando una lista di episodi che vedevano vari maestri in Occidente responsabili di lavaggi del cervello, minacce, arricchimenti e persino relazioni con ragazze minorenni, citando una profezia attribuita a Padmasambhava, che parlerebbe di monaci «che fanno l’ amore allegramente bevendo del vino, abbandonando i monasteri e danneggiando il Dharma». Tale dichiarazione venne accolta in maniera mista dal pubblico soprattutto in Occidente, diviso tra chi sostiene che abbia adottato un atteggiamento prudente di fronte ad un grave problema in attesa di adottare una soluzione adeguata senza danneggiare il volto pubblico del Buddhismo e chi invece afferma che abbia opportunamente voluto rimanerne fuori per mettere più facilmente a tacere una serie di scandali che avrebbero seriamente compromesso la causa del Buddhismo e del Tibet nonché la posizione dei lama.
Stephen Batchelor, ex monaco britannico di scuola Gelug e Zen, affronta la questione nel suo libro autobiografico «Confessione di un ateo buddhista», affermando che nel marzo 1993 si era recato a Dharamsala con un gruppo di ventidue maestri occidentali, alcuni monaci e altri laici, di varie scuole buddhiste per discutere con il Dalai Lama l’ adattamento del Buddhismo alla civiltà occidentale, il conflitto tra cultura e tradizione, il settarismo, la psicoterapia, i rapporti tra monaci e laici e le relazioni sessuali tra maestri e discepoli: in tale sede il Dalai Lama disse di aver ricevuto molte lettere di donne occidentali che lamentavano di essere state costrette a cedere alle pressioni dei rispettivi maestri, con la scusa che avrebbero migliorato il loro karma, e, preoccupato per l’ attenzione mediatica alla vicenda, suggerì di scrivere una lettera aperta in cui riassumere le conclusioni emerse da quel ciclo di incontri, e Batchelor fu scelto come autore di tale documento: nel libro, egli racconta che dopo aver rielaborato svariate bozze, lesse quella finale al Dalai Lama, che ascoltò con attenzione suggerendo spesso modifiche di linguaggio e di enfasi, e per la prima volta vide all’ opera la sua «raffinata intelligenza politica». In tale scritto, il Dalai Lama incoraggiava gli studenti a prendere provvedimenti responsabili contro gli insegnanti che si comportavano in modo non etico, rendendone pubblici gli errori soprattutto in presenza di prove e mancanza di ravvedimento: «Sperava che una denuncia pubblica permettesse alle vittime di farsi ascoltare e ai malfattori di essere svergognati, spezzando il circolo dell’ abuso.». Tuttavia, prosegue l’ autore anglosassone, quando l’ ufficio privato del Dalai Lama restituì il documento approvato, notò che la frase in cui il monaco-sovrano approvava personalmente il contenuto era stata omessa, dando l’ impressione che una ventina di insegnanti occidentali si fossero presi la briga di emanare proclami a tutto il mondo buddhista, dandogli l’ impressione di essere stato usato: «Il Dalai Lama era riuscito a comunicare le sue preoccupazioni e a proporre una soluzione, ma togliendo il suo avallo al documento il suo personale si era premurato che non si assumesse la responsabilità dei contenuti espressi. Ancora una volta presi coscienza che quel che in superficie appariva come una causa comune di occidentali e tibetani in realtà nascondesse intenti e aspettative contrastanti.».

Nato ed educato in un lontano Paese rimasto isolato per secoli tra colossali monti e culla di una religiosità sfarzosa e colorata, di cui è stato educato ad essere sia custode che signore, oggi il XIV Dalai Lama è uno degli uomini più noti al mondo, ma purtroppo non adeguatamente compreso e valutato in quanto circondato da un forte alone non solo mistico, ma anche di tipo propagandistico e pubblicitario. Pur non volendo additarlo a priori come un personaggio negativo, appare evidente che come autorità politica, legata a questioni terrene, si sia ritrovato coinvolto in faccende complesse e sfaccettate in cui bene e male vengono spesso ad assumere confini incerti, prendendo decisioni mosse principalmente dal senso di opportunità, senza disdegnare atti di revisione delle informazioni, proselitismo in ambienti ignari o scelte arbitrarie. Nel caso particolare di una teocrazia, peraltro, politica e religione sono costantemente tutt’ uno, e chi assume nelle proprie mani il potere sia terreno che spirituale finisce spesso e volentieri per influire su entrambe indistintamente, nel contesto di particolari criteri metafisici, oltre la consueta realtà umana. Il Dalai Lama era a capo di una società le cui leggi derivavano da una fonte etica e valoriale indubitabile, oggettiva, immutabile ed eterna, ossia quella del Buddha, oltre la quale non esisteva nulla che valesse la pena di essere considerato. Una società il cui governo prendeva decisioni solo dopo aver valutato i presagi e consultato gli oracoli, nella certezza di considerare il parere delle divinità tutelari.
Tuttora costretto ad un penoso esilio che coinvolge diverse migliaia tibetani, molti dei quali nati e vissuti in India o in altri Paesi e chiamati da una parte a preservare la propria cultura e dall’ altra a confrontarsi con un mondo molto diverso da quello lasciato dietro di sé, il Dalai Lama rappresenta ovviamente un simbolo in cui sono riposte le speranze di molti, nonché la massima autorità di una particolare tradizione religiosa, effettivamente impegnata nella salvaguardia della civiltà e della religione tibetane, tanto da aver ricevuto nel 1989 il Premio Nobel per la Pace in virtù della strategia della Via di Mezzo, presentata per la prima volta il 21 settembre 1987 tramite l’ esposizione del celebre Piano di Pace in cinque punti, in seguito adattato e presentato il 15 giugno 1988, che riconosce la sovranità della Cina sul Tibet per la sicurezza e i rapporti con l’ estero, prevedendo l’ autonomia interna. Occorre tuttavia riconoscere che anche il Dalai Lama è un uomo, un politico oltre che un religioso, il centro di ogni autorità, detentore di un’ istituzione che, comprensibilmente, non controlla del tutto da solo ma insieme ad una serie di dignitari dotati di precise competenze e funzioni, cosa che lo rende influenzato da precisi interessi in vari campi notevolmente diversi, spesso in contraddizione reciproca, e che la sua immagine è stata utilmente beatificata per attirare consensi, senza tener obiettivamente conto delle vicende che ha vissuto, a favore di un pubblico ignaro della storia passata del Tibet e della Cina, nonché dei loro complessi rapporti.