venerdì 13 dicembre 2019

I campi di concentramento statunitensi

«L’ America è il solo Paese idealista al mondo.» Woodrow Wilson, ventottesimo Presidente degli Stati Uniti;
Un campo di concentramento nel Colorado sudorientale;

Secondo un vecchio proverbio, la storia è scritta dai vincitori, quindi ogni volta che qualcuno sale al potere o vince una guerra si preoccupa di diffondere informazioni opportunamente costruite o ritoccate al fine di giustificare la propria posizione, passando alla storia come persone giuste, mosse da ideali positivi e disposte a tutto, anche ad azioni drastiche, pur di preservare l’ ordine o ristabilire l’ armonia perduta. I vincitori vengono sempre santificati, mentre agli sconfitti tocca la demonizzazione, in una tendenza senza appello. Tale fenomeno dura da migliaia di anni, e si è costantemente consolidata nelle motivazioni quanto nella sua efficacia, come dimostrato ad esempio dalle vicende di Giulio Cesare e Cesare Augusto, passati alla storia come grandi eroi che salvarono il caput mundi da un’ aristocrazia malevola a costo di sopprimere ogni libertà in nome della sicurezza instaurando un sistema di potere rigorosamente monocratico e condannando all’ eterno disonore i propri rivali politici, come Marco Giunio Bruto, Marco Tullio Cicerone, Marco Antonio e Cleopatra. Eppure, anche se con più fatica e lentezza, la verità tende sempre a riemergere dalle sabbie del tempo e dai dettami della versione ufficiale riportata dai cronisti di parte, consentendo di risalire ai fatti così come avvennero e di smontare i miti e le leggende che avvolgono la storia.
Parimenti, quando si parla di campi di concentramento noi tutti pensiamo ai famigerati lager che i nazisti sparpagliarono in Germania, Austria, Polonia, Italia, Francia e negli altri Paesi occupati, che le SS gestirono con un’ estrema organizzazione imprigionandovi milioni di persone per motivi razziali, politici e religiosi, dando luogo alla Soluzione finale con cui liberare la razza ariana dall’ inquinamento genetico indotto dal sangue ebraico e dei disabili e il Terzo Reich dalle interferenze delle varie forze politiche ad esso ostili, soprattutto il Bolscevismo. Il trattamento di prigionieri civili e militari nei campi di internamento, tuttora regolato dalla III e IV Convenzione di Ginevra del 12 agosto 1949, fa pensare a bui periodi di guerra e a regimi dittatoriali particolarmente duri e ingiusti, qualcosa di crudele e intollerabile agli occhi dei più elementari sistemi democratici. Eppure, diversamente da quanto si pensa attualmente i campi di concentramento non furono un fenomeno esclusivo di Germania nazista e Unione Sovietica, ma anche degli Stati Uniti d’ America, che certa propaganda inesatta dal 1945 in poi descrive come il tempio della democrazia, della tolleranza e della pace, il pilastro della libertà perennemente impegnato con forza e convinzione contro ogni forma di oppressione e ingiustizia. Se noi tutti oggi pensiamo agli Stati Uniti come l’ eroica potenza che scese coraggiosamente in campo armata di nobili ideali aiutando la Gran Bretagna a sconfiggere Adolf Hitler e il Nazismo al fine di ristabilire la democrazia in Europa, tralasciamo il fatto che non da subito si rivelarono ostili a quanto il Führer favoriva con la sua politica, e che molti statunitensi avevano addirittura un’ aperta simpatia per il Terzo Reich, che vedevano come un forte baluardo contro il proletario abisso incarnato dall’ Unione Sovietica, oltre che sentimenti antisemiti. Soprattutto, dimentichiamo che persino il Nuovo Mondo ebbe i suoi campi di concentramento, voluti dal Presidente Roosevelt, che con l’ ordine esecutivo 9066 decretò che tutti i residenti di provenienza giapponese, tedesca e italiana, immigrati o nati in territorio statunitense che fossero, dovevano essere rinchiusi in un campo di concentramento: donne, vecchi, bambini e intere famiglie umiliate e private della propria libertà in una vera e propria caccia alle streghe, analogamente a quanto avveniva in quel totalitarismo a cui Washington tanto si oppose a partire dal 1941, dando luogo ad una vicenda che, come molte altre, andrebbe doverosamente approfondita consentendo alla verità di riemergere in opposizione ad ogni visione parziale dei fatti.
Roosevelt firma la dichiarazione di guerra al Giappone;

A seguito dell’ occupazione tedesca della Polonia, la Gran Bretagna dichiarò guerra alla Germania il 1º settembre 1939, dando inizio alla Seconda Guerra Mondiale. Durante i primi due anni, gli Stati Uniti mantennero formalmente la propria neutralità, dimostrandosi tuttavia favorevoli alla causa britannica e a quella francese. In una dimostrazione di sostegno, il Presidente Franklin Delano Roosevelt richiese a J. Edgar Hoover, direttore dell’ FBI, di compilare un indice dei soggetti da arrestare al fine di garantire la sicurezza in un momento di emergenza nazionale. Tale disposizione riguardò la Germania e i suoi principali alleati, ossia Italia e Giappone, e il Dipartimento della giustizia iniziò a compilare elenchi di possibili sabotatori e spie nemiche tra i relativi gruppi etnici residenti sul suolo statunitense. A partire dal 1940, gli stranieri residenti furono tenuti a registrarsi in base a quanto disposto dallo Smith Act. A causa dell’ avanzata giapponese nell’ Indocina francese e in Cina, gli statunitensi, in accordo con i britannici e gli olandesi, bloccarono ogni rifornimento di carburante ai giapponesi, che ne importavano il novanta percento. L’ embargo minacciò la potenza militare del Paese de Sol Levante, che rigettò la richiesta statunitense di lasciare la Cina e segretamente decise che la guerra con gli Stati Uniti era inevitabile, sebbene la sola speranza di vittoria consistesse nel colpire per primo. Alcuni mesi prima, Roosevelt aveva ordinato che la flotta statunitense si spostasse dalla California alle Hawaii, in modo che fosse pronta se i giapponesi avessero dichiarato guerra. Il 7 dicembre 1941, le forze aeronavali giapponesi, guidate dal generale Isoroku Yamamoto, attaccarono senza preavviso la flotta e le installazioni militari statunitensi stanziate nella base navale di Pearl Harbor, nelle isole Hawaii, infliggendo una notevole perdita alla flotta nemica, mandando fuori combattimento diciotto navi. Durante i bombardamenti, duemilaquattrocentotre statunitensi persero la vita, e altri millecentosettantotto rimasero feriti. I giapponesi persero ventinove aerei, un grande sommergibile e cinque sottomarini, e contarono sessantaquattro morti. Fu la peggior sconfitta navale della storia degli Stati Uniti. Roosevelt e i suoi comandanti, che formavano gli Stati maggiori riuniti, decisero che nonostante l’ aggressione giapponese nel Pacifico l’ obiettivo principale della guerra fosse la sconfitta della Germania nazista, il nemico più pericoloso e potente. Appena il giorno dopo, su deliberazione del Congresso, gli Stati Uniti dichiararono guerra all’ Impero giapponese, e di conseguenza al Terzo Reich e al Regno d’ Italia.
Tuttavia, il fronte europeo non fu il solo in cui il governo di Washington si impegnò. Nel gennaio 1942, tutti gli stranieri appartenenti alle nazionalità ostili furono tenuti a registrarsi presso gli uffici postali del luogo di residenza. Come stranieri nemici dovevano essere prese loro le impronte digitali, andavano fotografati, e dovevano portare sempre con sé speciali documenti di identificazione. I giapponesi in particolare furono accusati di tradimento, e l’ odio, covato ormai da un secolo, dilagò sfociando in una campagna diffamatoria su vasta scala: essi facevano concorrenza sleale ai contadini e ai pescatori statunitensi, costituivano una minaccia per la virtù delle donne locali con i loro vizi e la loro lussuria, contaminavano la cultura occidentale con i loro costumi e la loro religione. Iniziarono presto retate e detenzioni, e furono confiscati fucili, coltelli, strumenti da lavoro, kimoni da cerimonia, statuine religiose, documenti e scritti in lingua giapponese.
Il Procuratore generale Francis Biddle garantì che gli stranieri nemici non sarebbero stati discriminati se si fossero dimostrati fedeli, e citando le cifre del Dipartimento di Giustizia indicò un milione e centomila stranieri nemici degli Stati Uniti, di cui novantaduemila giapponesi, trecentoquindicimila tedeschi e seicentonovantacinquemila. Il 19 febbraio 1942, ad appena due mesi dal proditorio attacco nipponico, il Presidente Roosevelt firmò l’ ordine esecutivo 9066, con il quale decretò che tutti i residenti sul territorio degli Stati Uniti di origine giapponese, tedesca e italiana, anche se nati in territorio statunitense, erano «nemici alieni» da rinchiudere in campi di concentramento. Ufficialmente, alla base di tale azione vi era lo stato di guerra in atto con i Paesi del Patto tripartito, quindi l’ esigenza di porre la nazione al sicuro da agenti segreti, spie e sabotatori al servizio del nemico. Tale provvedimento causò l’ imprigionamento di oltre centoventimila cittadini statunitensi di provenienza giapponese, italiana e tedesca, tra cui donne e bambini, in appositi campi di concentramento. Le operazioni furono rapide: i campi predisposti erano appena dieci, sparsi in Arizona, Idaho, Montana e Utah, dichiarati zone militari, e faticarono moltissimo a contenere le vaste ondate di prigionieri, provenienti dalla media borghesia e dalla classe lavoratrice e che si erano visti spogliare di ogni cosa alla stregua dei criminali più nefandi. Uno dei campi più noti e affollati fu quello di Manzanar, posto in un’ arida valle a più di trecento chilometri a nord di Los Angeles, a est delle montagne della Sierra Nevada. L’ ordine 9066 non tardò a svelare il proprio movente di pura fobia razziale, come infatti ebbe a dire il generale John L. De Witt, posto alla difesa del fronte occidentale: «La razza giapponese è una razza nemica, i cui effetti non si diluiscono neppure dopo tre generazioni.». I giornali usarono parole altrettanto impietose, come ad esempio si lesse in un articolo del Los Angeles Times: «Una vipera nasce vipera dovunque sia stato deposto l’ uovo.». Sulle vetrine dei negozi californiani comparivano invece cartelli recanti slogan antigiapponesi: «I giapponesi non sono desiderati». La rivista Life, invece, insegnava ai lettori come distinguere i tratti somatici dei giapponesi da quelli cinesi.
Prigionieri italiani all’ ingresso di un campo di prigionia;

Il provvedimento presidenziale venne molto criticato fin dall’ inizio in molti ambienti della società e della politica statunitense, al punto che persino la First lady, Eleanor Roosevelt, ne parlò in termini alquanto sfavorevoli, schierandosi apertamente contro il marito e facendo notare che il movente razziale da cui era mosso andava a colpire gruppi che, nonostante i forti pregiudizi che subivano da parte del popolo statunitense, si erano perfettamente integrati nella vita e nel sogno americano: tra i prigionieri vi erano infatti lavoratori, imprenditori, insegnanti, artisti e via dicendo, e oltre il settanta percento degli internati era cittadino statunitense. L’ ordine 9066 li aveva semplicemente colpiti per quello che erano, non per quello che avevano fatto. Come disse la signora Roosevelt: «Sono persone che non hanno commesso nessun crimine.». Molti di loro erano cittadini di seconda generazione nati in terra statunitense, ma bastava avere un bisnonno nato in Giappone, Germania e Italia per essere additati come traditori. Iniziò quindi l’ internamento forzato di molte migliaia di persone che videro andare in rovina la propria vita, senza sapere dove sarebbero state portate e per quanto tempo.
I soli nippoamericani colpiti dal provvedimento furono centodiecimila, e il loro trasferimento e internamento venne effettuato in modo diverso a seconda dell’ area nazionale in cui avveniva. Il provvedimento del Presidente permetteva ai locali comandanti militari di stabilire all’ interno delle aree militari ciò che vennero definite «zone di esclusione», in cui si sarebbero potute isolare in tutto o in parte le persone colpite. Quasi tutti i giapponesi internati risiedevano lungo la Costa Occidentale, in particolare in California, e nelle regioni occidentali degli Stati dell’ Oregon e di Washington, oltre che in Arizona. Nelle Hawaii, dove i nippoamericani erano oltre centocinquantamila, formando quindi più di un terzo della popolazione locale, ne vennero internati circa milleottocento. Si calcola che tra i giapponesi circa il sessantadue percento disponesse della cittadinanza statunitense. Molti giapponesi immigrati di prima generazione si presentarono volontariamente ai centri di trasferimento, per dimostrare lealtà e gratitudine nei confronti del Paese che li aveva accolti e in aperta condanna all’ attacco di Pearl Harbor, ma molti giovani nati negli Stati Uniti seminarono disordini e furono rinchiusi in spietati centri di detenzione, come il famigerato Tule Lake.
L’ internamento dei tedeschi rappresentò un fenomeno più articolato, in quanto era già in corso dal 1939 e colpì diecimila civili di provenienza tedesca residenti negli Stati Uniti e considerati come possibile minaccia, e i prigionieri di guerra. In una realtà come quella statunitense, che fa del «crogiolo di culture» in cui diverse provenienze etniche e religiose si amalgamano all’ interno di una stessa società una caratteristica essenziale e un proprio motivo di vanto, la popolazione di provenienza germanica era piuttosto silenziosa fin dal tempo della Grande Guerra, quando negli Stati Uniti era maturato un forte sentimento antitedesco: all’ inizio gli statunitensi di discendenza germanica erano stati spesso aggrediti per le strade, l’ insegnamento della loro lingua madre venne bandito dalle scuole e i libri tedeschi bruciati. Nemmeno la loro cucina venne risparmiata: uno dei piatti tipici che gli immigrati avevano importato dalla madrepatria, i sauerkraut, crauti fermentati che accompagnano i piatti principali della tradizione tedesca, fu ribattezzato liberty cabbage, ossia «cavoli della libertà». I prigionieri civili tratti nei campi di concentramento in virtù dell’ ordine 9066 appartenevano in maggioranza a famiglie che avevano smesso di parlare in tedesco e anglicizzato i propri cognomi, nel tentativo di nascondere il più possibile le proprie origini. I prigionieri di guerra cominciarono ad arrivare negli Stati Uniti in gran numero nella tarda primavera del 1943, dopo le vittorie degli Alleati in Africa. Si calcolarono trecentosettantottomila prigionieri catturati in Africa settentrionale, Italia e Francia, suddivisi in centotrenta campi base e duecentonovantacinque campi affiliati. Un numero aggiuntivo di prigionieri era distribuito in ospedali e vari istituti penali. Nel corso degli anni venne documentata la presenza di campi di prigionia in ben quarantacinque Stati su quarantotto. Per combattere più efficacemente il Terzo Reich, Roosevelt ebbe l’ idea di nominare numerosi comandanti militari con cognomi di chiara origine tedesca, ma le violenze perpetrate dal regime nazista e la Shoah funsero da ulteriore spinta per i tedeschi-statunitensi a tacere il più possibile sulle proprie origini e a sforzarsi in un’ integrazione maggiore e nell’ assunzione di una nuova identità statunitense.
Infine, venne la realtà italiana. Nei mesi immediatamente successivi all’ attacco presso Pearl Harbor centinaia di italiani vennero arrestati. Già nel mese di gennaio, poco prima che l’ ordine 9066 entrasse in vigore, duecentomila sindacalisti italoamericani lanciarono un appello alla Casa Bianca per rimuovere la macchia intollerabile rappresentata dal fatto di essere considerati «stranieri ostili» per conto di tutti quegli italiani che avevano formalmente dichiarato l’ intenzione di diventare cittadini statunitensi e di rinunciare ai vecchi documenti ancor prima dell’ entrata in guerra degli Stati Uniti. Nel giugno 1942, gli italiani arrestati dalla polizia federale furono millecinquecentoventuno, e circa duecentocinquanta di essi vennero internati per un massimo di due anni nei campi militari in Montana, Oklahoma, Tennessee e Texas. Nel mese di marzo fu istituita la War Relocation Autority, un ente governativo atto a gestire la detenzione secondo i canoni previsti dall’ ordine 9066, che nel caso degli italiani dovette sforzarsi molto di più che nel caso dei nippoamericani: tanto quelli con la cittadinanza che quelli senza furono internati, ma la maggior parte, circa il sessanta percento, erano cittadini italiani nati in territorio statunitense. Gli italoamericani internati non furono arrestati in base alla legge sui nemici interni, ma erano semplicemente «persone» trasferite forzosamente dalla War Relocation Authority.
A seguito dell’ Armistizio di Cassibile, che l’ 8 settembre 1943 portò alla resa dell’ Italia, la maggior parte degli italiani venne liberata entro la fine dell’ anno. Alcuni erano stati rilasciati già da mesi sulla parola dopo un esonero stabilito da un consiglio di seconda audizione sulla base di appelli avanzati dalle loro famiglie, tuttavia la maggior parte degli internati avevano già passato due anni come prigionieri, passando da un campo all’ altro ogni tre o quattro mesi.
Un giornale italiano dell’ epoca;

Nel complesso, la vita nei campi di concentramento fu molto difficile. Le strutture erano spesso troppo fredde in inverno e troppo calde in estate. Gli alloggi erano spartani, costituiti principalmente da grandi caserme. Le famiglie cenavano tutte insieme in mense povere e austere, e ai bambini era possibile frequentare la scuola. Gli adulti avevano la possibilità di lavorare per uno stipendio di cinque dollari al giorno. Il governo statunitense sperava che i campi fossero autosufficienti nella coltivazione del cibo, ma la produzione in terreni aridi costituì una sfida assai penosa. Gli alimenti erano prodotti in massa secondo lo stile dell’ esercito, e gli internati sapevano che se avessero tentato di fuggire le sentinelle armate avrebbero prontamente aperto il fuoco. Il campo di Manzanar, che significa «campo di mele» in spagnolo, divenne l’ esempio più noto di questi campi di concentramento, così come Aushwitz si erse a simbolo della Shoah nazista. Durante suoi i quattro anni di esistenza fu il luogo di internamento di ben undicimilasettanta persone, tra uomini, donne, bambini e anziani. Ospitava chiese, negozi, un ospedale, un ufficio postale e un auditorium per la scuola, ma la vita al suo interno era ardua, tra problemi di sovraffollamento, pochi servizi igienici in comune tra uomini e donne, alloggi assegnati spesso in modo casuale, causando la divisione di infinite famiglie che venivano costrette a convivere con estranei. Anche se privati della libertà, gli internati cercarono di sopravvivere in qualche modo, organizzando numerose attività, anche di carattere religioso. Il direttore del campo, Ralph Merrit, nel 1943 incaricò un suo amico fotografo Ansel Adams, di documentare quello che stava succedendo nella sua struttura. Adams catturò i momenti di vita quotidiana degli internati, evidenziandone la determinazione e la resistenza. Le fotografie furono raccolte nel libro «Born Free and Equal», pubblicato nel 1944 dopo essere passato attraverso le oscure e crudeli alchimie della censura.
La controversa disposizione esecutiva venne sospesa dallo stesso Roosevelt nel dicembre 1944, e i prigionieri vennero finalmente rilasciati, ormai liberi di tornare alle proprie normali esistenze. Tuttavia, l’ impatto della riacquistata libertà fu traumatizzante quanto l’ incarcerazione, e molti tra gli ex prigionieri politici non sapevano dove andare: giapponesi, tedeschi e italiani vennero spesso guardati tornare con sospetto nelle rispettive città e paesi, nella convinzione che fossero le avanguardie del nemico in Europa ed Estremo Oriente, e non mancò chi li paragonò alle orde barbariche che con le invasioni e i saccheggi avevano contribuito fortemente alla caduta di Roma. Tra i giapponesi in particolare, molti addirittura scoprirono di non poter neppure tornare nelle loro città d’ origine, perché soprattutto lungo la Costa Occidentale l’ ostilità antigiapponese rimaneva altissima, tanto che in molti villaggi vi erano cartelli nei quali si chiedeva che non tornassero. Tale animosità perdurò per lungo tempo nel Dopoguerra.
Il campo di Manzanar;

Spesso considerato dagli studiosi uno dei tre Presidenti statunitensi più popolari, dopo George Washington e Abraham Lincoln, Roosevelt fu una figura centrale del XX secolo, il solo ad essere eletto per ben quattro mandati consecutivi. Con il suo ottimismo, la sua calma e la sua capacità di giudizio, ebbe un ruolo di grande rilievo nel grandioso sviluppo della potenza militare statunitense, nella conduzione della guerra, nel consolidamento della «Grande Alleanza» con la Gran Bretagna di Sir Winston Churchill e l’ Unione Sovietica di Iosif Stalin, e nelle decisioni geopolitiche della fase finale del conflitto. Sostenne anche lo sviluppo e la costruzione delle prime bombe atomiche della storia dell’ umanità, impiegate dal suo successore Harry Truman in Giappone, sulle città di Hiroshima e Nagasaki. Diede inoltre un contributo fondamentale alla formazione dell’ Organizzazione delle Nazioni Unite. Tuttavia, l’ ordine 9066 fu senza dubbio la sua decisione più discutibile. Sebbene ritenuto costituzionale dalla Corte Suprema, fu considerato una grave violazione delle libertà civili e avversato da molti gruppi e da importanti funzionari come J. Edgar Hoover, che spesso criticarono il Presidente per non essersi opposto veramente al genocidio contro gli ebrei perpetrato dai nazisti, benché fosse dovutamente informato su tale atrocità. Questa disposizione andò a colpire persone civili che nulla avevano a che fare con il conflitto o i servizi segreti e di destabilizzazione dei Paesi da cui venivano, gente innocente che viveva tranquillamente, lavorando sodo per guadagnarsi la vita in modo onesto, mandando i figli a scuola.
Molti anni dopo, nel 1980, il Presidente Jimmy Carter, convinto sostenitore della pace, della democrazia e dei diritti umani, avviò un’ indagine atta a stabilire se l’ internamento dei giapponesi, dei tedeschi e degli italiani, soprattutto coloro che possedevano la cittadinanza statunitense, fosse giustificato dal punto di vista legale. Predispose un’ apposita Commissione, nella cui relazione, denominata «Giustizia personale negata», sostenne di non aver trovato prove significative di slealtà da parte dei giapponesi, contestando apertamente la motivazione fornita da Roosevelt per l’ adozione dell’ ordine 9066, non essendo suffragata da alcuna necessità militare ma solo da un mero pregiudizio razziale, isteria della guerra, e mancanza di controllo politico. Il governo venne pertanto sollecitato a pagare un risarcimento ai sopravvissuti. Successivamente, nel 1988, Ronald Reagan firmò un documento in cui gli Stati Uniti si scusavano ufficialmente per la deportazione e l’ internamento dei giapponesi che l’ amministrazione Roosevelt aveva ordinato, e l’ ammontare dei risarcimenti giunse a ventimila dollari per ogni reduce dei campi di concentramento, talvolta erogandoli ai loro discendenti.
A differenza dei nippoamericani, gli italoamericani non ricevettero mai nessun risarcimento. Nel 2010, la legislatura della California approvò una risoluzione in cui si chiedeva scusa per i maltrattamenti subiti dai residenti di origini italiane. I tedeschi, invece, non ricevettero mai risarcimenti e neppure scuse.
Alcuni giovani prigionieri giapponesi;

A dispetto di certa propaganda equivoca, il razzismo è tuttora molto forte in ogni parte del mondo, e in tempo di guerra si acutizza a livelli esponenziali. Gli Stati Uniti non fanno assolutamente eccezione, ed entro i loro confini non si riesce neppure a parlare liberamente di questo argomento. La grande visione di Abraham Lincoln, di John e Robert Kennedy nonché di Martin Luther King Jr. resta un sogno tuttora molto lontano dal suo traguardo. Il problema che da sempre affligge il mondo libero e civile sta nel fatto che il «popolo sovrano» è credulone e si lascia sempre opportunamente manipolare da delegati avidi e litigiosi, a cui nulla importa del bene comune. L’ umanità teme da sempre ciò che non riesce a capire, e sugli alti scranni del potere siede sempre chi ne istiga la paura contro il diverso: nonostante la scoperta della forza di gravità, dei vaccini, dei trapianti e i viaggi sulla luna la gente scivola tuttora nelle consuete sabbie mobili dell’ ignoranza, condannando gli stranieri e i migranti a rimanere nemici, delinquenti che rubano tutto ai nativi.
Tra il 1892 e il 1954, Ellis Island, isolotto parzialmente artificiale alla foce del fiume Hudson, nella baia di New York, fu il principale punto d’ ingresso per gli immigrati che sbarcavano negli Stati Uniti: ognuno di essi contemplava con meraviglia e fascino la Statua della Libertà, nella certezza di essere finalmente sbarcati nel Paese della tolleranza e della pace, ove avrebbero trovato fortuna. Invece, ahimè, non esiste alcun Paese tollerante o Terra promessa, non vi è pace e neppure uguaglianza in nessun posto: donne, bambini, intere famiglie distrutte semplicemente perché nati diversi dai detentori del potere. E il fenomeno, purtroppo, continua imperterrito ancora oggi sotto l’ amministrazione di Donald J. Trump, tramite il muro lungo il confine messicano e il Muslim ban, provvedimenti famigerati e discriminanti che più di tutto riescono a rievocare nel subconscio civile degli statunitensi quella parte dimenticata della loro storia. Un capitolo imbarazzante che il campo di Manzanar, designato come sito storico di interesse nazionale per l’ eccezionale stato di conservazione delle strutture del campo, potrebbe aiutare come non mai a far comprendere appieno con quella stessa bandiera a stelle e strisce generalmente indicata come simbolo di page e giustizia per tutti che sventola su quel deserto che sfortunatamente non è solamente ambientale, ma anche e soprattutto culturale…

lunedì 2 dicembre 2019

La spiritualità oltre la religione



«La spiritualità è riconoscere la luce divina che è dentro di noi. Non appartiene a nessuna religione in particolare, ma a tutti.» Muhammad Ali;
La parola come timone con cui orientare le masse;

Un antico proverbio zen dice: «Una buona parola tiene inchiodato un asino a un palo per cento anni.». Devo ammettere che quest’ affermazione mi ha molto colpito, e che mi ha fatto ricordare un concetto che fin da bambino ho spesso sentito dire dalla mia vecchia maestra elementare di italiano e, in seguito, da altre persone intelligenti che ho avuto la fortuna di conoscere personalmente: le parole hanno ciascuna un preciso significato, con il quale possono ampiamente influenzare il nostro modo di pensare e percepire la realtà, modellando le nostre convinzioni in un modo piuttosto che in un altro. Se usate con una motivazione e in un certo modo hanno il potere di elevarci a superiori livelli di consapevolezza oppure di allontanarcene nettamente, come dimostrato purtroppo dalle tecniche propagandistiche. Al tempo stesso, come tutte le cose del contesto umano il linguaggio ha i suoi limiti e non sempre è in grado di aiutarci a comprendere appieno i concetti, finendo spesso con l’ indurci a coltivare opinioni inesatte. Occorre quindi fare un uso molto attento delle parole, scegliendo quelle giuste quando occorrono e limitandoci al silenzio se invece non servono proprio: prima di parlare dovremmo infatti sempre domandarci se ciò che diremo corrisponde al vero, se non provoca male a nessuno, se è utile e, soprattutto, se valga davvero la pena turbare il silenzio per ciò che abbiamo da dire.
Il condizionamento e la metodicità della religione;

Uno dei contesti in cui le parole vengono utilizzate in maniera sconveniente e addirittura oppressiva è quello delicato della religione, un contesto molto antico e tutt’ altro che scontato. Da sempre, infatti, ogni dottrina poggia su concetti enigmatici e mai dimostrati in pratica, e i relativi chierici e maestri, impaludati in suggestivi abiti talari, trascorrono tutta la vita a studiarli e a insegnarli alla comunità spirituale, i cui membri pendono dalle loro labbra ammirando la bravura e la dimestichezza che denotano dalla santa cattedra. Non a caso, infatti, uno dei termini più ricorrenti nel mondo religioso è quello relativo ai pastori, intesi come vere e proprie guide autorevoli incaricate di indirizzare la massa: la comunità spirituale deve mettere da parte pensieri, dubbi e riflessioni e affidarsi alla conoscenza e all’ esperienza del suo pastore, che ha ricevuto l’ insegnamento, comprendendolo e divenendo poi in grado di trasmetterlo agli altri, sul preciso esempio delle pecore, che senza pensare seguono tutte insieme il loro allevatore mentre le conduce dalla stalla ai pascoli e viceversa.
In questo contesto, uno degli errori fondamentali che noi tutti comunemente facciamo in partenza è il confondere la religione con la spiritualità. Da migliaia di anni, infatti, questi due elementi sono molto presenti nella vita delle persone, e sono strettamente intrecciate fra loro, eppure ad un’ attenta considerazione si può capire quanto siano diverse e addirittura sappiano esistere l’ una senza l’ altra. Generalmente, siamo portati a credere che la religione sia l’ apice della spiritualità, ma in realtà non è così: essa è infatti un semplice prodotto umano. Fin dall’ origine dei tempi, infatti, ogni popolo ha avuto la propria religione, con le sue divinità buone e cattive, i propri dogmi, rituali e preghiere. Per certi aspetti, tutti i culti hanno molti aspetti in comune e altri punti di diversità, e per quanto si siano sempre presentati come una verità rivelata, non si può non notare quanto ognuno di essi sia il riflesso di una determinata mentalità in vigore una determinata epoca storica e regione geografica. Ogni confessione religiosa sorse in un’ era in cui uomini e donne si interrogavano sulle origini della vita, ma ancora non vi era la scienza con cui rispondere adeguatamente. Dalla religiosità sorge la ritualità, elemento tipico della psiche umana al punto da essere parte delle nostre attività quotidiane più familiari, e da questa sorgono la metodicità e, soprattutto, la convinzione, che il più delle volte sfocia nel pregiudizio divenendo un limite e addirittura un ostacolo al raggiungimento della comprensione della verità, in quanto una volta che siamo certi di qualcosa ci attacchiamo alle nostre convinzioni e abitudini adeguando ad esse la nostra mentalità ed esistenza divenendone praticamente prigionieri.
La libertà della personale ricerca spirituale;

In realtà, il culmine a cui noi tutti più o meno consapevolmente puntiamo è la spiritualità: è questo il nostro vero traguardo, peraltro slegato da tutti quei vincoli, limiti e dogmi tipici della religione. Ognuno di noi possiede uno spirito, indipendentemente dalla fede religiosa, e tende ad essere felice e ad evitare la sofferenza. La spiritualità parte proprio da qui, e consiste nella cura di questo nostro spirito: è il sentiero che ci conduce al benessere, indipendentemente da tutto ciò che ha a che fare con la religione. Persino molti atei affermano di praticare una qualche forma di spiritualità, sentendosi pervasi da una grande energia e senso di completezza semplicemente immergendosi nella natura, osservando le opere d’ arte o facendo del bene agli altri, impegnandosi in un sentiero vivo e radicato nella vita quotidiana in cui siamo tutti immersi.
Per sua natura, la religione non riesce a fornire una risposta a tutti i problemi delle persone, e ovviamente non si può cambiare il mondo dichiarandosi seguaci di una religione per poi passare il tempo pregando, andando al tempio più vicino a casa oppure in pellegrinaggio. La spiritualità consente invece di individuare sé stessi, riconoscendo quello che si è, che si può fare e di cui si ha bisogno. E’ una via basata sull’ astensione dal male, sul fare il bene e l’ essere sempre consapevoli, in un percorso basato su virtù quali disponibilità, condotta appropriata, pazienza, diligenza, saggezza, tolleranza e rispetto reciproco e che non è appannaggio esclusivo della religione. Solo aprendoci a noi stessi e alla realtà che ci circonda potremo finalmente vivere in armonia e trovare la pace.

Da anni quindi sostengo senza mezzi termini che possiamo tranquillamente fare a meno della religione, ma non della spiritualità. Se fin dal suo apparire la religione ha sempre esposto i propri concetti fondamentali senza alcuna dimostrazione pratica, fino a perdere ovviamente terreno di fronte alle recenti scoperte scientifiche, molto di ciò che ci vediamo attorno può costituire un ottimo punto di partenza per il nostro percorso spirituale, superando tutte quelle convinzioni erronee, distorte e ingannevoli che con l’ andare del tempo possono radicarsi sempre di più, conducendoci inevitabilmente in una solida gabbia mentale da noi stessi costruita e dalla quale si rischia seriamente di non uscire più, imprigionandoci nell’ aridità e nella desolazione del «materialismo religioso». Anziché credere occorre fare esperienza diretta di tutte le cose, in modo tale da poter comprendere e infine sapere. Bisogna ragionare attivamente con la propria testa e il cuore, tralasciando tutti quei concetti statici e leggende deleterie che ormai non valgono più, ai quali da sempre le religioni si aggrappano disperatamente da lungo tempo. Soprattutto, non bisogna mai commettere l’ errore di affidarsi ciecamente ad un maestro, per quanto famoso, carismatico e convincente, ricordando piuttosto che bisogna valutare con cura tutto quello che dice e l’ esempio che offre con le sue azioni: è bene che ciascuno sia il maestro di sé stesso, affidandosi alla propria esperienza. La verità si trova sempre e solo nei fatti, non nelle convinzioni: si deve quindi imparare a coltivare un atteggiamento di scetticismo con cui fare le domande giuste, a cui occorre dare le dovute risposte, evitando la trappola della liturgia, della dottrina, del mito, del culto, della fede e quindi della religione. Perché il cuore umano si trova sempre oltre la fitta coltre della teologia. Con la spiritualità si imbocca quella via che ci riporta al nostro vero io, al «qui e ora», distaccandoci dalle distrazioni inutili e dagli atteggiamenti mentali che ci isolano dalla realtà. E’ un’ attitudine che va oltre la fede, sperimentando l’ attimo presente e provando riconoscenza per il dono stesso della vita, acquisendo piena consapevolezza del nostro legame con il mondo e tutto ciò che ne fa parte, oltre le disattenzioni e i conflitti illusori del mondo materiale. Lo stato dello spirito non ha tempo, luogo e neppure religione, e dipende essenzialmente dalla nostra intuizione, esperienza soggettiva e unica per ogni persona. Giunti a questo punto potremmo chiederci perché sia così importante la religione, con tutti i suoi dogmi che ci isolano dalla realtà e da noi stessi impedendoci di percepirci come una parte fondamentale di qualcosa di più grande.
Il lato maggiormente importante della spiritualità è l’ esperienza effettiva, con la quale ci rendiamo parte del moto perpetuo dell’ esistenza. In un certo senso, questa è la vita stessa: per vivere la spiritualità servono solo quei piccoli gesti che ci avvicinino alla pace mentale, vivendo ogni momento con consapevolezza. Ad esempio, se stiamo pulendo casa dovremmo immergerci nell’ atto di pulizia; se siamo con i nostri cari, bisognerebbe essere completamente presenti per loro; se ci stiamo rilassando, ci si dovrebbe rilassare e basta, non lasciando che gli eventi del giorno o le preoccupazioni del futuro infestino i nostri pensieri. Questo atteggiamento ci aiuta ad accettare le cose pienamente così come vengono e apprezzarle nella loro interezza, preoccupandoci per il benessere nostro e di tutti gli altri esseri come se fossimo un tutt’ uno, per capire come siamo tutti interconnessi: la spiritualità è semplicemente questo.

giovedì 21 novembre 2019

L' ultimo imperatore

Francesco Giuseppe I d’ Austria,

«Finché avrò vita, nessuno dovrà immischiarsi nel governo.» Francesco Giuseppe I d’ Asburgo; 

L’ epopea della Grande Guerra, che fino al 1939 fu il più grande conflitto mai combattuto dall’ umanità, consumò infinite battaglie in tutta Europa, gettando le maggiori potenze del tempo le une contro le altre e inducendo a cambiamenti epocali nell’ intero continente. Nemmeno il ciclone rappresentato dalle guerre napoleoniche, appena un secolo prima, era riuscito a spingersi a tanto. Il secolare Impero austro-ungarico e quello tedesco, ben più recente, caddero in favore di un sistema repubblicano, e mentre si formavano nuovi Stati a seguito del crollo degli imperi centrali, le nuove forze rivoluzionarie di sinistra, soprattutto socialiste e comuniste, e il militarismo di estrema destra avanzarono con forza fino al cuore del Vecchio Mondo, le cui nazioni, vincitrici o sconfitte che fossero, dovettero fare i conti con un’ economia disastrata, guardando con preoccupazione le classi meno abbienti avvicinarsi alle ideologie più estremizzate, dopo l’ esasperazione dell’ uso di manodopera nelle catene di montaggio.
Eppure, tutto era nato molto tempo prima, in un lontano preludio sotto la lunga ombra di un celeberrimo sovrano, Francesco Giuseppe I d’ Asburgo, quarto e penultimo imperatore austriaco, senza il quale non è esagerato affermare che la storia recente d’ Europa si sarebbe evoluta in modo alquanto diverso. Ricordato prevalentemente come il marito innamorato della leggendaria imperatrice Elisabetta, egli fu un personaggio estremamente ambiguo e contradditorio, dai tratti sfaccettati e spesso condannato come tiranno. Il suo lunghissimo regno, durato quasi sessantotto anni, partito il 2 dicembre 1848 e conclusosi il 21 novembre 1916, fece di lui il signore più longevo della sua dinastia, e con ogni probabilità il monarca più longevo di sempre, ma la sua mentalità rigida e spiccatamente conservatrice, legata ad un passato ormai trascorso, lo portarono ad una politica assolutistica e accentratrice, ormai del tutto inadatta ai tempi e alle necessità del momento, incapace di rispondere ai bisogni di modernizzazione e riforme e alle richieste di autonomia da parte delle amministrazioni locali e degli svariati popoli residenti entro i confini imperiali. Mosso da un forte desiderio di imporre il potere di Vienna nei Balcani e da una sovrastima delle sue forze militari, dichiarò guerra alla Serbia, contribuendo in prima persona, nel quadro del meccanismo di alleanze tra potenze europee, a scatenare il primo conflitto mondiale. La sua tendenza a confermare l’ autorità del sovrano come il cuore della vita dell’ Impero, convinto com’ era del diritto divino dei re, fu una causa fondamentale nella drammatica caduta della secolare monarchia asburgica. Come uomo visse varie tragedie, come la fucilazione in Messico del fratello, il suicidio dell’ unico figlio maschio ed erede al trono, l’ assassinio della moglie e quello del nipote, nuovo principe ereditario.
Francesco Giuseppe in giovane età;

Francesco Giuseppe nacque nel Castello di Schönbrunn, a Vienna, il 18 agosto del 1830, figlio maggiore dell’ arciduca Francesco Carlo d’ Asburgo-Lorena, figlio minore dell’ imperatore Francesco I, e di sua moglie Sofia di Wittelsbach, principessa di Baviera, donna intelligente e di idee conservatrici. Dopo di lui, i genitori ebbero altri quattro figli, Massimiliano, Carlo Ludovico, Ludovico Vittorio e Maria Anna. Il padre era cresciuto con la coscienza di un secondogenito, con l’ idea che difficilmente sarebbe salito al trono, coltivando quindi numerose passioni anche al di fuori della corte austriaca, interessandosi al teatro e alla caccia, mentre la madre era una donna assai ambiziosa, ferma e con una forte disposizione al comando. Nato nella famosa reggia imperiale in cui tra il 1814 e il 1815 si era tenuto il Congresso di Vienna, conferenza a cui parteciparono le principali potenze europee allo scopo di ristabilire, ormai anacronisticamente, il potere dei sovrani assoluti e l’ Ancien Régime precedenti la Rivoluzione francese e le guerre napoleoniche, a cinque anni perse il nonno, fratello di Maria Luisa, seconda consorte di Napoleone Bonaparte, nonché ultimo imperatore del Sacro Romano Impero, morto a settantasette anni a causa di una febbre improvvisa dopo quarantatré anni di regno, e il principe Ferdinando, fratello di suo padre, salì al trono come Ferdinando I. Il nuovo kaiser, tuttavia, era di salute piuttosto cagionevole, soffrendo di epilessia, rachitismo e idrocefalo, cosa che non gli aveva consentito di avere un’ educazione appropriata al ruolo che la sua primogenitura gli aveva imposto. Peraltro, data la sua scarsa capacità di imposizione, il padre Francesco aveva predisposto un gabinetto di governo noto come Conferenza di Stato Segreta, un organismo presieduto da Klemens von Metternich, Primo ministro dell’ Impero e convinto sostenitore dell’ assolutismo monarchico tradizionale, con il compito di governare in vece del sovrano pur rimanendo nell’ ombra, in quanto la figura del regnante doveva apparire come l’ unica e costante guida dello Stato. Poiché il nuovo monarca, sposato con Maria Anna di Savoia, non aveva figli, forse perché incapace di congiungersi con la moglie, malvista a corte per la sua provenienza italiana, Francesco Carlo divenne l’ erede al trono del fratello maggiore, ma questi rifiutò in ottemperanza al volere della moglie Sofia, quindi il nuovo principe ereditario divenne il piccolo Francesco Giuseppe, che crebbe sotto l’ attenta gestione materna, intenta a modellare il futuro signore ideale dell’ Impero, che proprio in quegli anni era scosso dai moti di indipendenza nei domini d’ Italia e Ungheria.
L’ arciduchessa Sofia, madre dell’ imperatore;

Affidato a due precettori, un diplomatico e un colonnello, il piccolo arciduca ricevette una rigidissima educazione, dettata dalle antiche regole di corte e incentrata prevalentemente su temi politici e militari. Durante i festeggiamenti del suo tredicesimo compleanno fu nominato colonnello del 3º reggimento Dragoni, e da allora iniziò ad essere ritratto in dipinti in cui appariva con l’ uniforme grigia ufficiale, la sua preferita sia nei momenti solenni e militari che nella vita quotidiana, che l’ avrebbe reso famoso. L’ energica madre Sofia, una delle poche persone a corte ad avere sempre le idee chiare, gli trasmise la propria concezione sull’ arte del governo, pur non trascurando i suoi interessi principali, educandolo perfettamente in tono con i valori fondamentali della Restaurazione. Il giovane erede al trono amava la caccia e il ballo, che praticava con regolarità, apprezzando nello specifico le musiche di Strauss e i suoi valzer, particolare predilezione che l’ avrebbe accompagnato per il resto della vita. Amava poco l’ arte e la letteratura, leggendo pochissimo e riservando quindi poca considerazione ai letterati.
Il 1848 fu l’ anno della Primavera dei popoli, un’ ondata di moti rivoluzionari che sconvolsero l’ Europa, e l’ Impero austriaco ne fu particolarmente toccato, poiché in Boemia, Ungheria e nella stessa Vienna il popolo si rivoltò contro la Corona pretendendo riforme, una costituzione democratica e la fine della censura. Il conte Metternich, simbolo odiato del periodo della Restaurazione, si dimise e fuggì in Gran Bretagna, e poco dopo anche il kaiser Ferdinando fu costretto a ritirarsi a Innsbruck. Le truppe imperiali bombardarono i quartieri popolari viennesi, e dopo una settimana assaltarono alla baionetta le ultime sacche di resistenza, trucidando oltre duemila insorti e sancendo la condanna a morte o a lunghi anni di carcere a danno di migliaia di cittadini. Nominato governatore della Boemia, pur senza effettivamente prendere possesso dell’ incarico, Francesco Giuseppe venne mandato al seguito del feldmaresciallo Josef Radetzky, comandante militare del Lombardo-Veneto e veterano delle guerre contro il Primo Impero francese e quello ottomano, come osservatore nella sua campagna atta a sedare le rivolte, che facevano temere una vera e propria rivoluzione istigata dal Regno di Piemonte, intento a unificare l’ Italia attorno al proprio trono. Dopo molti scontri con i rivoltosi e i piemontesi, partendo da Milano e proseguendo attraverso Santa Lucia fino al Bastione di Santo Spirito, Radetzky riuscì a riprendere possesso dei territori perduti.
Per evitare ulteriori problemi e scongiurare il rischio di nuove sollevazioni, su consiglio del principe Felix Schwarzenberg e della stessa cognata Sofia, che voleva dare al popolo ribelle un avvertimento, Ferdinando I rinunciò al trono in favore di Francesco Giuseppe, appena diciottenne, che per l’ occasione venne convocato nella sede momentanea della corte di Innsbruck. Il sovrano abdicatario formalizzò le proprie dimissioni il successivo 2 dicembre, ritirandosi poi al castello reale di Praga, ove si dedicò alla gestione dei possedimenti ricevuti in eredità, che seppe far fruttare accumulando una notevole fortuna personale.
La reggia di Schönbrunn;

I primi anni regno di Francesco Giuseppe I furono molto difficili. Sotto la guida del nuovo Primo ministro, il principe Felix Schwarzenberg, venne convinto ad intraprendere una strada cauta, concedendo allo Stato una costituzione nel marzo 1849. Era peraltro necessaria un’ azione militare nei confronti degli ungheresi, ribellatisi in nome dell’ indipendenza. In Italia, frattanto, re Carlo Alberto di Savoia incominciò le ostilità nel desiderio di annettere il Lombardo-Veneto al reame piemontese, ma ben presto venne sconfitto in maniera determinante da Radetzky con la Battaglia di Novara, costringendolo poi ad abdicare in favore del figlio, Vittorio Emanuele II. In Ungheria la situazione era più pericolosa, e sentendo la necessità di imporsi in quella zona, il kaiser domandò aiuto allo zar Nicola I di Russia, nel desiderio di «evitare che l’ insurrezione ungherese si sviluppasse in una calamità europea». L’ esercito russo entrò in Ungheria in aiuto degli austriaci, e la rivoluzione venne soppressa sul finire dell’ estate del 1849. In virtù del ristabilimento dell’ ordine in tutto l’ Impero, sostenendo apertamente il dogma della monarchia per diritto divino, il giovane imperatore ritirò le concessioni costituzionali appena fatte e inaugurò una politica assolutista e centralista, guidata dal Ministro degli interni, Alexander Bach. Negli anni successivi, Vienna rinnovò la propria posizione sulla scena internazionale e, sotto la guida del principe Schwarzenberg, poté contenere il piano del Regno di Prussia atto a creare una Confederazione tedesca sotto la propria influenza, a netto svantaggio dell’ Impero austriaco. Il 5 aprile 1852, tuttavia, il Primo ministro morì a causa di un ictus a quasi cinquantadue anni: la sua prematura dipartita fu un duro colpo per il kaiser, che non potendo riempire il vuoto politico in quanto all’ orizzonte mancava uno statista di eguale statura assunse personalmente l’ incarico di Primo ministro.
Malgrado la sua vasta cultura, Francesco Giuseppe fu uomo di intelligenza limitata in quanto non seppe mai scegliersi collaboratori di vaste vedute, in grado di tutelare adeguatamente gli interessi della politica sia interna che estera dell’ Impero. Capace di decisioni dure come le repressioni e convinto conservatore, ristabilì la posizione dominante della Chiesa cattolica in molti ambiti dello Stato, abolendo praticamente tutte le leggi con cui i suoi predecessori avevano cercato di limitare l’ influenza delle gerarchie ecclesiastiche. Non riconobbe le esigenze della borghesia produttiva e dei vari movimenti nazionali, non riuscendo quindi a ridare unità all’ Impero e a stimolare lo sviluppo economico necessario a mantenere lo Stato al rango di grande potenza. Da uomo d’ onore manteneva sempre i patti, ma appena le difficili situazioni gli permettevano di tirarsi indietro, sfruttava la gradita opportunità per dare spazio alla sua tendenza assolutistica.
La propaganda ufficiale operò sempre molto attivamente durante il suo regno, presentandolo alla sudditanza sempre dedito al lavoro, cosa effettivamente vera, in quanto si alzava all’ alba e lavorava per ore studiando attentamente i fascicoli, ascoltando le opinioni se le reputava necessarie, ma in un contesto più dimesso, con un’ etichetta rituale assai attenuata, abituato a pranzare presso la scrivania, parco nei gusti e con un solo piatto di carne e verdura unitamente a un bicchiere di birra bavarese, mentre per cena si concedeva yogurt e pane integrale, in modesti servizi di piatti riservando quelli preziosi per le grandi occasioni. La sontuosa vita di corte veniva a sua volta presentata in modo ben più modesto, con il kaiser dedito a vizi popolari quali i sigari. Le persone a lui vicine trasmisero il ricordo di un uomo tradizionalista e sempre legato al passato, che vestiva secondo le mode della sua adolescenza e non accettando mai di installare a corte un bagno con acqua calda e corrente, essendo legato al bagno in tinozza. Un uomo senza amici, profondamente conscio del proprio ruolo, che si preoccupava di essere considerato sempre e da tutti unicamente come il sovrano, sostenitore di un assolutismo che viveva come servizio. Un uomo cortese pur mantenendo le distanze, dotato di un’ eccellente memoria.
Elisabetta di Baviera;

Il 18 febbraio del 1853, ormai a qualche tempo dalle repressioni, mentre passeggiava con il conte Maximilian Karl Lamoral O’ Donnell, discendente dalla nobiltà irlandese, Francesco Giuseppe scampò ad un tentativo di assassinio da parte di János Libény, un operaio tessile ungherese appena ventiduenne che intendeva vendicare le centinaia di martiri della rivolta del proprio popolo, impiccati nella città di Arad nel settembre 1849. Riuscito ad approfittare della disattenzione della scorta, l’ aspirante assassino non riuscì a pugnalare alla gola il bersaglio dal momento che la lama del pugnale rimase impigliata nella fibbia di metallo del colletto della sua divisa. Immediatamente bloccato e imprigionato, l’ attentatore venne condannato a morte per impiccagione nella prigione di Simmeringer, dopo soli otto giorni.
Nel successivo inverno, la madre Sofia, sempre presente nella vita sia personale che politica del figlio, iniziò a programmare un adeguato matrimonio sulla base di precisi criteri politici e dinastici, preferibilmente con una consanguinea di sangue tedesco con cui rafforzare la Corona austriaca nel mondo germanico. Dopo due fallite iniziative con una principessa prussiana e una sassone, discusse con la propria sorella, la duchessa Ludovica di Wittelsbach, per far sposare l’ imperatore con sua figlia Elena, che per quanto appartenesse al ramo cadetto della famiglia reale bavarese avrebbe rappresento ugualmente un utile e saldo legame con una delle regioni tedesche e cattoliche più fedeli all’ Austria. Le due sorelle decisero quindi di far incontrare i figli alla residenza estiva di Bad Ischl, in Alta Austria, durante la festa di compleanno di Francesco Giuseppe, e annunciare pubblicamente il loro fidanzamento. Tuttavia, Ludovica volle portare con sé anche la sua quarta figlia, Elisabetta, sperando di strapparla alla malinconia in cui era sprofondata e al tempo stesso di valutare un suo possibile fidanzamento con Carlo Ludovico, fratello minore del kaiser. Nel pomeriggio del 16 agosto vi fu un primo formale incontro, in cui fu evidente a tutti che il monarca si era infatuato non della diciannovenne Elena, ma di Elisabetta. Il giorno dopo, egli disse alla madre che nonostante il suo parere aveva scelto proprio Elisabetta: nel ricevimento previsto per quella sera ballò con la prescelta, e alla cena del 18 agosto, durante la celebrazione del compleanno, lei venne fatta sedere accanto a lui. Il giorno dopo, alla tradizionale consegna del bouquet nuziale per conto dell’ imperatore, Ludovica domandò alla figlia se fosse favorevole alle nozze, e, una volta espresso, l’ assenso venne comunicato per iscritto a Sofia. Da allora fino al successivo 31 agosto, la coppia di fidanzati trascorse molto tempo insieme, mostrandosi pubblicamente, mentre avevano luogo le trattative con la Santa Sede per ottenere la dispensa papale affinché i promessi sposi, cugini di primo grado, potessero sposarsi: questa stretta parentela, elemento abituale nel contesto dei matrimoni reali del tempo, fu praticamente ignorata sebbene diversi principi sia tra gli Asburgo che tra gli Wittelsbach avessero già mostrato imperfezioni ereditarie. Nello stesso periodo venne rapidamente allestito il corredo della sposa, pagato quasi del tutto dallo sposo anziché dal padre della sposa.
Francesco Giuseppe ed Elisabetta si sposarono il 24 aprile 1854 nella Chiesa degli Agostiniani di Vienna, e da quel momento lei si dimostrò sempre una figura importante nelle scelte di lui. Il matrimonio, uno dei più fastosi di sempre, fu tuttavia un incubo per la sposa fin dal primo giorno: cresciuta nelle campagne bavaresi, si ritrovò d’ un tratto nella capitale di un Impero multietnico e multiculturale, abitata da trenta milioni di abitanti; nata in un matrimonio infelice, con un padre anticonformista e amante dei viaggi, non particolarmente interessato alla vita familiare, e una madre che non partecipava alla vita di corte bavarese, preferendo rimanere in disparte e occuparsi personalmente dell’ educazione dei figli, cosa assai singolare in quei tempi; aveva maturato un animo timido e sensibile, ed era cresciuta con molta semplicità evitando di sviluppare il comune orgoglio aristocratico, venendo abituata sin da piccola a trascurare i formalismi e a occuparsi dei poveri e degli infermi. Non avendo mai ricevuto l’ educazione tipica di una principessa reale, non ballava, non parlava lingue straniere, e di fronte al rigido protocollo di corte si sentì sempre profondamente a disagio. Dal fidanzamento fino alle nozze aveva affrontato un corso di studio intensivo, nella speranza di colmare le numerose lacune della sua scarsa istruzione, dovendo imparare al più presto il francese, l’ italiano e soprattutto la storia austriaca. Non fu ben ricevuta a corte, dove si dava per scontato che ognuno sapesse da subito fare la propria parte alla perfezione. Marito e moglie trascorsero la luna di miele nel castello di Laxembourg, da dove lui rientrava quotidianamente a Vienna per occuparsi di politica, allora turbata dalla guerra di Crimea, risultando quindi piuttosto assente. La vita per la novella imperatrice fu penosa sin dalla prima notte di nozze: la tradizione voleva infatti che le madri dei due giovani sposi reali attendessero sulla porta che il matrimonio fosse consumato, ma lei in proposito era inesperta e solo dopo tre giorni venne finalmente dato il tanto atteso annuncio.
Dopo questo scoglio iniziale, le cose purtroppo non migliorarono affatto. La suocera Sofia si assunse il compito di trasformare la nuora in una perfetta imperatrice, ma agì con durezza e restando fermamente attaccata all’ etichetta, finendo per inimicarsi la nuora, ai cui occhi appariva come una donna malvagia. Si racconta che marito e moglie si amassero molto e che vi fosse grande rispetto tra loro, e che i problemi fossero costituiti da tutto ciò che li circondava. Intorno alle loro figure, si crearono subito miti e luoghi comuni che, rafforzati dalla stampa rosa e soprattutto dal cinema un secolo dopo, fecero di Elisabetta una «regina del cuore» come ancora oggi viene ricordata. Francesco Giuseppe amava la consorte, ma non sapeva niente di lei e non la capiva, fu totalmente estraneo al mondo in cui lei viveva. Non ne vide le sofferenze, era completamente assorbito dagli affari di Stato. Ben presto intrattennero rapporti puramente formali, benché le cronache li descrissero sempre innamorati.
Francesco Giuseppe ed Elisabetta nei primi anni di matrimonio;

Il miracolo economico dell’ economia danubiana fu uno dei principali eventi attribuiti al regno di Francesco Giuseppe. Dopo la demolizione delle mura medievali per ordine dello stesso imperatore, la città di Vienna venne completamente riformata. Fu creata la Ringstraße, un grande anello stradale di congiunzione ancora oggi esistente, e attorno a tale area si svilupparono quartieri raffinati con edifici pubblici e case private in stile della seconda metà dell’ Ottocento che affascinò molto il sovrano nella sua concezione di homo faber della nuova capitale austriaca. Per sua inclinazione personale, il kaiser diffuse moltissimo il gusto dell’ «Austria cattolica» promuovendo la costruzione e il restauro di importanti edifici di culto nell’ Impero. L’ arte ufficiale era vista esclusivamente come un modo per celebrare la corte, la nobiltà e la ricca borghesia, in uno stile formale e solenne, che si ispirava alle correnti del neoclassico e del neo romantico. Contro le convenzioni accademiche sorse però il movimento della Secessione viennese, guidato da Gustav Klimt.
La politica di Francesco Giuseppe era volta soprattutto verso l’ occidente, alla tutela dei possedimenti italiani e alla supremazia sui frammentati regni e principati tedeschi, ma dalla morte di Schwarzenberg denotò un sempre maggiore accentramento accompagnato da un forte atteggiamento repressivo, che condusse peraltro a gravi errori strategici come il mancato intervento nella Guerra di Crimea, che isolò l’ Austria permettendo invece a Vittorio Emanuele II di Savoia di allearsi con l’ imperatore Napoleone III dei francesi e avvicinarsi alla Gran Bretagna. La sua ostinazione nei riguardi del valore assoluto dell’ onore lo rese incapace alla diplomazia che in quegli anni richiedeva una crescente flessibilità. I suoi avversari erano semplicemente più lungimiranti e meno prevedibili sia di lui che dei suoi consiglieri. Nel tardo novembre 1856, il kaiser e la sua imperatrice iniziarono un viaggio diplomatico nel Lombardo-Veneto, nel quale lui sperava che la grazia e il fascino di lei potessero addolcire la popolazione italiana, ormai apertamente ostile alla Corona asburgica, tanto da chiamarlo apertamente per scherzo o addirittura spregio «Cecco Beppe». Trascorsero il capodanno a Venezia, città che ricordava il duro assedio, la fame ed i bombardamenti del 1849: il corteo dei navigli reali fu accolto nella più assoluta ed ostentata indifferenza, tutte le finestre erano sprangate, e nessun abitante si mostrò per le calli e i ponti, obbligando il corteo a proseguire in una atmosfera surreale con un silenzio di tomba che, come il sovrano affermò, «uccideva più di una pallottola». Il successivo 15 gennaio 1857 i reali entrarono pomposamente a Milano: l’ intera popolazione, e soprattutto gli aristocratici e i ricchi, ostentarono verso entrambi un atteggiamento glaciale, se non di disprezzo, per tutto il tempo, tanto che nel ricevimento previsto alla Scala gli aristocratici locali mandarono al loro posto i propri servitori.
Successivamente, nel 1859, allo scoppio della nuova guerra con i Savoia, non soddisfatto dalla rotta strategica del feldmaresciallo Ferenc Gyulay, Francesco Giuseppe lo rimosse dall’ incarico assumendo personalmente il comando militare in Italia, ma fu duramente sconfitto a Solferino e a San Martino, una sanguinosa battaglia a seguito della quale fu costretto a firmare l’ Armistizio di Villafranca, riuscendo a conservare solo il Veneto.
Massimiliano I del Messico;

Nel 1863, su proposta della nobiltà messicana conservatrice e appoggiato da Napoleone III, interessato allo sfruttamento delle ricche miniere nordoccidentali del Paese, il fratello minore dell’ imperatore, Massimiliano, in parte sospinto dall’ ambiziosa e bella moglie Carlotta di Sassonia-Coburgo-Gotha, della famiglia reale belga, venne eletto e proclamato imperatore del Messico, Paese allora in conflitto con la Francia imperiale a causa della sospensione del debito nei suoi riguardi. Animato dalle idee progressiste allora in voga in Europa, Massimiliano I favorì il sorgere di una monarchia costituzionale, dividendo i poteri con un congresso democraticamente eletto, ed ispirò leggi che abolivano il lavoro infantile, limitavano la durata della giornata lavorativa, ed eliminò il sistema della proprietà terriera che diffondeva lo status servile tra gli indios. Favorì la libertà di religione e l’ estensione del diritto di voto alle classi contadine. Tutto ciò gli valse la disapprovazione degli alleati conservatori, mentre i liberali rifiutavano l’ idea di un monarca, specie se sostenuto dagli stranieri, che fin dall’ inizio ebbe ben pochi sostenitori tra la sudditanza. L’ opposizione si coagulò intorno all’ avvocato Benito Juárez, il deposto Presidente della Repubblica. I rivoluzionari antimonarchici erano riforniti di armi dagli Stati Uniti, appena usciti dalla Guerra di Secessione, che di fatto aveva permesso ai francesi di occupare il Messico e instaurare la monarchia, disattendendo i principi fondamentali della Dottrina Monroe, tesa alla supremazia degli Stati Uniti nel continente americano. Nel 1866, di fronte all’ aumento dell’ opposizione messicana e al ritorno in scena degli statunitensi, i francesi si ritirarono, lasciando Massimiliano in balia dei suoi oppositori. Una volta appreso che gli appelli di Carlotta presso Parigi, Vienna e la Roma pontificia erano rimasti inascoltati, egli si ritirò a Santiago de Querétaro, ove sostenne un assedio durato alcune settimane. In seguito, l’ 11 maggio 1867, venne catturato mentre tentava la fuga, e, sottoposto a una corte marziale, fu condannato alla fucilazione e giustiziato il 19 giugno 1867 da un plotone di esecuzione.
La condanna a morte di Massimiliano fu un immenso dolore per Francesco Giuseppe, il primo di una lunga serie di drammi famigliari che nel tempo l’ avrebbero reso un uomo sempre più solo e malinconico. Per la madre Sofia fu un dolore incommensurabile, essendo il suo figlio prediletto, nato per coincidenza mentre moriva Napoleone II, lo sfortunato figlio di Napoleone Bonaparte e Maria Luisa d’ Asburgo-Lorena, vissuto proprio alla corte asburgica alla caduta del Primo Impero di Francia, e a cui Sofia era stata unita in un profondo e fraterno legame d’ affetto: secondo alcune malelingue, assolutamente infondate, sarebbe stato un figlio adulterino avuto con il Bonaparte in esilio. Per lei il trauma fu tale che non si riprese mai più, rifiutando di uscire dalle sue stanze.
Il kaiser durante un incontro ufficiale;

Sul piano politico, nel 1866 l’ imperatore d’ Austria fu alle prese con le crescenti mire egemoniche della Prussia, che già nel Settecento aveva rivaleggiato con l’ Austria: in Germania era infatti nato un forte movimento per l’ unità nazionale, e il reame degli Hohenzollern, relativamente piccolo ma con grandi ambizioni, rivolse una notevole aggressività soprattutto contro gli Asburgo, cercando con tutti i mezzi di escluderli da una futura Germania unita e di attirare gli altri Stati tedeschi sotto la propria influenza. Il Primo ministro Otto von Bismarck perseguì una politica con cui diede saldezza e importanza sia politica che diplomatica al modesto regno, agendo con grande spregiudicatezza e insolenza provocando una guerra tra il 14 giugno e il 23 agosto 1866 contro Vienna, che venne sconfitta e a cui impose tramite le condizioni dell’ armistizio di Nikolsburg, sottoscritto il 26 luglio 1866, la cessione del Veneto ai Savoia e il completo ritiro dai territori occupati, oltre che risarcimenti di guerra per quaranta milioni di talleri.
In seguito, Francesco Giuseppe dovette pensare ai mai risolti problemi con l’ Ungheria. Fin dal 1848 vedeva gli ungheresi come ribelli, e a corte erano piuttosto malvisti. Il suo matrimonio con Elisabetta, nonostante la nascita di tre figli, Sofia, Gisella e Rodolfo, continuava a rivelarsi un’ unione molto difficile. La primogenita, peraltro, morì nel 1857, a soli due anni, a causa della febbre durante un viaggio in Ungheria. Per Elisabetta il dolore fu tale che dovette rassegnarsi alla triste prospettiva di vivere succube delle decisioni degli altri, e cominciò a soffrire di gravissime forme di depressione che l’ avrebbero portata a fuggire spesso dall’ opprimente corte viennese e a dedicarsi al proprio corpo, praticamente la sola cosa su cui le era permesso di comandare. Iniziò così anche a soffrire di anoressia e di altre malattie psichiche. Stanco delle eterne liti tra madre e moglie e della crescente chiusura di lei nei suoi confronti, lui viveva in modo spartano, in tono con lo stile militare con cui era cresciuto fin dall’ infanzia, alzandosi alle 4:00 del mattino e lavorando fino alle 21:00, lavandosi con acqua gelata, mentre lei era amante della campagna, dei cavalli e della vita senza regole e costrizioni. Sanissima in gioventù, per sopperire alle sue crescenti crisi di nervi si sottopose a diete drastiche e intensi esercizi di ginnastica. Privata dei suoi affetti e delle sue abitudini e al corrente delle infedeltà del marito, desideroso di trovare conforto altrove e che a differenza di lei era appoggiato dalla corte, Elisabetta si ammalò accusando per mesi una tosse continua, febbre e stati di ansia. Solo a molti anni di distanza si rese conto che la suocera aveva sempre agito senza cattiveria, pur in maniera imperiosa e imponendo sacrifici come il distacco dai figli, affidati ad educatrici e bambinaie severamente selezionate da lei stessa, semplicemente perché nel mondo dei reali gli interessi della Corona dovevano sempre avere la priorità assoluta. A differenza dell’ arciduchessa, rispettata da tutta la corte, l’ imperatrice veniva fortemente criticata per la scarsa istruzione e l’ inesistente attitudine alla vita di società, tratti ereditati dal padre Massimiliano e che dopo il matrimonio si accentuarono spiccatamente: Vienna era per lei il simbolo di tutti i mali, e la corte altro non le pareva che un luogo intollerabile e irrimediabilmente ostile. Smise di credere alla monarchia, e per contro percepì i cambiamenti che stavano avendo luogo tanto nell’ Impero quanto nel resto d’ Europa.
Essendo stata allieva di un precettore ungherese, convinto sostenitore dell’ indipendenza eppure chiamato a istruirla come imperatrice, si appassionò immensamente all’ Ungheria studiandone la lingua e passando molto tempo in tale dominio, divenendone una paladina. Maturò presto un profondissimo legame con questa terra, al punto da essere soprannominata «la Signora ungherese», con sprezzo a Vienna ma con affetto in Ungheria. Sentiva che tale popolo aveva un temperamento molto simile al suo, e tale vicinanza ai nemici di Vienna le suscitò prontamente immense critiche. Tutto ciò ebbe inaspettatamente importanti conseguenze per la Corona, in quanto Elisabetta ebbe modo di entrare in contatto con il conte Gyula Andrássy il Vecchio, Primo ministro d’ Ungheria, ed entrambi favorirono un compromesso, l’ Ausgleich, che avrebbe consentito una condizione di parità dell’ Ungheria con l’ Austria all’ interno dell’ Impero, facendo dell’ imperatore d’ Austria il re d’ Ungheria e consentendo l’ istituzione dell’ Impero austroungarico. Convinto della validità di tale prospettiva, Francesco Giuseppe accettò, e l’ 8 giugno 1867, venne incoronato insieme a Elisabetta re d’ Ungheria nella chiesa di Mattia di Budapest, la capitale ungherese. Tale evento, un vero trionfo diplomatico, tuttavia scontentò molto la Boemia, il terzo importante componente dell’ Impero, e non risolse il problema etnico, in quanto la duplice monarchia mantenne su un livello piramidale le varie popolazioni imperiali, ponendo al vertice solo gli austriaci e gli ungheresi e mettendo in minoranza le popolazioni slave. Infatti, gli austriaci ottennero il sessantasette percento dei seggi nel parlamento di Vienna e i magiari il novanta percento di quello di Budapest, anche se entrambe le popolazioni non superavano la metà nei rispettivi Stati.
Il compromesso austro-ungherese fu un evento ampiamente ripreso dalla stampa e dalla propaganda imperiali, salutandolo come un grande trionfo, e fece di Elisabetta una grandissima figura. Fu proprio a Budapest che nel 1868 lei volle far nascere l’ ultima figlia, Maria Valeria, detta «la Figlia Ungherese», quella che amò di più e di cui poté finalmente prendersi cura direttamente anziché lasciarla alla suocera. La nascita dell’ ultima figlia fu l’ occasione che vide riavvicinarsi Francesco Giuseppe ed Elisabetta, e a seguito di questi grandi eventi, il kaiser in particolare si convertì a una maggiore tolleranza religiosa e culturale che molto contribuì a far diventare Vienna uno dei centri più vivaci di tutta Europa.
Francesco Giuseppe nel 1885;

Nel 1871, la Prussia completò l’ unificazione della Germania sotto il regno di Guglielmo I di Hohenzollern, che divenne il primo imperatore tedesco. Abilissimo diplomatico, tra il 1871 e il 1890 il conte Bismark, ora cancelliere del Reich, costruì un sistema di alleanze che incluse l’ Austria-Ungheria come alleato speciale del neonato Impero germanico, in pieno sviluppo industriale e deciso ad inserirsi anche nella spartizione coloniale in Africa e Asia.
In occasione di una serata in teatro, il 9 maggio 1872, l’ arciduchessa Sofia venne colpita da un raffreddore, che in breve si trasformò in polmonite. Le sue condizioni parvero subito disperate. Per dieci giorni la famiglia imperiale rimase al suo capezzale. La nuora Elisabetta, che si trovava a Merano, tornò di corsa a Vienna. Morì la notte del 27 maggio 1872 all’ età di sessantasette anni: per l’ Austria fu come perdere l’ effettivo imperatore, mentre per Francesco Giuseppe fu la fine di ogni sostegno affettivo, morale e politico. Tre anni dopo, il 29 giugno 1875, a Praga, si spense invece a ottantadue anni l’ ex imperatore Ferdinando, che negli anni aveva giudicato in maniera negativa e addirittura sarcastica l’ opera del suo successore: poco dopo la battaglia di Sadowa, riandando con la mente alle sconfitte del 1859, alla perdita della Lombardia, all’ esclusione definitiva dell’ Austria dalla Germania, alla cessione del Veneto e all’ umiliazione inflitta dalla Prussia, affermò: «Perché mi hanno cacciato via nel 1848? Sarei stato capace anch’ io, quanto mio nipote, di perdere delle battaglie!».
Per combattere la propria profonda solitudine e infelicità, l’ imperatore si concesse alcune amanti, e ogni relazione venne tollerata e celata al pubblico con il massimo tatto e rispetto nei riguardi del kaiser. Nel 1875 iniziò una relazione con la quindicenne Anna Heuduck, che incontrò per la prima volta in una passeggiata nel parco di Schönbrunn. Da qualche mese era sposata con un produttore di seta, Johann Heuduck, un alcolizzato cronico da cui divorziò nel 1878, in cambio di una generosa somma di denaro. La relazione tra Francesco Giuseppe e la giovane Anna proseguì benché lei in seguito si risposò con Franz Nahowski, un funzionario ferroviario con il vizio del gioco che fu alla base di svariati e grossi debiti che lei poté pagare solamente grazie alle somme ricevute dal monarca.
L’ 8 marzo 1878, dopo una vita trascorsa come privato cittadino, passeggiando in campagna e cacciando, partecipando assai raramente alla vita di corte e apparendo in pochissime occasioni formali, morì infine il padre Francesco Carlo, a settantacinque anni.
Il figlio Rodolfo e la moglie Stefania;

Consapevole di essere a capo di un Impero vecchio ormai e segnato delle continue azioni militari atte a difendere con risultati scarsi la propria integrità territoriale contro i nazionalismi in Italia e nei Balcani e volendo riequilibrare la propria posizione, Francesco Giuseppe si impegnò nel 1879 nella Duplice alleanza con la Germania, un obbligo di soccorso militare reciproco in caso di aggressione voluto principalmente da Bismarck per fronteggiare un eventuale attacco della Russia, che dopo aver sconfitto l’ Impero ottomano nella guerra del 1877-1878, scatenata a seguito delle sollevazioni degli slavi cristiani dei territori ottomani in Europa, aveva accresciuto il proprio potere nei Balcani. Nel 1878, l’ Impero asburgico ricevette l’ amministrazione fiduciaria della Bosnia-Erzegovina, secondo quanto previsto dal Congresso di Berlino dello stesso anno, e come molti presagivano questa divenne poi una vera e propria annessione: la decisione contribuì sostanzialmente all’ allontanamento sempre maggiore della Russia.
In appoggio alle iniziative diplomatiche austriache, fra il 21 e il 31 ottobre 1881 il nuovo re e la regina d’ Italia, Umberto I e Margherita, fecero visita a Vienna ai sovrani d’ Austria-Ungheria. I Savoia fecero un’ ottima impressione alla corte viennese, soprattutto Margherita, che per grazia ed eleganza venne paragonata a Elisabetta. Lo stesso Umberto, figlio di Vittorio Emanuele II, un tipo rigido, severo e austero, fece una così buona impressione che il kaiser, suo cugino e antico avversario, gli concesse la nomina a colonnello onorario del 28º Reggimento fanteria: il gesto non mancò di suscitare polemiche presso l’ opinione pubblica italiana, visto che il reggimento austriaco di cui il re era stato fatto colonnello era lo stesso che aveva partecipato alla battaglia di Novara del 1849 e all’ occupazione di Brescia, partecipando attivamente alla spietata repressione che causò la morte di migliaia di uomini, donne e bambini bresciani. Volendo dare visibilità e peso internazionale al neonato Regno d’ Italia, che nel 1880 aveva indirizzato il proprio espansionismo territoriale verso il Nordafrica, soprattutto Tunisia e Libia, urtando le mire della Francia, la seconda minaccia a Berlino e Vienna dopo l’ Impero russo, Umberto fu un acceso sostenitore della Duplice alleanza e la successiva Alleanza dei Tre imperatori, ossia quello austriaco, tedesco e russo, e proprio in questo periodo il governo di Agostino Depretis venne a conoscenza che papa Leone XIII stava consultando i ministri degli esteri stranieri a proposito di un loro possibile intervento con cui ricostituire lo Stato Pontificio: l’ appoggio dell’ Austria, la nazione cattolica più prestigiosa, sarebbe stato di grande utilità per l’ Italia al fine di sviare un’ azione europea in aiuto del papato, e la conclusione di un’ alleanza con due potenze conservatrici sarebbe valsa sia a rafforzare la Corona sabauda di fronte ai movimenti repubblicani di ispirazione francese, sia ad assicurarla dall’ intervento di potenze straniere alleate del Santo Padre. Appena un anno dopo, quindi, l’ Italia, senza alleati e impossibilitata ad acquisire con mezzi pacifici i territori a maggioranza italiana ancora sotto il dominio di Vienna, entrò a far parte della Duplice Alleanza, che venne ribattezzata Triplice Alleanza.
La tenuta di Mayerling, ove Rodolfo si uccise con l’ amante;

I recenti accordi diplomatici garantirono all’ Europa un periodo di relativa tranquillità, e diedero a Francesco Giuseppe l’ impressione di poter proseguire in pace il suo regno. Tuttavia, un destino beffardo deluse ogni sua aspettativa, tanto nella vita politica quanto in quella privata, mettendo a dura prova la sua tempra. Nel 1889, infatti, il principe ereditario Rodolfo, suo unico figlio maschio, si suicidò ad appena trent’ anni insieme alla sua amante, la baronessa Maria Vetsera, di appena diciassette anni, nel casino di caccia di Mayerling, nella Bassa Austria. La sua morte fu un duro colpo sia personale che politico per entrambi i genitori, e destabilizzò la Corona: il padre l’ aveva sempre visto non solo come il proprio successore ma anche come un comandante alla vecchia maniera per un esercito e un governo conservatore che assicurasse la sopravvivenza delle antiche tradizioni, quindi aveva disposto il suo allontanamento dalla corte quando era ancora molto piccolo per impartirgli un’ educazione ed una disciplina militare durissime, che l’ avrebbero segnato irrimediabilmente. Quando Elisabetta aveva compreso ciò che stava avvenendo al figlio era riuscita a sottrarlo a tale educazione, dopo aver abbandonato Vienna e minacciato di non tornare finché non avesse ottenuto il controllo diretto della sua formazione, modellandola in modo da tener conto del suo interesse per le scienze naturali e l’ arte. In contrasto con il conservatorismo politico del padre e probabilmente ispirato dalla madre, Rodolfo aveva coltivato una visione politica spiccatamente liberale, dimostrandosi in più occasioni ostile al patto che legava Vienna a Berlino, incontrandosi più volentieri con i rappresentanti britannici e francesi. Aveva guardato con riguardo l’ Ungheria, e notoriamente curato frequentazioni con ambienti politici ritenuti sospetti come quelli socialisti, tanto da divenire un sorvegliato speciale da parte della polizia imperiale. Il padre gli aveva riconosciuto grandi doti diplomatiche, ma pur mandandolo in vari viaggi in Europa come rappresentante della Corona l’ aveva escluso dalla vita politica per via delle opinioni nettamente contrastanti tra loro.
Per volere del padre, il 10 maggio 1881 il principe ereditario aveva sposato la principessa belga Stefania di Sassonia-Coburgo-Gotha, con la pompa e lo splendore di un matrimonio di Stato. Classica unione dinastica, il matrimonio era entrato in crisi poco dopo la nascita nel 1883 dell’ unica figlia, Elisabetta: di carattere sottomesso e devota al marito a cui sentiva di dover dare un erede e mossa da una profonda fede cattolica, aveva comunque iniziato a dubitare delle sue idee, chiedendosi che cosa sarebbe rimasto dell’ Impero sotto il suo comando, mentre lui si era rifugiato nell’ alcol e nelle prostitute. Nel 1887, Rodolfo aveva acquistato un edificio di campagna a Mayerling, adattandolo a casino di caccia. Malgrado l’ infelice situazione, aveva continuato a frequentare la corte per non dare nell’ occhio, e nell’ autunno del 1888, proprio a un ballo tenutosi alla corte di Vienna, aveva rivisto dopo dieci anni la baronessa Maria Vetsera, rimasta innamorata fin dal loro primo incontro, tanto da dichiararsi pronta a tutto per lui. I due si erano ritirati alla tenuta di Mayerling il 29 gennaio 1889: lui era intimorito per il fatto che lei, oltre che minorenne, fosse già promessa al principe di Braganza, pur vedendo in lui l’ uomo della sua vita, sebbene si considerasse sempre più un fallito. Ormai sconvolto, l’ aveva convinta che era ormai giunto per lui il momento di morire, e lei aveva voluto condividere con lui il gesto estremo: secondo le ricostruzioni, il principe ereditario prima aveva ucciso lei con un colpo di pistola, ricomponendone poi il corpo morto sul letto con le mani giunte, per poi puntare l’ arma contro di sé e finirsi con un colpo alla tempia. I cadaveri vennero trovati da un valletto, Loschek, e da un amico, il conte Hoyos. Rodolfo aveva lasciato tre lettere, una per la moglie, una per la sorella Maria Valeria e la terza per la madre. Alla sorella raccomandava di lasciare l’ Austria con il marito una volta che il padre fosse morto, prevedendo la caduta dell’ Impero, mentre alla madre esprimeva amore e gratitudine. Per il padre, invece, non aveva lasciato nulla perché, come dichiarava nella missiva alla madre, non si sentiva degno di lui. Di fronte a questa immensa tragedia, Francesco Giuseppe venne prontamente assalito dai rimorsi per non aver capito l’ angoscia del figlio, mentre Elisabetta, per non appesantire ulteriormente il dolore del marito, cercò di farsi forza non dando a vedere il proprio strazio, piangendo di nascosto, al massimo sfogandosi con Maria Valeria. La notizia venne ovviamente ripresa dai giornali con un ampio risalto. I vari articoli parlarono di una morte improvvisa a causa di un attacco cardiaco, benché fosse trapelata la voce di un suicidio in risposta alle pretese del padre, deluso dalla sua vita sregolata e al pessimo andamento del suo matrimonio, affinché troncasse la sconveniente relazione. Il kaiser non poté nascondere a lungo la verità, giungendo quindi a dichiarare pubblicamente che il figlio si era tolto la vita, omettendo però sempre il particolare della presenza dell’ amante, il cui corpo era stato prontamente restituito alla famiglia in segreto, durante una squallida messinscena in cui era trasportato in una carrozza, con un bastone conficcato tra la schiena e il vestito, per tenerlo eretto dando l’ impressione che la giovane fosse ancora viva, volendo evitare uno scandalo. Solo in un secondo momento si scoprì che Rodolfo intendeva essere seppellito insieme a lei nella cappella dei Cistercensi, a Heiligenkreuz, nei pressi di Mayerling, in quanto la lettera contenente le disposizioni venne trovata solo dopo i funerali e la sepoltura presso la Cripta Imperiale di Vienna: separati nella vita, i due amanti rimasero tali anche nella morte.
La tragedia di Mayerling provocò la crisi definitiva del matrimonio fra Francesco Giuseppe ed Elisabetta: incoraggiato proprio da lei, lui cadde tra le braccia dell’ attrice Katharina Schratt, moglie dell’ aristocratico ungherese Nikolaus Kiss de Ittebe, conosciuta nel 1885 dopo un’ esibizione all’ Esposizione Industriale di Vienna che le era valso persino un invito al ricevimento per la visita dello zar Alessandro III; lei, invece, si lasciò definitivamente andare, così come abbandonò il loro matrimonio, vestendosi solo di nero e di rinunciando anche all’ amata poesia, che il consorte aveva sempre guardato con fastidio, riprendendo i suoi viaggi e apparendo al suo ultimo evento ufficiale nel 1896 in occasione dei mille anni dalla fondazione dell’ Ungheria a fianco del consorte, preferendo ormai vivere il più possibile lontano dalle folle e dalle corti. Il duplice suicidio del principe ereditario e della sua amante colpì moltissimo la fantasia popolare per l’ aspetto funestamente romantico della vicenda, eppure non ne venne percepito se non dopo lungo tempo il significato più profondo: se fosse sopravvissuto, si ritiene che il padre avrebbe accettato di abdicare in suo favore, aprendo in tal modo per l’ Impero una grande stagione di modernizzazione e riforme di cui tanto aveva bisogno, ma il giovane arciduca, di larghe vedute politiche, aveva intuito di non poter modificare in senso liberale le rigide istituzioni imperiali austriache. Quasi tre mesi dopo, il 20 aprile, sabato di Pasqua, nella vicina Braunau am Inn, un ufficiale doganale e la moglie, ex cameriera e domestica, diedero alla luce il loro quarto figlio: Adolf Hitler.
Sempre nel 1889, l’ amante dell’ imperatore, Anna Nahowski, venne a conoscenza del rapporto che lui aveva anche con la Schratt. Si diceva che durante la relazione questa venne ricompensata con uno stile di vita generoso tra cui una villa sul Gloriettegasse di Vienna, vicino a Schönbrunn, e un palazzo a tre piani sul Kärntner Ring, proprio di fronte alla Staatsoper di Vienna. Essendo addirittura una confidente e non una semplice amante, era soprannominata «l’ imperatrice senza corona». Le rimostranze della Nahowski portano il monarca alla decisione di allontanarla, facendole comunque intestare un ingente risarcimento economico per lei e la figlia Helene, di cui lui era probabilmente il padre, in cambio della firma di un contratto di silenzio.
Successivamente, il destino si accanì anche contro Elisabetta. Nel settembre 1898, infatti, l’ imperatrice si recò in incognito a Ginevra prendendo alloggio all’ Hotel Beau-Rivage, sul lungolago, dove già aveva soggiornato l’ anno precedente. Il 10 settembre, sempre vestita di nero e celando il viso dietro una veletta, un ventaglio o un ombrellino che la rendeva difficile da riconoscere, mentre si preparava a prendere il battello per Montreux, accompagnata dalla contessa Irma Sztáray, Luigi Lucheni, un anarchico italiano venticinquenne che lavorava come manovale e da qualche tempo parte di un gruppo anarchico, allora impegnato nel dibattito sull’ opportunità di un regicidio, dopo essersi informato sull’ indirizzo e le sembianze dell’ infelice sovrana, si appostò dietro un ippocastano, armato di una lima nascosta in un mazzo di fiori, e la colpì al petto con un solo colpo preciso, venendo arrestato poco dopo da quattro passanti, non lontano dal luogo dell’ attentato. Elisabetta si accasciò, ma si rialzò e riprese la corsa, non sentendo apparentemente nessun dolore: fu solo una volta arrivata sul battello che impallidì e svenne nelle braccia della contessa Sztáray. Il battello fece retromarcia e lei venne riportata nella sua camera d’ albergo, ove morì dopo appena un’ ora, senza aver più ripreso conoscenza. Aveva sessant’ anni. Lucheni, interrogato sui motivi del suo gesto, rispose: «Perché sono anarchico. Perché sono povero. Perché amo gli operai e voglio la morte dei ricchi.». Alla notizia della morte della consorte, Francesco Giuseppe, disperato dall’ ennesimo colpo inferto da un destino crudele, sedette su una sedia pronunciando una frase destinata a divenire celebre: «Nulla mi è stato risparmiato su questa terra.».
Dopo l’ assassinio di Elisabetta, il kaiser continuò la propria relazione con la Schratt per il resto della vita, con una sola interruzione tra il 1900 e il 1901 a causa di una divergenza di opinioni. Si disse che lei fosse ormai il solo conforto rimastogli nel tragico silenzio della sua casa.
L’ imperatore con il piccolo Carlo, futuro erede al trono;

Durante i primi anni del Novecento, l’ ormai vecchio e stanco imperatore compì svariati cambi di rotta nel contesto della politica interna, passando da alcune riforme federalistiche sino ai ritorni centralistici dell’ ultimo decennio dell’ Ottocento. Tuttavia, la sua figura restava sempre lontana dalle critiche più dirette, grazie ad un’ accurata propaganda. Ostile alla maggior parte delle tecnologie moderne, non usava mai il telefono, ormai diventato strumento indispensabile nel lavoro delle cancellerie e degli uffici di governo, al punto da non tollerarne nemmeno il suono. Non amava nemmeno le automobili e rimase sempre fedele alle carrozze e ai cavalli. La sola eccezione che si concesse fu il telegrafo, invenzione di cui faceva larghissimo uso.
In quel tempo, il nuovo re britannico, Edoardo VII, figlio e successore della leggendaria Vittoria di Hannover, si impegnò a mantenere buoni i rapporti con gli Asburgo e il loro Impero. Convinto com’ era dell’ importanza dei rapporti umani, trovava indispensabile che il sovrano della più importante corte protestante e quello della più importante corte cattolica dialogassero: il 31 agosto 1903 giunse quindi a Vienna per la sua prima e unica visita, e i quattro giorni di permanenza presso Francesco Giuseppe furono spesi essenzialmente nelle cortesie dinastiche, sollevando come unica questione politica quella relativa alla Macedonia, regione in mano ottomana e in uno stato di ribellione.
Prima di ripartire da Vienna, Edoardo parlò della questione con il Ministro degli Esteri austriaco, sollecitandolo ad avere un atteggiamento energico ma pacifico con l’ Impero ottomano, dichiarando peraltro che Londra e Vienna perseguivano una politica uguale, tesa a conservare il più a lungo possibile lo status quo nel Vicino Oriente e ad evitare una guerra che avrebbe avuto conseguenze di incalcolabile gravità in Europa. La visita di Edoardo fu la sola occasione in cui Francesco Giuseppe accettò di salire in automobile. Due mesi dopo, il 4 ottobre 1903, il kaiser e lo zar Nicola II si incontrarono a Mürzsteg con i rispettivi Ministri degli Esteri, accordandosi per una politica comune contro la Turchia, a cui fu intimato di attuare riforme in Macedonia per il rispetto di tutte le etnie e le confessioni religiose della regione.
Sebbene Francesco Giuseppe non potesse o addirittura intendesse ricambiare la visita del monarca britannico, riuscì a incontrarlo informalmente prima a Marienbad nell’ agosto 1905 e poi a Bad Ischl esattamente due anni dopo, particolare occasione voluta da Edoardo, e che per la prima volta fu una riunione politica fra i due monarchi e tra i rispettivi consiglieri diplomatici, sempre a proposito della Macedonia: i britannici sostenevano che bisognava rimuovere alla radice il problema costringendo gli ottomani a cessare le violenze razziali nella regione, evitando peraltro la minaccia di una guerra che dai Balcani avrebbe potuto allargarsi a tutta l’ Europa, mentre gli austriaci obiettavano che qualsiasi azione radicale avrebbe compromesso l’ equilibrio del fragile Impero ottomano, il cui crollo avrebbe provocato danni incalcolabili per la pace. L’ incontro non risolse la complicata questione macedone, ma servì a chiarire l’ atmosfera tra Gran Bretagna e Austria, e a rendere entrambi i governi meno sospettosi l’ uno verso l’ altro. Durante il loro ultimo incontro, avvenuto sempre a Bad Ischl il 12 agosto 1908 fra Edoardo e Francesco Giuseppe, il primo chiese all’ altro di intercedere presso Guglielmo II affinché rallentasse il riarmo navale germanico, ma si vide opporre un cortese ma irremovibile rifiuto.
L’ attentato di Sarajevo;

Frattanto, le potenze europee erano sempre più sull’ orlo di una guerra, per motivi sia politici che economici: Gran Bretagna e Impero tedesco volevano il primato industriale sul mondo. La Germania in particolare aveva assunto una preoccupante aggressività e ambizione coloniale in politica estera, vantando buone industrie chimiche e siderurgiche estrattive e una potente flotta che rivaleggiava con quella britannica. La Francia voleva riconquistare l’ Alsazia e la Lorena, ricche di ferro e carbone, che aveva dovuto cedere alla Germania nel 1870, con la sconfitta di Sedan. La Russia era interessata ai Balcani e voleva impedire che l’ Austria vi si espandesse. Il Regno di Serbia voleva fondare uno Stato formato dai Paesi limitrofi, abitati da popolazioni di lingua e cultura slave, ragion per cui ebbe luogo una mobilitazione generale contro di esso, caldeggiata dal Ministro degli Esteri austriaco Leopold Berchtold, che raccomandava l’ eliminazione della Serbia come Stato, mentre l’ Italia voleva unire al proprio territorio le ultime regioni di lingua italiana ancora sotto la Corona asburgica, ossia Friuli-Venezia Giulia, Trentino-Alto Adige e Trieste. Nel 1908 la Bosnia-Erzegovina venne formalmente unita all’ Impero austro-ungarico, aprendo una crisi per l’ annessione in quanto tale decisione non era stata prima ratificata dalle altre potenze europee. Ciò complicò i rapporti con l’ Italia, che guardava con preoccupazione l’ espansionismo di Vienna nei Balcani, pensando quindi sempre più concretamente ad avvicinarsi a Francia e Regno Uniti.
In questo contesto di discordia, in cui la guerra poteva scoppiare da un momento all’ altro, l’ arciduca Francesco Ferdinando, figlio di Carlo Ludovico, fratello minore dell’ imperatore, che dopo la morte di Rodolfo e del padre era divenuto il nuovo principe ereditario, il 28 giugno 1914 si recò a Sarajevo, capitale della Bosnia, in visita ufficiale insieme alla moglie Sophie Chotek von Chotkowa, una nobildonna ceca di provenienza boema. Il nuovo erede al trono auspicava una riforma dell’ Impero in senso trialista, cioè aggiungendo gli slavi come popolo costituente ad austriaci e ungheresi, insistendo sul fatto che fossero la metà dei popoli governati dagli Asburgo e che un terzo regno slavo, dominato dai croati e comprendente la Bosnia-Erzegovina sarebbe stato un ottimo baluardo contro le mire espansionistiche dei serbi. Ciò gli attrasse l’ odio degli ungheresi, che ricambiava reputandoli un popolo di pericolosi ribelli e nazionalisti, e degli austriaci. Inoltre, il matrimonio con una nobile di secondo rango aveva disgustato il vecchio imperatore. Sostenitore del suffragio universale maschile, che avrebbe minato la predominanza magiara nel Regno d’ Ungheria, aperto a idee liberali e intenzionato a concedere grande autonomia ai diversi gruppi etnici presenti nel territorio imperiale, fu un principe riformatore in politica e iconoclasta nella vita privata, ma al di fuori del mondo tedesco venne ingiustamente considerato come la guida del «partito della guerra». Il giorno stesso dell’ arrivo a Sarajevo, la coppia reale venne uccisa con due colpi di pistola dall’ irredentista serbo-bosniaco Gavrilo Princip, appartenente al movimento della Giovane Bosnia, per protesta contro l’ invasione e la successiva annessione all’ Impero austro-ungarico della Bosnia.
Pur sconvolto da questo nuovo lutto, Francesco Giuseppe rispose alla notizia: «Un potere superiore ha ristabilito l’ ordine che io, purtroppo, non sono riuscito a preservare.». Con la benedizione di Guglielmo II, il terzo e attuale imperatore tedesco, e il suo personale consenso, strappato dalle pressioni delle gerarchie politiche, diplomatiche e militari, alle quali rispose con un laconico: «Dunque è deciso.», nel pomeriggio del 23 luglio 1914 l’ ambasciatore austriaco a Belgrado, il barone Wladimir Giesl Freiherr von Gieslingen, consegnò al governo serbo l’ ultimatum di Vienna, rimanendo in attesa della risposta che doveva arrivare non oltre le 18:00 del 25 luglio: dopo una lunga premessa nella quale l’ Austria accusava la Serbia di aver disatteso la dichiarazione d’ intenti rivolta alle grandi potenze alla fine della crisi bosniaca, il governo di Vienna intimò a quello di Belgrado di far pubblicare sulla «Rivista ufficiale» serba del 26 luglio una nuova dichiarazione, di cui riportava il testo. Essa impegnava la Serbia a condannare la propaganda antiaustriaca, riconosceva la complicità di funzionari e ufficiali serbi nell’ attentato di Sarajevo e impegnava Belgrado a perseguire per il futuro con il massimo rigore tali macchinazioni. Il testo lasciava ampio margine d’ azione all’ Austria-Ungheria, benché tutto facesse pensare, in caso di inadempienza serba, ad estreme conseguenze. La Germania, convinta di poter circoscrivere il conflitto, sollecitò l’ Austria affinché aggredisse al più presto la Serbia: Francesco Giuseppe rispose in una lettera consegnata a Guglielmo che la decisione di entrare in guerra contro la Serbia era stata presa già prima dell’ assassinio del nipote, che paradossalmente era stato il solo austriaco autorevole comprensivo verso i nazionalisti serbi, sognando un Impero unito da un legame federativo, e che gli eventi di Sarajevo avevano confermato solo l’ imminenza del conflitto. La Gran Bretagna avanzò una proposta di conferenza internazionale che non ebbe seguito, mentre le altre nazioni europee si preparavano al conflitto. La Serbia accettò solo una parte delle richieste, quindi il 28 luglio 1914 Vienna le dichiarò guerra, dando inizio alla Grande Guerra.
Ormai ottantaquattrenne, Francesco Giuseppe fu piuttosto restio a firmare l’ atto di guerra, ma dovette chinarsi alle forti pressioni dell’ esercito e della diplomazia che invece ne sostenevano la necessità, sottoscrivendolo dicendo: «La guerra! Lor signori non sanno cos’ è la guerra! Io lo so...da Solferino.».
Francesco Giuseppe sul letto di morte;

Ormai stanco, si ritirò stabilmente al natio palazzo di Schönbrunn, ove continuò ad esercitare le sue funzioni politiche e militari con costanza, seguendo regolarmente le vicende del conflitto, che fin dall’ inizio fu un vero e proprio disastro per l’ Impero, tanto che l’ entusiasmo di gran parte della sudditanza svanì molto presto. Nel 1916, confidandosi con il proprio aiutante di campo, lo stesso monarca affermò: «Le cose ci vanno male, molto peggio di quanto pensassimo...La prossima primavera la farò senz’ altro finita con la guerra.». Colpito da una debolezza cardiaca in seguito a una polmonite, contratta mentre accompagnava il granduca russo Nikolai Nikolajewitsch, che era stato suo ospite, fino alla stazione ferroviaria, morì il 21 novembre. Aveva ottantasei anni.
Benché attesa in virtù della sua età ormai avanzata, la dipartita di Francesco Giuseppe fu un vero e proprio terremoto politico, e venne percepita come l’ inizio della fine dell’ Impero. Dedito al suo dovere praticamente fino all’ ultimo respiro, tanto che appena tre ore prima di lasciare il mondo aveva dato disposizione al proprio valletto personale di svegliarlo di buon’ ora il mattino dopo, come nessun altro imperatore prima di lui aveva incarnato la monarchia asburgica, tanto nel bene quanto nel male, dominando saldamente la scena per ben sessantasette anni e fino alla fine, rappresentando sotto molti aspetti un’ epoca e una mentalità ormai inconciliabili con i mutamenti economici e sociali in corso in Europa. La fine del suo regno equivalse praticamente alla conclusione di un’ era. Con la sua stessa persona aveva rappresentato per tutti un forte simbolo di stabilità e di sicurezza. La stragrande maggioranza della sua sudditanza era nata dopo la sua ascesa al trono, e vedeva in lui un punto fermo a cui aggrapparsi nei momenti difficili legati ad un conflitto che ormai da due anni provocava sempre più lutti e distruzione. Sebbene avesse condiviso il rango imperiale con i monarchi britannici, in qualità di imperatori delle Indie, oltre che con i kaiser tedeschi, i tiānzǐ cinesi e i tennō giapponesi, fu di fatto l’ ultimo vero imperatore in Europa, personificazione di un fasto senza pari e di un’ autorità ostinatamente portata avanti nella convinzione che provenisse direttamente da Dio, analogamente ai re medievali. La sua figura era stata davvero significativa, sia in Austria che all’ esterno: se l’ Austria-Ungheria veniva vista come un’ immensa entità statale multinazionale apparentemente intramontabile, lo si doveva soprattutto al suo eccezionale carisma, ma la sua morte svelò al mondo una realtà ben diversa, quella di uno Stato ormai allo sbando, in una crisi senza precedenti sia militare che civile, con le proteste ormai quotidiane della popolazione per la mancanza di beni di prima necessità alle riserve di uomini da inviare al fronte sempre più esigue.
Il corteo funebre del longevo kaiser;

La salma del vecchio imperatore fu imbalsamata secondo tradizione, ma per l’ occasione venne utilizzata una nuova tecnica che la deformò, quindi non fu esposta al pubblico. Rivestita con l’ uniforme di gala di feldmaresciallo, venne esibita entro la reggia di Schönbrunn. Il 27 novembre la bara fu trasportata nella chiesa di corte su un carro funebre trainato da otto cavalli: centinaia di migliaia di persone fecero ala al corteo. Il funerale ebbe luogo tre giorni dopo, con una messa da Requiem nel duomo di Santo Stefano, e una processione lungo una Ringstrasse fredda e coperta di neve. Alla testa del corteo vi erano due palafrenieri con fiaccole, seguiti da uno squadrone di cavalleria e da una lunga fila di berline nere trainate da cavalli con i con i più alti funzionari dello Stato. Seguiva il feretro il nuovo imperatore, il pronipote Carlo I, figlio di Ottone, fratello di Francesco Ferdinando, in divisa, con la moglie Zita di Borbone-Parma, tutta coperta di veli neri e il figlio Ottone, di appena quattro anni. Seguiva infine il carro funebre, drappeggiato di nero e trainato da otto cavalli scuri. Di fianco al carro, a destra, cavalcava il gran maestro delle scuderie, il conte Pallfy, e ai due lati vi erano paggi con fiaccole ardenti e venti guardie. Dietro al carro funebre vi era un reparto di arcieri e uno della guardia ungherese a cavallo, poi una compagnia di fanteria e infine uno squadrone di cavalleria. Il corteo accompagnò a piedi il feretro per un chilometro, fino alla Cripta Imperiale.
Dopo la morte di Francesco Giuseppe, Katharina Schratt visse completamente ritirata nel suo palazzo sul Kärntner Ring, rifiutando grandi offerte economiche per le sue memorie e, negli ultimi tempi, diventando profondamente religiosa.
Carlo I, il nuovo imperatore austroungarico;

Carlo I salì al trono appena ventinovenne, e presto dovette fare i conti con la penosa pesantezza dell’ eredità del prozio. Lo attendeva lo spettro della catastrofe: in caso di vittoria sarebbe molto probabilmente diventato un vassallo degli imperatori tedeschi, mentre in caso di sconfitta avrebbe assistito alla caduta dell’ Impero. Di formazione liberale, iniziò da subito a pensare ad un’ uscita di scena aprendo nell’ inverno 1917 un negoziato con Francia e Gran Bretagna, atto ad una pace separata. Avviò una politica moderna e avveduta, e accettò la proposta del Presidente degli Stati Uniti, Woodrow Wilson, di permettere l’ autodeterminazione dei popoli sottomessi alla Corona asburgica, riconvocando il parlamento imperiale e permettendo la creazione di una confederazione che rappresentasse ogni gruppo nazionale. Nessuna tra le popolazioni imperiali accettò una simile prospettiva, iniziando piuttosto a combattere per la piena indipendenza nazionale, finché, l’ 11 novembre 1918, la storia fece definitivamente il suo corso con la cessazione del conflitto, rivelatosi il più disastroso mai combattuto fino ad allora: erano stati mobilitati oltre settanta milioni di uomini, dei quali oltre nove erano morti sul campo di battaglia, in aggiunta ai sette di vittime civili. Duramente sconfitte, Germania e Austria-Ungheria furono poste a condizioni di resa assai dure: se la prima perse le sue colonie, la seconda fu privata di tutti i possedimenti territoriali, soprattutto a causa dei divergenti interessi nazionali dei popoli locali. Entrambe divennero repubbliche: dopo trecentonovantasette anni di regno, gli Asburgo furono deposti e costretti all’ esilio sull’ isola portoghese di Madera.