giovedì 29 agosto 2019

L’ uomo che divenne re


Ritratto ufficiale di re Giorgio VI;
«La più grande tra le distinzioni è il servizio agli altri.» re Giorgio VI di Gran Bretagna;

In questo mondo, le apparenze hanno spesso avuto il vizio di trarre in inganno. Capita infatti con una certa facilità di trovarsi di fronte ad una persona e affrettare nella nostra mente un giudizio superficiale, mosso da un’ analisi di pochi elementi. Non è raro che una persona venga reputata strana per un determinato atteggiamento o un’ idea, di cui si ignorano le ragioni precise, o magari dissoluta perché contesta un principio generalmente accettato come corretto, piuttosto che debole e inadeguata per via di una condotta introversa e appartata. La gente comune ha l’ abitudine piuttosto scorretta di formulare facili giudizi che conducono puntualmente in errore, e che si tramutano rapidamente in convinzioni che con il tempo si fanno sempre più difficili da contrastare. Il più delle volte, i punti di vista, le opinioni e le illusioni riescono a divenire più potenti dei fatti reali, ma per fortuna ci troviamo sovente di fronte ad individui molto speciali che, inizialmente incompresi e sottovalutati, riescono a superare e vincere con onore i vari pregiudizi nei loro confronti, manifestando all’ occorrenza grandi doti di forza e coraggio con le quali riescono a stupire ampiamente l’ ambiente circostante.
Tutto questo fu senz’ altro vero nel caso di re Giorgio VI di Gran Bretagna, figlio secondogenito di Giorgio V, un uomo che nella prima parte della sua vita venne giudicato in modo piuttosto ingiusto, essendo visto come uno scialbo ometto privo della personalità adatta ad un membro di uno dei più prestigiosi e rispettati casati della storia, e che con la rinuncia al trono da parte del fratello maggiore, Edoardo VIII, evento sconvolgente che ebbe luogo proprio nel periodo in cui il Bolscevismo e il Nazismo allungavano i loro malevoli tentacoli sull’ Occidente per poi affacciarsi al mondo, ponendo i monarchi europei sull’ orlo del precipizio, venne chiamato a guidare l’ Impero britannico nell’ ora più buia della sua storia. Lui stesso non aveva molta stima di sé, non si sentiva portato per essere un sovrano: soffriva di una fortissima balbuzie, era timido e viveva un costante conflitto con il mondo che lo circondava, non era molto forte fisicamente, e si sentiva privo del talento e della sicurezza che invece aveva sempre molto ammirato nel fratello. Eppure, nei suoi quindici anni di regno fu capace di un vero e proprio miracolo: se al tempo della sua incoronazione la Corona era instabile a causa di determinati movimenti antimonarchici che sfruttavano abilmente le vicende personali dell’ abdicatario Edoardo, che aveva pensato di poter agire al di sopra delle regole e per sé stesso proprio mentre la nazione era alle prese con un nemico mortale che avrebbe persino osato un’ invasione, lui si mise personalmente al servizio della nazione, concependo la regalità come un dovere, fortemente convinto dell’ imparzialità del suo ruolo nei confronti della politica e della netta distinzione tra sfera pubblica ed istituzionale e quella privata, in cui comunque sentiva di dover dare il buon esempio al popolo. Conscio del forte valore simbolico del proprio ruolo di fronte all’ intera nazione, senza distinzioni sociali, divenne una vera icona per genti e generazioni distanti e differenti tra loro, superando insperatamente scandali e guerre. Quest’ uomo così pacato e comune, divenuto re controvoglia, vinse sia la propria intensa battaglia personale quanto quella a beneficio del Paese, che guidò con grande onore, precisione e costanza, passando alla storia come un uomo forte e coraggioso, un vero eroe che ancora oggi riceve grande apprezzamento e stima da tutto il mondo.
Bertie in giovane età;

Albert Frederick Arthur George nacque il 14 dicembre 1895 a Sandringham House, amata residenza di campagna della famiglia reale britannica nella contea di Norfolk, figlio del duca Giorgio di York, il secondo e il maggiore dei figli sopravvissuti del principe Edoardo di Galles, l’ erede al trono, e della principessa Maria di Teck, appartenente al casato germanico dei Von Teck. Alla sua nascita era il quarto nella linea di successione al trono, venendo dopo il nonno, il padre e il principe David, suo fratello maggiore, di appena un anno più vecchio, mentre il trono britannico era occupato dalla bisnonna paterna, la celebre e rispettata Vittoria, l’ ultima sovrana di Casa Hannover, a sua volta di provenienza tedesca.

Essendo nato il 14 dicembre, anniversario della morte del suo bisnonno paterno, Alberto di Sassonia-Coburgo-Gotha, l’ amatissimo principe consorte di Vittoria, altro esponente della nobiltà germanica, venne chiamato Albert: la nonna materna, la principessa Maria Adelaide di Cambridge, non disapprovò mai questo particolare nome, scrivendo che si augurava che avrebbe utilizzato l’ ultimo, Giorgio.
Bertie, a sinistra, con la madre Maria e David;

Come comunemente avveniva nelle famiglie più altolocate del tempo, soprattutto se appartenenti alla nobiltà, i suoi genitori furono spesso lontani da lui e dai fratelli, non potendo assisterli nella loro crescita in quanto tenuti a viaggiare molto sia per la Gran Bretagna che per l’ Impero al fine di confermare con le proprie apparizioni la simpatia della sudditanza nei riguardi della Corona. Le bambinaie e i precettori svolsero quindi nei suoi riguardi le principali funzioni genitoriali ed educative fin dalla più tenera età.
Fin dai suoi primi anni, Albert, chiamato informalmente «Bertie» in famiglia, venne abitualmente descritto come timoroso e incerto nelle sue azioni. Soffrì di problemi cronici di stomaco e di una leggera deformazione alle ginocchia che il padre corresse imbrigliandolo in dolorose steccature correttive da portare giorno e notte. Nato mancino, venne forzato a scrivere con la mano destra. Soprattutto, soffriva di una spiccata balbuzie, che molto influì sui suoi tormenti interiori e sulle sue relazioni personali: si sentiva inadeguato, un debole e un incapace. Timido e impacciato, eppure capace di scoppi d’ ira estremamente violenti come tutte le persone pacate, venne scambiato per indeciso e stupido. Giorgio non fu mai tenero o affettuoso con lui, anzi, lo trattò sempre con grande severità, come faceva con il figlio maggiore, David. Noto come genitore assai rigido, tanto che i suoi figli erano terrorizzati da lui, pare che un giorno abbia confidato a Edward Stanley, XVII conte di Derby: «Mio padre era terrorizzato da sua madre, io sono stato terrorizzato da mio padre, e sono dannatamente desideroso di vedere che i miei figli siano terrorizzati da me.». In realtà non vi è alcuna fonte diretta di questa citazione, ma si tende a pensare che il principe ereditario semplicemente seguisse l’ allora abituale stile di educazione da impartire ai suoi figli.
Il padre, re Giorgio V;

Alla morte della regina Vittoria, avvenuta il 22 gennaio 1901, suo nonno salì al trono come re Edoardo VII, mentre il padre divenne il secondo nella linea di successione al trono. Dal 1909 frequentò il Royal Naval College di Osborne come cadetto della Royal Navy. Si dimostrò poco propenso agli studi, che comunque, ligio a i suoi doveri, affrontò con perseveranza. Il 6 maggio 1910, dopo appena dieci anni di regno, re Edoardo morì e il figlio gli succedette come Giorgio V. Il principe Albert divenne quindi il secondo in linea di successione. Arrivato ultimo della classe nell’ esame finale, si qualificò al Royal Naval College di Dartmouth nel 1911. Entrò in servizio il successivo 15 settembre 1913, e un anno dopo prese parte alla Grande Guerra, con il nome in codice di Mister Johnson, seguendo le azioni militari dalla torretta di avvistamento della HMS Collingwood, mentre la nave da guerra era impegnata in guerra contro la flotta tedesca nella battaglia dello Jutland, azione inizialmente indecisa che poi si rivelò una vittoria strategica per la Gran Bretagna. Tuttavia, in seguito il principe non poté seguire molte altre azioni del conflitto mondiale in quanto si ammalò di ulcera duodenale.
Nominato ufficiale in carico nella Royal Naval Air Service a Cranwell nel febbraio del 1918, con la fondazione della Royal Air Force due mesi dopo passò in questo nuovo corpo d’ arma, venendo nominato comandante del quarto squadrone a Cranwell, in cui rimase fino all’ agosto del 1918, prestando servizio durante le ultime settimane di guerra nel gruppo dirigenziale della Independent Air Force, che aveva il suo quartier generale in Francia, a Nancy. A seguito dello scioglimento della Independent Air Force nel novembre del 1918, tornò alla Royal Air Force.
David, il fratello maggiore;

Nel 1919, ad un anno dal termine del conflitto, che la nazione aveva vinto con onore, frequentò il Trinity College di Cambridge, studiando storia, economia e diritto civile per un anno. Nel 1920 fu nominato dal padre duca di York e conte di Inverness, e da quel momento iniziò ad occuparsi degli affari di corte, rappresentando re Giorgio nella visita di alcune miniere di carbone, fabbriche e cantieri ferroviari, ottenendo il soprannome di «Principe Industriale».
Era profondamente legato al fratello David, con cui faceva fronte comune contro i genitori. Lo ammirava sinceramente, e forse lo invidiava perché era bravissimo nello stare con la gente e nel comunicare in pubblico, mentre lui era contento di restarsene defilato, in disparte. Si volevano bene e si rispettavano. David era estremamente popolare, un vero fenomeno mediatico. Era bello, distinto, elegante, ricco di stile. Curato nei minimi dettagli, eccentrico ma sempre rispettoso e adeguato ai compiti che doveva assolvere e agli ambienti frequentati, sapeva parlare in modo eccezionale, e riusciva a stare molto bene davanti ai microfoni. Analogamente a lui, fin da ragazzo Bertie fu un accanito fumatore, arrivando presto a fumare quotidianamente decine di sigarette anche nella convinzione, avallata dai medici, che l’ atto di inspirare fumo rilassasse la laringe stimolando la fiducia in sé stesso.
Bertie e Elizabeth Bowes-Lyon;

Nel 1920, Bertie fu invitato ad un ballo da Elizabeth Bowes-Lyon, appartenente ad un’ elegante famiglia scozzese, nona dei dieci figli di Claude Bowes-Lyon, XIV conte di Strathmore e Kinghorne, e Cecilia Cavendish-Bentinck, che discendeva dal Primo ministro William Henry Cavendish-Bentinck, III duca di Portland, e dal Governatore generale dell’ India Richard Wellesley, a sua volta fratello minore di un altro Primo ministro, Arthur Wellesley, I duca di Wellington e celebre vincitore di Napoleone a Waterloo nel 1815. Ne rimase profondamente colpito, al punto da volerla sposare. Si propose per la prima volta un anno dopo tramite un intermediario, come si soleva allora, ma lei rifiutò ritenendo di essere inadatta al ruolo di duchessa. Peraltro, pur trovandolo simpatico, era incerta per la sua balbuzie. Nel 1922, lei partecipò come damigella d’ onore al matrimonio della principessa Mary, sorella di lui, che un mese dopo domandò nuovamente la sua mano, ma lei rifiutò nuovamente: «Mai... ho paura di non poter essere libera di pensare, parlare e agire come vorrei davvero.». Determinato più che mai a sposarla, Albert decise di fare da solo, chiedendole personalmente di sposarlo e dicendo che non avrebbe maritato nessun’ altra: lei finalmente acconsentì, malgrado le sue perplessità sulla restrittiva vita di corte. Subito dopo, la regina Maria la andò a trovare, essendo curiosa di vedere con i propri occhi la ragazza che aveva rubato il cuore del figlio, e pur rifiutandosi di interferire nella loro relazione si convinse che fosse la donna ideale per lui. Il fidanzamento venne ufficialmente annunciato nel gennaio del 1923, e la coppia si sposò il successivo 26 aprile nell’ abbazia di Westminster. Il matrimonio ebbe grande risalto sui giornali, e venne interpretato come un grande segnale di rinnovamento e modernità. Era infatti la prima volta da secoli che un principe britannico sposava una nobildonna di rango non elevato, non appartenente ad un casato reale: i principi reali, infatti, si sposavano con altre principesse europee di sangue reale. Peraltro, contravvenendo alle tradizioni ma con un gesto che venne molto apprezzato, la sposa lasciò il bouquet sulla tomba del Milite Ignoto, dove si trova tuttora, e che tutti i cortei evitano con cura di calpestare.
I duchi di York e le figlie;

I duchi di York rifiutarono cordialmente la sistemazione che il sovrano aveva trovato per loro a Richmond Park, in una residenza gradevole ma antiquata, e preferirono andare a vivere al 145 di Piccadilly, una delle vie più famose e trafficate di Londra, in un palazzo di quattro piani da cui si vedevano le mura del parco di Buckingham Palace, con il retro del palazzo sullo sfondo. In esso vivevano un po’ più stretti, ma in modo soddisfacente. La loro servitù comprendeva un accompagnatore, una governante, la cameriera personale della duchessa, il valletto del duca, due lacchè, tre cameriere, un cuoco e due aiutanti di cucina, una bambinaia e la sua assistente, un fattorino e un guardiano notturno: nulla di straordinario per i livelli dell’ epoca, dal momento che per i nobili, i banchieri e gli uomini d’ affari di alto livello questo personale era considerato il minimo indispensabile.
Elizabeth ebbe un ruolo molto importante nella vita di Bertie. Era una donna sempre allegra e molto forte, perfettamente adatta ad un ruolo pubblico. I due facevano squadra, con lui che si appoggiava costantemente a lei e alla sua forza e sicurezza. Sembrava tenera, dolce e mite, ma era aveva un gran carattere. Lo sosteneva con convinzione, sebbene la cosa le risultasse spesso difficile. Ogni volta che lui balbettava in pubblico, lui incrociava lo sguardo di lei, che lo guardava con la speranza che quel momento passasse il più velocemente possibile. Pur consapevole che la sua timidezza e la laconicità lo facevano apparire molto meno impositivo in confronto a David, come figlio minore del regnante si sentiva tranquillo al pensiero di non dovergli succedere sul trono, evitando in tal modo tutte le pesanti e continue responsabilità che ne comportavano, limitandosi ai suoi piccoli doveri reali, che non erano eventi pubblici di grande peso, come l’ andare in visita alle fiere, alle fabbriche e ai campi per ragazzi. Amava tenersi in forma con sport come il tennis, e quando parlava in pubblico lo si vedeva concentrarsi e cercare di calmarsi, con pause che sembravano eterne davanti a folle vaste che pendevano dalle sue labbra. Soprattutto, quando parlava, aveva grossi problemi con i suoni articolati nella parte posteriore del cavo orale, e in modo particolare gli era quasi impossibile articolare la parola king, ossia «re», e non solo per problemi meccanici: tale termine gli faceva venire in mente il padre e l’ incredibile mole di doveri e responsabilità a cui forse nessun uomo di sua conoscenza si sarebbe mai offerto volontariamente. Tuttavia, su richiesta di re Giorgio, il 31 ottobre 1925 dovette tenere il discorso di chiusura alla British Empire Exhibition, presso lo stadio di Wembley, di fronte ai rappresentanti e agli sportivi dei cinquantotto domini e colonie britannici, il risultato fu straziante: totalmente terrificato, non riuscì praticamente a parlare, creando imbarazzo nella platea.
Lionel Logue;

Oltre ad essere la sua consigliera e assistente, aiutandolo nella composizione dei suoi documenti ufficiali, Elizabeth fu fondamentale anche sullo spinoso fronte del rimedio alla balbuzie. Dopo che lui si era rivolto a moltissimi specialisti di elevato prestigio e formazione, nessuno dei quali aveva saputo risolvere il problema, la duchessa nel 1926 fece qualche ricerca e venne inaspettatamente a sapere di uno scienziato e logopedista australiano, Lionel Logue, che aveva uno studio per il trattamento delle disfunzioni del linguaggio al numero 146 di Harley Street. Nato a Adelaide, capitale dell’ Australia Meridionale, e trasferitosi con la famiglia a Londra nel 1924, Logue era un personaggio del tutto fuori del comune: mosso dalla passione per la lingua di William Shakespeare, era un attore non professionista fallito, e in conseguenza di ciò aveva iniziato ad esercitare come insegnante di dizione. Non era medico, e neppure vantava un’ istruzione particolare, ma aveva accumulato una notevole esperienza nel campo della logoterapia lavorando con i reduci australiani della Grande Guerra, che al ritorno dal fronte europeo erano traumatizzati, soffrivano di spasmi, paralisi isteriche alle gambe e altri disturbi come psicosi traumatiche e impedimenti di linguaggio. Logue imparò moltissimo lavorando con loro, divenendo un pioniere dell’ approccio psicoterapeutico, che allora era poco considerato, e addirittura visto con un certo scetticismo: in quel tempo si pensava che la balbuzie fosse dovuta semplicemente a idee confuse, e che limitandosi ad un approccio meccanico le parole sarebbero certamente uscite. Conosceva l’ anatomia, la terapia muscolare, la respirazione e vari esercizi come il rotolarsi per terra, il tirare pugni in aria, fare movimenti particolari e ripetere vocali. Sapeva che il problema dei balbuzienti non era solo fisico, ma soprattutto psicologico, quindi riportandoli al momento del trauma e facendoglielo esprimere li avrebbe aiutati efficacemente.
Bertie e Logue, un rigido membro di Casa Windsor e un suddito alla buona che non si intendeva di etichetta, strinsero un legame molto speciale, un rapporto di vera e propria amicizia tutt’ altro che scontato per varie ragioni. Prima di tutto, in quel tempo l’ Australia era un luogo sconosciuto alla maggior parte del popolo britannico, che nei suoi riguardi esprimeva un atteggiamento piuttosto imperialistico, guardando gli australiani come persone strane. In secondo luogo, in Gran Bretagna la monarchia era, ed è tuttora, un’ istituzione solenne e rispettata, quindi i membri della famiglia reale erano tutti trattati con estremo riguardo, secondo una precisa e particolareggiata etichetta da rispettare con la massima diligenza. In quanto australiano, Logue non aveva mai incontrato barriere sociali del genere nel corso della sua vita, quindi raggiungere Londra e trovarsi davanti alla barriera sociale più solida di tutte fu un’ esperienza davvero insolita per lui. Uomo sfaccettato e pragmatico, non fu indifferente al prestigio del suo nuovo cliente: ne era in soggezione, ma non al punto da lasciarsi condizionare, e non sentì mai il dovere di doverlo trattare come un membro della famiglia reale, volendo privilegiare un rapporto paritario e sincera amicizia, nella convinzione che la chiave fosse nel fargli capire che un amico lo avrebbe ascoltato e accompagnato nel lungo sentiero atto a ritrovare la sua voce. Evitò persino di chiamarlo «Altezza Reale» o «Sir», volendo usare il nome Bertie, ignorando altre forme protocollari come il sedersi ad una certa distanza, nel desiderio di abbattere ogni barriera. Bertie venne quindi salvato dall’ amicizia e dalla sicurezza in sé stesso, più che dalle cure e dalle rivelazioni scientifiche. La sua amicizia con Logue, che pretendeva di essere chiamato Lionel, fu un rapporto davvero avvincente. L’ australiano, guaritore di natura, proveniente da un clima di apertura e semplicità, capiva la psicologia delle persone e sapeva infondere sicurezza in ogni paziente, aiutandolo a migliorare l’ oratoria e anche a sviluppare un rapporto di amicizia con un’ altra persona. Era molto premuroso, affezionato ed appassionato, e seppe rendere tutto più facile a coloro che prendeva in carico, soprattutto Bertie, abituato com’ era alle pressioni tipiche della propria famiglia e a corte, animate com’ erano da un’ imponente tradizione millenaria. Il loro rapporto, che per ragioni di rango non avrebbe mai avuto luogo in condizioni normali, era forse alimentato proprio dalla sua unicità. Sebbene molto probabilmente Logue non riuscì mai ad abbattere del tutto la barriera dell’ etichetta reale, si pensa che nessuno da allora sia più riuscito ad arrivare fin dove poté spingersi lui.
Grazie agli esercizi quotidiani, in breve tempo Bertie migliorò moltissimo il proprio eloquio, superando ampiamente i problemi originari, potendosi persino mettere alla prova nel 1927 con il tradizionale discorso di apertura del Parlamento australiano, che fu un vero successo in quanto poté parlare solo con una piccola esitazione emotiva.
Giorgio V tiene via radio il discorso natalizio nel 1934;

Albert ed Elizabeth ebbero due figlie, Elisabetta, detta Lilibet, nel 1926, e Margaret, nel 1930. Pur essendo spesso assente per i suoi doveri reali, Bertie amava moltissimo la vita famigliare, dimostrandosi assai premuroso e divertente. Non aveva un grande senso dell’ umorismo, ma vantava uno spiccato senso del divertimento, condiviso dalla moglie. Insegnò alle bambine ad andare a cavallo nei parchi presso il castello di Windsor e a Sandringham House, giocava con loro a carte e risolveva sciarade. Elizabeth in particolare gli lasciò una serie di toccanti lettere recanti una serie di suggerimenti da seguire se fosse morta all’ improvviso. In una di esse consigliava come comportarsi con le figliolette: «Non ridicolizzare mai le bambine o ridere di loro. Quando dicono cose buffe sono sempre del tutto innocenti. Devi sempre rivolgerti e parlare pacatamente ai bambini. Ricordati di come tuo padre, gridandoti addosso e facendoti sentire a disagio, ha perduto il tuo affetto. Nessuno dei suoi figli gli è amico.». Molti storici pensano che la famiglia reale britannica abbia generato i peggiori padri di tutti i casati regnanti, tuttavia Bertie seppe essere uno splendido genitore, in parte per volersi distinguere dal proprio padre e in parte grazie alla moglie. Si riferiva sempre alla propria famiglia come a «noi quattro», un gruppo fortemente unito e solidale.
Sandringhram House;

Quando il 20 gennaio 1936 re Giorgio morì e il principe David salì al trono come Edoardo VIII, il clima nella famiglia reale mutò improvvisamente. Tutti erano nervosi, in quanto si percepiva qualcosa che non andava come avrebbe dovuto. In Europa, i regimi totalitari sovietico, fascista e nazionalsocialista si rafforzavano e si espandevano complicando i già precari equilibri interni del Vecchio Mondo, tuttora sconquassati dal terremoto politico, diplomatico e militare della Grande Guerra. Peggio ancora, il nuovo re non si preoccupava minimamente di nascondere la propria ammirazione per Hitler, e da anni era al centro di un animato dibattito vista la sua tendenza a frequentare donne sposate, suscitando le critiche della società tradizionalista in quanto come sovrano sarebbe stato anche Governatore Supremo della Chiesa anglicana, secondo una tradizione risalente al 1534, durante il regno di Enrico VIII, e aggravò ulteriormente la situazione annunciando che sarebbe salito al trono accompagnato dall’ attuale compagna, Wallis Simpson, una donna statunitense moglie dell’ uomo d’ affari Ernest Aldrich Simpson, e che in precedenza era già stata sposata con il pilota della US Navy Earl Winfield Spencer Junior, da cui aveva divorziato nel 1927. Sua amante dal 1934, la Simpson aveva fama di essere una persona molto venale e un’ arrampicatrice sociale, e Edoardo manifestò la ferma intenzione di sposarla ufficialmente. A causa dei pregiudizi radicati sul conto degli statunitensi risalenti all’ indipendenza del 1776, dell’ origine non aristocratica e del burrascoso passato matrimoniale di lei, la relazione fu fortemente ostacolata da tutti, soprattutto dalla famiglia reale, dal governo e dal Parlamento: la Simpson era sposata di fronte a Dio con il suo primo marito, mentre Edoardo ne era l’ amante-concubino, e tale sarebbe rimasto anche a seguito del matrimonio. Si aprì quindi una grave crisi costituzionale che preannunciava serie difficoltà per la Corona. Sir Winston Churchill reputava disastrosa l’ idea che un’ «imperatrice della notte» divenisse regina consorte della Gran Bretagna, e sottolineava spesso il fatto che quando sarebbe scoppiata la guerra con la Germania sarebbe servito un regnate saldo e ineccepibile dietro al quale la nazione potesse schierarsi. Il 16 novembre 1936, il sovrano convocò a Buckingham Palace il Primo ministro, Stanley Baldwin, comunicandogli la propria intenzione di sposare la divorziata statunitense, ma il capo di governo gli fece nuovamente presente che il popolo non avrebbe approvato il matrimonio, rifiutando l’ idea di avere la Simpson come regina: qualora avesse deciso di procedere con i suoi propositi, il governo si sarebbe dimesso in massa. Stanley Bruce, High Commissioner australiano a Londra, fece a sua volta sapere che la sudditanza avrebbe provato orrore nell’ apprendere chi sarebbe stata la nuova sovrana, mentre John Buchan, Governatore generale del Canada, andò oltre affermando che nonostante il grande affetto che nutriva per il re, i canadesi si sarebbero sentiti insultati dal fatto che questi sposasse una donna divorziata, con due ex mariti ancora viventi. Di fronte a tanta opposizione, Edoardo rispose che non avrebbe rinunciato a sposare la sua compagna, e che se questo avesse comportato dimissioni e disordini sarebbe stato pronto ad andarsene al posto di tutti gli altri.
Alla fine, il 5 dicembre 1936, il re richiese di rivolgersi al popolo via radio, annunciando che avrebbe abdicato e sposato Wallis. Appena cinque giorni dopo, a Fort Belvedere, firmò l’ atto ufficiale alla presenza dei fratelli Albert, Henry e George, e il giorno seguente parlò nuovamente alla radio chiarendo ancora una volta i motivi che lo avevano portato alla sua scelta, affermando che non avrebbe potuto ottemperare ai suoi doveri di re senza il supporto della donna che amava.
L’ ex re Edoardo VIII e Wallis Simpson il giorno delle nozze;

Sovrano per quasi undici mesi, Edoardo VIII lasciò il mondo a bocca aperta con la propria rinuncia al trono. Fu il solo monarca britannico ad aver abdicato in mille anni di storia, peraltro per ragioni sentimentali. Per la nazione fu un colpo durissimo, mentre per la nobiltà e le corti reali di tutta Europa fu un fulmine a ciel sereno. Se in tutto il mondo equivalse ad un evento drammatico e seguito per ragioni ugualmente distribuite tra la politica e il pettegolezzo, per Bertie fu un fardello estremamente pesante da accettare: come figlio secondogenito era sempre stato sotto gli occhi di tutti, obbligato a tenere discorsi e presenziare a certi eventi, ma se aveva vissuto tutto questo come un tormento, essendo privo della sicurezza del fratello, ora lo aspettava un cimento infinitamente peggiore. Edoardo agì senza pensa minimamente alle conseguenze che la sua abdicazione avrebbe avuto sul fratello minore: per lui era solo una scelta personale, una cosa giusta per sé, un modo per coronare il proprio sogno d’ amore. Gettò il fratello impedito in prima linea proprio ora che la guerra era alle porte, addossandogli l’ ultima cosa che avrebbe mai desiderato. Il loro rapporto si incrinò per sempre. Peraltro, prima di uscire di scena e lasciare la Gran Bretagna, cercò molto opportunamente di ottenere tutto quello che poteva da lui, come ad esempio un titolo per Wallis. Non esitò a mettere il fratello sotto pressione, abusando del loro rapporto. Da allora i rapporti tra loro si fecero insanabili. La Regina Madre, Maria, pur sensibile al bene di Edoardo, non comprese mai perché avesse preferito mettere i propri sentimenti personali davanti al suo dovere reale, e non lo perdonò mai per questa diserzione, al punto da non desiderane più il ritorno in Gran Bretagna.
Giorgio VI e la famiglia reale il giorno dell’ incoronazione;

La vita di Bertie mutò radicalmente. La sera del 10 dicembre 1936 tornò a casa, con la moglie Elizabeth a letto, travolta dalle emozioni della giornata. Le due bambine, che lo aspettavano, gli fecero il curtsy, l’ inchino dovuto ai sovrani che avevano imparato a fare ai nonni e allo zio: lui le abbracciò piangendo, comprendendo solo in quel momento lo straordinario, inatteso e indesiderato cambiamento che aveva influito per sempre sulla sua vita e quella della famiglia. Salì al trono assumendo il nome di Giorgio VI, per enfatizzare la continuità nominale con suo padre e incoraggiare i sudditi a recuperare la fiducia perduta nella monarchia a seguito dello scandalo. Elizabeth, nuova regina consorte, definì quello a Buckingham Palace il peggiore trasloco della sua vita: in quel tempo il palazzo era decrepito, con i cavi elettrici penzolanti nelle sale, gli interminabili corridoi, le stanze fredde e piene di topi. Valletti e domestici andavano e venivano in continuazione, ma l’ uomo che la impressionò di più fu l’ addetto alla disinfestazione, che incontrava spesso carico di trappole e dispositivi micidiali per topi, scarafaggi e insetti.
Obbligato a titolare il fratello abdicatario, Giorgio gli confermò il titolo di «Altezza Reale», nominandolo poi duca di Windsor. Edoardo partì alla volta della Francia e sposò la Simpson sei mesi dopo, il 3 giugno 1937. Il monarca vietò all’ intera famiglia di partecipare al matrimonio.

Re Giorgio si erse a massima autorità dell’ Impero britannico nella sua ora più buia. La costituzione non gli riconosceva molte funzioni: non poteva imporre una tassa, dichiarare una guerra e neppure scegliere il Primo ministro. Il suo impegno era parlare, e quando lo faceva la nazione credeva che lo facesse a suo nome. Il valore della sua esistenza e della sua attività era proprio questo. Soprattutto, da poco più di un decennio la radio si stava diffondendo come mezzo di comunicazione di massa, quindi come monarca se ne sarebbe dovuto servire per rivolgersi a milioni di persone sparse in oltre un quarto del pianeta. Suo padre era stato il primo re britannico a parlare in diretta via radio. I futuri monarchi avrebbero avuto la comodità e il vantaggio di registrazioni editate tramite nastro, ma allora lui avrebbe dovuto parlare dal vivo a tutto l’ Impero, e per quanti progressi avesse compiuto, la sua balbuzie era ancora leggermente presente, ragion per cui temeva una ricaduta che l’ avrebbe reso inutile e indegno di fiducia e rispetto. Nella nazione serpeggiava il timore che non sarebbe stato all’ altezza del suo compito, tanto che un giornale dell’ epoca sostenne apertamente che i sudditi dubitavano che potesse farcela, e che molti erano certi che sarebbe stato così fuori luogo da abdicare a sua volta. La monarchia era instabile, l’ abdicazione di Edoardo l’ aveva scossa profondamente dando forza ai vari movimenti politici antimonarchici, che quasi le inchiodarono il coperchio della bara insistendo sulle scomode faccende familiari appena accadute. Ma Giorgio si impegnò a fondo per salvare la Corona, applicando tutto sé stesso nella convinzione che un re sia al servizio del popolo, per nessuna ragione autorizzato ad agire al di sopra delle regole.
Il discorso del re allo scoppio della guerra con la Germania;

Incoronato il 12 maggio 1937, data inizialmente prevista per Edoardo, si misurò con un’ esperienza dal forte coinvolgimento emotivo. La British Broadcasting Corporation aveva infatti organizzato la trasmissione in diretta del discorso del re, preparato con largo anticipo e registrato anche su un disco, per ogni evenienza, in tutto il Regno Unito e nell’ Impero. Per Giorgio fu un impegno logorante, ma di grande successo: «E’ con tutto il cuore che vi parlo questa sera. Mai prima d’ ora un re appena incoronato ha potuto parlare a tutto il suo popolo nelle sue case nel giorno dell’ incoronazione. La regina e io auguriamo salute e felicità a tutti voi. Non trovo le parole per ringraziarvi dell’ affetto e della lealtà alla regina e alla mia persona. Vi dico solo che, se negli anni futuri potrò darvi prova della mia gratitudine nel servirvi, sarà questo il modo che più d’ ogni altro sceglierò. La regina e io serberemo sempre nei nostri cuori l’ ispirazione che viene da questo giorno. Che possiamo essere sempre degni della benevolenza che con orgoglio credo ci circondi dall’ inizio del mio regno. Vi ringrazio di cuore, e che Dio vi benedica.».

In Gran Bretagna, ormai, si percepiva sempre più vicina la guerra contro la Germania nazista. Il re era costituzionalmente affidato alle parole del nuovo Primo ministro, Neville Chamberlain, succeduto a Baldwin, dimessosi ad un giorno dall’ incoronazione di Giorgio VI in quanto incolpato di eccessiva docilità nei confronti dell’ Italia fascista e della stessa Germania. Dopo gli accordi di Monaco del 1938, Giorgio ed Elizabeth si servirono del capo di governo anche come figura di riferimento per la popolazione, favorendo un’ interazione sociale e pubblica tra la Corona e i politici, dal momento che la classica apparizione al balcone di Buckingham Palace era riservata unicamente ai membri della famiglia reale.
Allo scoppio della guerra, il 1° settembre 1939, il re e la regina consorte divennero veri e propri simboli viventi della resistenza nazionale. Contrariamente al parere del governo, fecero testamento e scelsero di rimanere in terra britannica anziché cercare la salvezza in Canada, mandando le figlie al sicuro presso il castello di Windsor. Ufficialmente rimanevano stabilmente a Buckingham Palace, sebbene trascorressero le notti prevalentemente al castello di Windsor per ragioni di sicurezza dopo i primi bombardamenti, di cui vissero in prima persona il dramma con lo scoppio di una bomba proprio all’ interno della reggia.

Nel 1940, dopo l’ invasione nazista della Norvegia, Chamberlain si dimise dalla carica di Primo ministro, ritenendo necessario un governo di larghe intese, e consapevole che nessuno tra i liberali e i laburisti avrebbero appoggiato un esecutivo guidato da lui. Venne succeduto da Sir Winston Churchill. Durante la guerra il sovrano fu costantemente in prima linea, prodigandosi intensamente e senza sosta al fine di tenere alto il morale della popolazione: si dice che la moglie del Presidente degli Stati Uniti, Eleanor Roosevelt, apprezzando sinceramente il gesto, si sia adoperata in prima persona nell’ organizzare spedizioni di cibo alla reggia britannica. Re Giorgio si rivolse spesso via radio, e finalmente con una parlata dignitosa e raffinata, ai sudditi in terra britannica e in tutto l’ Impero al fine di esaltarli al patriottismo davanti a un minaccioso nemico, senza tuttavia mai scagliarsi contro di esso, invitando il popolo all’ unità e al sacrificio per difendere i valori tradizionali su cui il Paese poggiava: responsabilità, coraggio, abnegazione e decoro, virtù che, come disse, erano indispensabili non solo per governare, ma per sopravvivere. Lionel Logue gli fu accanto in tutti i discorsi, guidandolo come un direttore d’ orchestra. Tramite le sue trasmissioni, Giorgio poté finalmente smentire gli ingiusti giudizi che gli erano sempre stati mossi contro, dimostrando di essere una guida esemplare, un uomo di grande forza, di animo assai rigoroso e devoto al dovere. Il monarca giusto al momento giusto. Fu anche grazie alla moglie se seppe essere un buon sovrano, non soltanto un buon padre, tanto che si dice che Hitler l’ abbia definita «la donna più pericolosa d’ Europa».
Nel 1944, nominò Logue Comandante dell’ Ordine Reale Vittoriano: questo alto onore da parte di un re riconoscente rese il logoterapista australiano parte del solo ordine di cavalleria che premia specificatamente atti di servigi personali al monarca.
Il saluto del re e del Primo ministro, 8 maggio 1945; 

La Seconda Guerra Mondiale si concluse dopo sei lunghi anni, nel 1945, con la vittoria britannica e statunitense a danno della Germania. L’ 8 maggio 1945, Giorgio, idolatrato dalla sudditanza per il ruolo che aveva svolto, invitò Churchill ad apparire con lui e la famiglia reale sulla balconata di Buckingham Palace: fu il momento più importante del suo regno e il culmine della sua popolarità.
Ora che il devastante conflitto era finalmente cessato, il sovrano fu tra i principali promotori della ripresa economica e sociale della Gran Bretagna, sebbene proprio in quel momento l’ Impero si avviò sulla via della decadenza, dopo aver già dato i primi segni di cedimento nel 1926, dopo la Dichiarazione di Balfour, quando i vari domini britannici iniziarono ad essere conosciuti con il nome di Commonwealth delle Nazioni, nuova grande entità formalizzatasi con gli Statuti di Westminster del 1931. Il tramonto della potenza coloniale britannica subì un duro colpo nel 1947 con l’ indipendenza dell’ India e della secessione del Pakistan, fatto che rese re Giorgio l’ ultimo imperatore d’ India, nonché l’ ultimo monarca europeo che potesse vantare il titolo imperiale. L’ Irlanda, che nel 1937 aveva ottenuto la piena indipendenza, nel 1949 divenne una Repubblica indipendente, lasciando addirittura il Commonwealth. Tuttavia, al sovrano venne riconosciuto il titolo di capo dell’ organizzazione intergovernativa, che ancora oggi spetta ai suoi successori.
Giorgio e il nipote, il principe Carlo;

Tra la fine della guerra e gli inizi degli Anni Cinquanta, la precaria salute di Giorgio si aggravò notevolmente, soprattutto di fronte alle intense e costanti responsabilità del trono, alla tensione procurata dalla guerra e alla sua forte attitudine di fumatore. Nel settembre del 1951 gli fu diagnosticato un tumore maligno, che peraltro gli portò una forma di arteriosclerosi, tuttavia volle continuare ad esercitare al meglio le proprie funzioni reali.
Malgrado il suggerimento dei medici, il successivo 31 gennaio 1952 volle recarsi all’ aeroporto per salutare la figlia Elisabetta, in partenza insieme al consorte Filippo per un viaggio in Australia con tappa in Kenya: era stato operato a un polmone, il suo cuore era debole e nelle ultime settimane il suo volto era diventato grigio e scavato, con gli occhi infossati che spesso guardavano nel vuoto. Subito dopo si trasferì all’ amata Sandringham House, dove le sue condizioni migliorarono sensibilmente. Il 5 febbraio andò a caccia con Elizabeth e la figlia Margareth, e al ritorno scherzò con loro. Cenò e si ritirò a letto, con il solito bicchiere di liquore al cioccolato sul comodino. Alle 7:30 del mattino dopo, il suo cameriere personale, in servizio da vent’ anni, andò a svegliarlo, ma non ricevette risposta: il re era morto nel sonno. Una telefonata partì immediatamente dalla residenza: «Hyde Park corner. Avvisate il governo.». Ogni prevedibile evento che riguardasse il sovrano e i membri della famiglia reale avevano un nome in codice, e «Hyde Park corner» annunciava la morte del monarca. Un assistente del segretario del sovrano si recò immediatamente a Londra, al 10 Dowing Street, la residenza del Primo ministro, e svegliò Churchill, ancora in camera da letto, annunciando la morte di re Giorgio: la notizia sconvolse profondamente lo statista, che pianse amaramente la morte del regnante appena cinquantaseienne, così fragile e coraggioso, che aveva vinto con lui la guerra contro il Führer.
L’ ultima foto di re Giorgio;

La preparazione dei funerali del re e della successione al trono iniziarono immediatamente. Elisabetta, ora regina con il nome di Elisabetta II, rientrò il giorno 7, incontrandosi dapprima con la nonna, la regina Mary, per poi recarsi a Sandringham House. Il successivo 11 febbraio un treno speciale portò la salma del re a Londra, per essere sposta al Westminster Hall, per l’ omaggio della sudditanza. Il settimanale statunitense Time scrisse: «Sotto il regno di Giorgio VI, i britannici si sono messi in coda per il cibo, il divertimento, i vestiti, le necessità e le ricompense della vita. Ora sono nuovamente in coda, per lo stesso re.». In appena tre giorni, trecentomila persone sfilarono davanti alla bara, e il 15 febbraio si tenne finalmente il funerale. Alle 9:30 il corteo si mosse mentre la campana del vicino Big Ben suonava cinquantasei rintocchi, come gli anni del defunto. A Hyde Park e alla Torre di Londra i cannoni spararono cinquantasei salve. La sfilata, lunga quasi due chilometri, attraversò lentamente il Mall, Piccadilly, Marble Arch, Edgware Road. Dietro alla bara del sovrano vi erano per la prima volta tre regine contemporaneamente: la madre Mary, la moglie Elizabeth e la figlia Elisabetta II, tutte e tre austere e impressionanti nel loro lutto, vestite di nero, con un velo che copriva il loro volto. Dietro di loro, vi erano il principe Filippo e gli altri parenti, incluso l’ ex re Edoardo, in alta uniforme della Royal Navy, il solo partecipante reputato fuori posto, additato come un disertore amico dei nazisti.
Alla stazione di Paddington, la bara fu caricata sul treno che l’ avrebbe condotta a Windsor, per essere seppellita nella St George’ s Chapel accanto a quelle del padre Giorgio V, del nonno Edoardo VII e degli avi Enrico VIII e Carlo I. Tra le corone di fiori, vi era quella di garofani bianchi inviata dal governo, la cui scritta sul nastro, dettata da Churchill, diceva semplicemente: «Al valore».
Il corteo funebre del re;

Quello di Bertie fu senza dubbio un grande viaggio soprattutto come persona, non soltanto come re. Fu la dimostrazione più evidente delle infinite capacità di una persona di crescere e superare i propri problemi, anche i più gravi. Per anni, il duca di York era stato affranto e vulnerabile, costantemente alle prese con un debilitante e frustrante impedimento che gli impediva di controllare la sua voce come avrebbe voluto, specialmente in pubblico, mentre in privato andava molto meglio. Generalmente considerato scialbo e debole, affrontò un grande viaggio personale giungendo splendidamente ad una grande meta impegnandosi duramente, meritandosi finalmente il controllo e sviluppando una sicurezza che non avrebbe mai neppure sospettato di raggiungere, divenendo uno dei migliori monarchi europei di cui si abbia tuttora il ricordo. La straordinaria vita e il regno di Giorgio VI, asceso al trono nel momento peggiore della storia della monarchia britannica, salvandola insperatamente dagli scandali e guidandola molto attivamente durante guerre e ricostruzioni, fu la conferma della straordinaria forza dell’ animo umano, una potenza che si annida spesso ignota in profondità, qualcosa che non può essere ingabbiato ma che si può gestire fino a cogliere risultati straordinari.

sabato 17 agosto 2019

Amore reale

Re Vittorio Emanuele II e l’ amata Bela Rosin;


«Regina senza trono e senza corona.» Costantino Nigra a proposito della Bela Rosin;

Si può affermare con una certa sicurezza che il termine «amore» sia uno dei più usati e persino abusati di tutti i tempi: libri, poesie, canzoni e film lo ripetono all’ infinito, tanto che oggi viviamo in una società in cui viene spesso usato a sproposito, quindi comprenderne il vero senso risulta molto difficile, eppure è necessario per comprenderne l’ importanza e il beneficio che può donare a noi stessi e alle nostre relazioni, contribuendo ad arricchirle e a prolungarle. In questo solo vocabolo sono racchiusi infiniti significati. Alcuni, ad esempio lo definiscono un trasporto quasi involontario, incontrollabile e passionale verso un’ altra persona, un sentimento quasi animalesco legato più al corpo che all’ anima, mentre per altri significa desiderare che l’ altra persona sia felice e fare di tutto perché ciò accada. Il concetto alla base di questa parola è costantemente mutato nel tempo, tanto che oggi si potrebbe affermare che amare significhi accettare la persona che si ama così com’ è, con tutti i suoi pregi e difetti, sebbene non manchi chi ragiona sul fatto che pretendere di cambiare chi si ama possa equivalere a non amarlo del tutto, oppure se sia possibile desiderare un mutamento nella persona amata in maniera disinteressata, auspicando cioè una trasformazione che porti quella persona ad essere più felice nel suo esclusivo interesse. In tal senso, pare assai più appropriato il concetto secondo cui ci si innamora di qualcuno per la sua unicità. Secondo i più, innamorarsi è quanto di più sconvolgente e sublime si possa provare, tanto nella gioia quanto nel dolore, qualcosa che si accarezza, si vive e si ruba nutrendo il cuore. E’ la sola emozione della sfera umana che porta oltre la vita, calandosi in un alone di immortalità e infinito sconosciuto allo spirito, di condivisione e complicità, di maturità e determinazione, di interesse e bisogno, di tenerezza e compassione, rappresentando il donare sé stessi all’ altro e fondendosi in una relazione indissolubile di una sola anima. L’ amore riesce quindi a districare quel groviglio di pulsioni, emozioni e passioni che confondono i bisogni e le ragioni, affinché scorrano fluide ed indipendenti, dentro gli infiniti rivoli del nostro cuore.
Naturale conseguenza dell’ esperienza amorosa è il matrimonio, quel particolare impegno tra due persone a vivere insieme risalente agli albori della civiltà umana, tanto che secondo svariate testimonianze avrebbe avuto origine già nella Preistoria, affinandosi costantemente nelle epoche successive assumendo un valore differente a seconda delle culture e del periodo storico, pur basandosi su valori tradizionali quali unione morale, fisica e legale tra un uomo, il marito, e una donna, la moglie, in completa comunità di vita, tesa a fondare una famiglia e una discendenza. Oggigiorno il valore più importante e tutelato dell’ unione coniugale è proprio l’ amore, tanto che la legge sostiene apertamente che un matrimonio può ritenersi valido solo se entrambi i coniugi hanno preso la decisione di unirsi autonomamente, senza pressioni esterne, riconoscendo loro il diritto di divorziare nel caso in cui la reciproca armonia dovesse venire a mancare, cosa che in passato non era affatto scontata: nel corso della storia, infatti, non erano rari i casi in cui un matrimonio veniva combinato dai padri degli sposi, oppure dal padre di lei direttamente con il pretendente ritenuto più idoneo, senza tenere conto dei desideri della sposa, destinata a passare la vita con un estraneo molto diverso da lei oppure più vecchio, finendo con il rivestire il ruolo di merce tesa ad accrescere il patrimonio e l’ importanza famigliari. Nella nobiltà, soprattutto tra le famiglie reali, e in seguito nell’ alta borghesia, il matrimonio significava proprio questo: un contratto, un’ unione vantaggiosa per entrambe le parti e resa indissolubile dai legami di sangue che ne sarebbero derivati, una pratica privilegiata con cui avvicinare vasti e articolati interessi politici e sociali, consacrati dal valore parentale. Tra le famiglie contadine, invece, rappresentava un utile espediente con cui preservare più facilmente il patrimonio terreno all’ interno dello stesso ceppo parentale, ricorrendo abitualmente ad unioni tra cugini, anche di primo grado.
La storia d’ amore tra Vittorio Emanuele II, primo re d’ Italia tra il 1861 e il
1878, appartenente ad una delle più antiche ed illustri famiglie reali europee, dalle origini quasi millenarie, e Rosa Vercellana, meglio nota come «Bela Rosin», una popolana analfabeta, figlia di un militare di carriera e promossa al rango di contessa di Mirafiori e Fontanafredda, rappresenta da sempre una bella storia d’ amore, che continua ad affascinare tuttora per i sentimenti evidentemente autentici sbocciati tra i due in aperta sfida alle loro differenze di rango, alle ostilità della corte sabauda e persino alla proverbiale abitudine da parte di lui a concedersi una scappatella dietro l’ altra, che gli valse una lunga e imprecisata sfilza di figli illegittimi. Lei non fu mai una patriota impegnata nella lotta per l’ unità nazionale, come Giuditta Sidoli, e neppure una testimone seppur minima del Risorgimento, come Olimpia Savio: non parlava mai di faccende di corte o di politica, ma con la sua semplicità permetteva a Vittorio Emanuele di liberarsi dagli impegnativi e solenni abiti del sovrano per indossare quelli di più semplici e gradevoli dell’ uomo amato, compreso e accettato per quello che era veramente. Circa la sua bellezza si discute ancora oggi: con le sue abbondanze e i suoi tratti grezzi aveva certamente il suo fascino, in tono con i criteri dell’ epoca, ma se fosse vissuta un secolo e mezzo più tardi, molto probabilmente non sarebbe diventata modella o un «simbolo sessuale» del fenomeno del divismo, forse nemmeno una comprimaria da palcoscenico.
Quel che unì il sovrano sabaudo e la popolana di provenienza astigiana fu un rapporto di amore vero, vissuto nell’ era del Romanticismo, delle disperazioni amorose, delle lacrime e dei sospiri, degli svenimenti e delle donne fatali, e rappresentò l’ insolita vicenda di una donna qualunque, non ambiziosa e neppure intrigante, ascesa ai vertici della società per la sua avvenenza e, una volta che questa era sfiorita, per la capacità di creare intorno all’ uomo che amava una tranquillità tipicamente borghese, un rasserenante ambiente familiare di cui lui aveva bisogno come persona.
Ritratto ufficiale di Vittorio Emanuele;

Vittorio Emanuele Maria Alberto Eugenio Ferdinando Tommaso di Savoia nacque il 14 marzo 1820 a Torino, figlio primogenito di Carlo Alberto, VII principe di Carignano, e Maria Teresa d’ Asburgo-Lorena di Toscana, figlia di Ferdinando III di Toscana. Trascorse i primi anni della sua vita a Firenze, in quanto il padre, uno dei pochi membri di sesso maschile viventi di Casa Savoia, appartenente al ramo cadetto dei Carignano, era stato costretto a trasferirsi con la famiglia a Novara, dato il suo coinvolgimento nei disordini del 1821, nei quali aveva appoggiato i congiurati che volevano imporre la costituzione a Vittorio Emanuele I, re di Piemonte e Sardegna, finché il suo successore, Carlo Felice, gli fece pervenire un ordine di trasferimento in Toscana, oltre i confini del Regno. Ad appena due anni, il piccolo Vittorio Emanuele fu protagonista di un incidente che portò presto alla nascita di chiacchiere, miti e leggende ancora oggi ampiamente discussi, soprattutto a causa dei rapporti ufficiali preparati in modo frettoloso e confuso: così come venne documentato, la sera del 16 settembre dormiva nella propria culla, circondato da un nugolo di insistenti zanzare, finché la balia Teresa Zanotti Rasca, che lo vegliava, si avvicinò con una candela accesa nell’ intento di bruciarle. Inavvertitamente, la ragazza fece bruciare la culla, e dopo un attimo di spavento si lanciò verso di essa sottraendo il piccolo principe ad una sorte atroce. Se lui riportò leggere scottature al fianco sinistro e alla mano destra, che guarirono in pochi giorni, la sfortunata nutrice invece morì il successivo 6 ottobre, dopo venti giorni di agonia in quanto il suo intero vestito era andato a fuoco, ustionandola gravemente. La ricostruzione lasciò ovviamente alcuni dubbi, dalla culla distrutta dalle fiamme alla povera bambinaia defunta, con il bambino rimasto miracolosamente incolume. Subito dopo, pertanto, si disse che il bambino fosse in realtà morto, e che i genitori, preoccupati per la successione al trono sabaudo, avessero deciso di occultare la tragedia facendolo sostituire con un pargolo della stessa età, figlio di un macellaio di nome Tanaca, di Poggio Imperiale, di cui aveva denunciato ufficialmente la scomparsa, mentre secondo altre voci sarebbe stato scambiato con il bambino di un certo Mazzucca, a sua volta macellaio presso la vicina Porta Romana. Tale ipotesi, sostenuta dal fatto che Tanaca qualche anno dopo sarebbe divenuto improvvisamente ricco, venne tuttavia confutata dalla maggior parte degli storici, che la definirono improbabile e dubbiosa, confinandola nell’ ambito delle semplici maldicenze, soprattutto considerando il fatto che Carlo Alberto e Maria Teresa, ancora in giovane età e quindi pienamente in grado di generare altri figli, appena due mesi dopo, il 15 novembre, ebbero un secondo figlio, il duca Ferdinando di Genova, cosa che di fatto non aveva reso necessario il ricorso a simili stratagemmi, peraltro pericolosi per l’ immagine pubblica del casato. In secondo luogo, tempo dopo Maria Teresa inviò al proprio padre una lettera nella quale descriveva il piccolo Vittorio Emanuele e la sua particolare vivacità: «Io non so veramente di dove sia uscito codesto ragazzo. Non assomiglia a nessuno di noi, e si direbbe venuto per farci disperare tutti quanti.». Evidentemente, se il bambino non fosse stato figlio suo si sarebbe ben guardata dallo scrivere simili parole.
Negli anni seguenti, il granduca Ferdinando III affidò i nipoti Vittorio Emanuele e Ferdinando al precettore Giuseppe Dabormida, che impartì loro una disciplina militaresca. Ora che Vittorio Emanuele stava crescendo, non vi era nessuno che non si interrogasse vedendolo accanto al padre: Carlo Alberto era infatti pallido, alto più di due metri e magrissimo, di carattere timido, riservato e molto pudico, colto, anche se prevalentemente autodidatta, e assai intelligente, mentre il figlio era piccolo, grosso, dal carattere piuttosto aperto ed espansivo, poco amante dello studio, tanto che secondo il suo maestro aveva una certa difficoltà di comprensione: «Dopo che una cosa gli era stata spiegata più e più volte, con le sue domande faceva intendere di non averla affatto capita.». Occorre tuttavia ricordare che i precettori a cui il principe era stato affidato erano «parrucconi mediocri in tutto, rigidi nel pretendere un rispetto dissennato delle formalità, vecchi d’ età e d’ idee, consumati da cattivi pensieri, intrisi d’ etichetta, e ci sarebbe voluta l’ intelligenza di un Nobel per cavare qualcosa di utile dai loro insegnamenti», come affermò lo storico e giornalista Angelo Del Boca.
Vittorio Emanuele in tenuta da cacciatore;

Frattanto, a Torino, nel 1831, Carlo Felice morì senza eredi, fatto che portò all’ estinzione del ramo principale dei Savoia. Il cugino Carlo Alberto rientrò quindi come suo successore, e Vittorio Emanuele lo seguì insieme alla famiglia, venendo affidato ad uno stuolo di alti precettori incaricati di formarlo. La disciplina educativa destinata ai principi di Casa Savoia, soprattutto gli eredi al trono, era sempre stata piuttosto spartana: riceveva tenerezza solo dalla madre, mentre il padre non ne era capace con nessuno e comunque preferiva il secondogenito Ferdinando, mentre gli istitutori, rigidi formalisti scelti in base alla lealtà alla famiglia reale e alla devozione religiosa, gli imponevano orari da caserma sia in estate che in inverno, con la sveglia alle 5:30, tre ore di studio, un’ ora di equitazione, un’ ora per la colazione, poi scherma e ginnastica, altre tre ore di studio, mezz’ ora per il pranzo e la visita di etichetta alla madre, e mezz’ ora di preghiere per concludere la giornata. Gli sforzi dei dotti educatori ebbero scarso effetto sulla refrattarietà agli studi del principe ereditario, che preferiva di gran lunga dedicarsi ai cavalli, alla caccia e a maneggiare la sciabola, oltre che all’ escursionismo in montagna, mentre la grammatica, la matematica, la storia e qualunque altra materia che richiedesse lo studio o anche la semplice lettura erano cose da cui sfuggiva. Le uniche materie nelle quali aveva un certo profitto erano la calligrafia e il regolamento militare. Peraltro, era talmente privo di orecchio e ostile a ogni senso musicale che dovette fare studi appositi per imparare a dare i comandi, in quanto stonava pure in quelli.
Nonostante l’ educazione ricevuta, Vittorio Emanuele dimostrava con una certa fierezza di essere un uomo del popolo: amava la compagnia e l’ allegria, e disprezzava i salotti, era impulsivo e irascibile, ben poco incline all’ etichetta e al protocollo. Adorava combattere e cacciare, era molto sensibile alla buona cucina delle Langhe, ai vini invecchiati e, soprattutto, al fascino delle donne. Abituale frequentatore di trattorie, si intratteneva sempre affabilmente con tutti, parlando in dialetto torinese, la sua lingua corrente anche a corte, limitando il francese alle sole occasioni importanti. Con l’ italiano ebbe per tutta la vita enormi difficoltà. La sola cosa che lo accomunava ai suoi antenati era la passione per la caccia, non solo quella al cervo o al capriolo, ma specialmente quella amorosa: prediligeva le giovani contadine, con cui viveva fugaci amori campestri di cui nessuno si lamentò mai, soprattutto di fronte ai generosi contributi alla dote nuziale della ragazza, che lasciavano sempre tutti ampiamente soddisfatti. Era soprattutto in questo campo che il giovane Savoia denotava il gusto delle cose schiette, privilegiando le donne e i buoi dei paesi suoi, nonché il gusto delle conquiste spicce. Intorno a lui non orbitavano mai donne fatali, men che meno quelle dame tipiche dei salotti culturali e mondani, non visse nessuna di quelle avventure ricercate o esotiche nelle quali altri romantici rampolli di antichi casati dilapidavano patrimoni e sfoggiavano spiccate qualità interiori presso le stazioni termali di mezza Europa, allargando i memoriali e alimentando gli scandali.
Il castello reale di Racconigi;

Come era abituale per un erede al trono, Vittorio Emanuele era stato avviato alla disciplina militare ancora in tenera età: dopo essere stato capitano dei fucilieri a undici anni, a diciotto gli fu concesso il grado di colonnello e il comando di un reggimento. Per lui fu una vera benedizione, non solo per il comando, con cui finalmente avrebbe sfogato la sua ambizione di carattere militare, ma anche perché significava la tanto desiderata fine di quel regime oppressivo che lo aveva tormentato nell’ inutile tentativo di dargli una cultura.
Nel 1842, divenuto generale, dopo un’ estenuante negoziazione che durò due anni, sposò una cugina di primo grado, Maria Adelaide d’ Asburgo-Lorena, figlia dell’ arciduca Ranieri, viceré del Lombardo-Veneto, e Maria Elisabetta, sorella del padre Carlo Alberto. Si trattava ovviamente un matrimonio politico, di un’ unione combinata, sebbene lei fosse perdutamente innamorata di lui, come attestato dalle lettere che gli scrisse prima delle nozze, durante i reciproci scambi di profili, medaglie e miniature. Bruna, magra e di carnagione pallida, attraente nonostante il labbro pendulo tipico degli Asburgo, era più alta della media e del marito: per non sovrastarlo dovette ingobbirsi. Avendo fatto buoni studi con ottimi precettori, conosceva diverse lingue, amava la lettura e la conversazione, sapeva ricamare, lavorare a maglia e ballare. Gentile e premurosa con tutti, ignorava la presunzione e l’ alterigia, non si metteva mai in mostra, adempiendo diligentemente ai suoi doveri di moglie di un futuro re. Possedeva un vastissimo guardaroba, composto da duemiladuecentoquarantotto capi tra abiti, sottane, camicie, pellegrine, pellicce, scialli, velluti, manti, cuffie e ventagli che costituivano il suo corredo nuziale. Il marito, che in privato la chiamava Suzi o Suzette, pur attestandole stima e affetto la tradì costantemente con un’ abbondante schiera di amanti, da cui ebbe un numero di figli illegittimi così elevato da essere rimasto imprecisato, ai quali spesso diede il nome Vittorio o Vittoria ed il cognome Guerrieri o Guerriero, e sempre preoccupandosi di fornire loro una sistemazione. Uno di essi, in particolare, fu Giacomo Etna, che negli anni sarebbe divenuto generale degli Alpini. A partire dal 1844, la sua amante favorita fu l’ attrice teatrale Laura Bon, conosciuta a Torino, e che trattò con grande cura e riguardo, donandole peraltro un lussuoso appartamento in città, affinché potesse condurre agevolmente la sua vita mondana e rimanere comodamente vicina ai teatri. Maria Adelaide dimostrò una costante e straordinaria capacità di sopportazione verso Vittorio Emanuele, soffrendo in un fermo silenzio, in conformità con il suo carattere descritto come dolce, mite, paziente e remissivo, trovando consolazione nell’ educazione dei figli, nel cucito, nelle pratiche religiose e nelle opere pie. Con la stessa simpatia con cui lui faceva parlare di sé, lei veniva reputata una santa. Tra il 1843 e il 1855, marito e moglie ebbero sette figli, e le continue gravidanze minarono il fisico di lei, che per rimettersi in salute prese a trascorrere periodi di soggiorno al mare presso La Spezia, che contribuirono ad accentuare la distanza tra loro. Si mormorava che ogni volta che lei si ritirava in preghiera, lui ne approfittasse per le sue allegre scappatelle.
Noto ritratto della Bela Rosin;

Nel 1847, al castello di Racconigi, amatissimo luogo di villeggiatura della famiglia reale, ebbe luogo un evento molto importante per il principe ereditario, da un anno luogotenente generale: alla fine di una battuta di caccia vide affacciata a un balcone la giovanissima Rosa Vercellana, di cui si innamorò al primo sguardo. Benché appena quattordicenne, era dotata di una pienezza fisica che conturbava notevolmente gli spiccati desideri del rampollo reale: era bruna e sensuale, sebbene non particolarmente ossequiosa ai canoni estetici, con quel viso un po’ squadrato, i lineamenti decisi, gli occhi troppo distanti, un nasino non certo alla francese, il tutto addobbato da una bocca carnosa e una natura corvina che non era solo un colore di capelli ma una profondità fisica di tutto il corpo, stranamente in lei unita a una certa dolcezza. Lui, che stava per divenire padre per la quinta volta, aveva ventisette anni, e per la prima volta in vita sua fu amore nel vero senso della parola: «Bella è bella, molto bella. Gran massa di capelli corvini, occhi scurissimi, carnagione perfetta. Il petto tutt’ altro che acerbo.». I primi incontri tra i due furono ovviamente clandestini, rigorosamente lontani dagli occhi di re Carlo Alberto, che avrebbe disapprovato, e della corte pettegola, anche perché nel Regno di Piemonte e Sardegna vigeva una legge che puniva duramente il rapimento di ragazze al di sotto dei sedici anni dalle rispettive famiglie: uno scandalo avrebbe irrimediabilmente minato il buon nome della famiglia più importante del regno, tenuta a dare il buon esempio al popolo, rispettando la legge e la morale ed evitando qualsivoglia leggerezza e lussuria. La ragazza, residente a Pinerolo e che come il novanta percento della popolazione di quel tempo era analfabeta, venne quindi trasferita nella residenza della palazzina di caccia di Stupinigi, molto più vicina a Torino, in una dipendenza del parco stesso, ove gli incontri sarebbero stati più sicuri. Inizialmente, nulla avrebbe fatto supporre che fosse nato qualcosa di speciale tra i due, invece restarono tenacemente legati l’ uno all’ altra, e gli incontri presero a ripetersi sempre più abitualmente, tanto che la servitù e i pochissimi informati iniziarono a spettegolare, sia pur con prudenza e riguardo, domandandosi chi fosse questa giovincella che pareva proprio aver conquistato il cuore di Vittorio Emanuele: Rosa Vercellana era nata a Nizza Marittima l’ 11 giugno 1833, figlia di Giovanni Battista Vercellana, un militare originario di Moncalvo, e Maria Teresa Griglio. Il padre aveva fatto parte della Garde Impériale, la guardia del corpo dell’ Imperatore dei francesi, i cui reggimenti erano formati dai migliori uomini reclutati dagli eserciti europei degli Stati sottomessi, e che combattevano in solenni alte uniformi, ma nel 1814 si era rifiutato di seguire Napoleone nella sua fuga dall’ Elba, entrando nei granatieri di Casa Savoia, con il grado di tamburo maggiore. Attualmente era membro della guardia personale di Carlo Alberto, a cui era devotissimo, e Vittorio Emanuele lo definì «una perla d’ uomo», nonché un ottimo soldato fedelissimo al casato.

Frattanto, in Europa e nella penisola italiana, passate attraverso la Rivoluzione francese, il Primo Impero, il Congresso di Vienna e la Restaurazione, fervevano nuove idee e tensioni. In Italia in particolare, tuttora divisa in otto Stati, si era sviluppata la Carboneria, una società segreta rivoluzionaria dagli ideali liberali e patriottici, di cui avevano fatto parte molti personaggi di rilievo, come Giuseppe Mazzini e Carlo Alberto. In seguito al fallimento dei carbonari, lo stesso Mazzini aveva fondato nel 1831 a Marsiglia la Giovine Italia, tesa a dar vita ad un’ Italia repubblicana. Le prime rivolte avevano spesso avuto esiti disastrosi, come il cosiddetto Fiasco di Savoia e l’ uccisione dei fratelli Bandiera. Ma ormai in diverse zone d’ Italia le cose erano mutate, al punto che nel 1847 re Ferdinando II delle Due Sicilie, tenendo conto delle insurrezioni in Campania, Basilicata, Calabria e Sicilia, pur represse dall’ esercito, concedette la costituzione, gesto un anno dopo imitato da Carlo Alberto, che nel 1848 introdusse nel Regno di Piemonte e Sardegna lo Statuto Albertino e, soprattutto, diede avvio al Risorgimento, il grande fenomeno di riunificazione nazionale dai tempi della caduta dell’ Impero romano d’ Occidente, pur riportando esiti disastrosi contro l’ Impero austriaco a Custoza e Milano, e soprattutto a Novara nel 1849, particolare disfatta che il 24 marzo lo portò ad abdicare in favore del figlio primogenito, che salì al trono come Vittorio Emanuele II, quarantesimo signore della dinastia, impegnandosi duramente nelle trattative con gli austriaci, riuscendo ad attenuare le condizioni dell’ armistizio, e in poco tempo venne soprannominato «Re Galantuomo» per aver accettato il sistema della monarchia costituzionale pur essendo di idee conservatrici e aver scelto di rispettare le decisioni del suo governo anche nel caso in cui non avrebbe concordato. Il Parlamento, a maggioranza democratica, gli era ostile e non voleva ratificare il trattato di pace con l’ Austria, che occupava Alessandria, ma lui lo sciolse e indisse nuove elezioni invitando gli elettori tramite il Proclama di Moncalieri a votare deputati moderati: il nuovo Parlamento risultò composto per due terzi da moderati favorevoli al governo di Massimo d’ Azeglio. Lo Statuto Albertino non gli era congeniale, ma lo accettò come segno di lealtà costituzionale, analogamente alle leggi Siccardi contro i privilegi del clero, che firmò pur non condividendole. In seguito, il 4 novembre 1852, con la propria ascesa alla carica di Primo ministro del Regno, nella sua vita di monarca entrò un personaggio che avrebbe acquisito enorme importanza, mutando radicalmente le sorti di Casa Savoia e d’ Italia: il conte Camillo Benso di Cavour. Figlio di un proprietario terriero e amministratore di grandi proprietà uscito indenne dalla bufera napoleonica, non godette mai della simpatia del re, il quale probabilmente ricordava di quando questi, ancora giovane, era stato segnalato come infido e capace di tradire a seguito delle sue esternazioni repubblicane e rivoluzionarie durante il servizio militare. Tra i due si instaurò un saldo ma faticoso connubio politico, durante i quali Vittorio Emanuele arrivò più volte a limitare le azioni del suo Primo ministro, anche a costo di mandargli in fumo svariati progetti politici, alcuni dei quali di notevole portata. Ciononostante, nei dieci anni tra il 1849 e il 1859 il conte si dedicò efficacemente all’ ammodernamento del Regno e alla sua riorganizzazione: da una parte finanziava i moti rivoluzionari, o li tollerava, e dall’ altra proponeva come soluzione del problema dei disordini l’ ampliamento del reame sabaudo, che con la partecipazione alla guerra di Crimea come alleato del Secondo Impero francese, retto da Napoleone III, si affacciò con una certa importanza alla scena internazionale. In seguito, con gli accordi segreti di Plombiéres, l’ astuto statista ottenne la promessa dell’ appoggio francese in caso di attacco austriaco in cambio della Savoia, di Nizza e della corona del Regno delle due Sicilie, che sarebbe spettata al principe Girolamo Bonaparte di Montfort. Tra il 1859 e il 1861, grazie ad una serie di azioni ingegnose e occasioni favorevoli Casa Savoia riuscì insperatamente a unire l’ Italia sotto propria la corona: il 17 marzo 1861, Vittorio Emanuele, che aveva sempre desiderato proseguire la politica espansionistica dei suoi avi, divenne il primo re d’ Italia, benché mancassero ancora importanti territori quali il Veneto, il Friuli, la Venezia-Giulia e il Trentino-Alto Adige, tuttora entro i confini austriaci, il Lazio, parte dello Stato Pontificio, e il meridione, rimasto sotto il Regno delle Due Sicilie. Con l’ eccezione del Trentino-Alto Adige e del Friuli-Venezia Giulia, tutte queste zone vennero gradualmente annesse all’ Italia sabauda in una serie di azioni che durarono fino al 1871, mentre la capitale veniva spostata nel 1865 da Torino a Firenze, per poi essere definitivamente stabilita a Roma il 21 gennaio dello stesso 1871.
Il conte Emanuele Guerrieri;

Nonostante la sua intensa vita di re, trascorsa in un periodo molto particolare della storia del suo casato e della nazione su cui venne chiamato a regnare, Vittorio Emanuele non trascurò quella personale e le proprie passioni, soprattutto quelle amorose. Benché innamorato di Rosa, che divenne famosa come «Bela Rosin», non smise di frequentare l’ attrice Laura Bon, che nel 1849 per lui lasciò le scene, andando a vivere al castello di Moncalieri, ove condusse un’ esistenza dorata e piena di riguardo. I due amanti ebbero peraltro una figlia, Emanuela, nata prematura nel 1853, e che venne nominata dal padre contessa di Roverbella. Tuttavia, a causa della gelosia manifestata verso la giovane Rosa, l’ artista venne congedata e costretta a lasciare il vecchio Piemonte, riprendendo a calcare le scene a Firenze, Vienna e Napoli, vivendo gli ultimi anni della propria vita in povertà, al punto da dover recitare con compagnie teatrali modeste a Venezia, ove morì nel 1904. Altre donne condividevano le sue attenzioni, come l’ attrice quindicenne Emma Ivon, che frequentò a Firenze nel periodo in cui questa era la capitale nazionale: aveva perso la testa per lei, e spendeva somme enormi fino al giorno in cui, giunto da lei a sorpresa, la trovò tra le braccia di un ufficiale napoletano. Altra amante degna di nota fu la celeberrima contessa Virginia Oldoini di Castiglione, cugina del conte di Cavour, che nei suoi carnet, piccole agende che spesso le dame tenevano legati ai polsi, registrava gli incontri di ogni giornata, contrassegnando i nomi con una lettera, a seconda del carattere dell’ incontro: pare che la lettera F, che non mancava mai e spesso seguiva quello del Re Galantuomo, significasse «incontro carnale». Ironizzando sulle sue continue vicende ardenti, Massimo D’ Azeglio, già convinto della veridicità delle voci sullo scambio di neonati a seguito dell’ incendio della culla a Firenze, ebbe a dire: «Se continua così, più che il padre della patria sarà il padre degli italiani…».
Con l’ andare del tempo, Rosa si rivelò la donna ideale per il sovrano: sempre di buon umore, mai musona, tenace e convinta del valore dei sentimenti. Aveva compreso di non potersi aspettare la fedeltà fisica, e, ironicamente, lasciandolo libero lo legò ancora di più a sé. Qualche tempo dopo i loro primissimi incontri, i Vercellana richiesero un contributo affinché lei potesse rifarsi una vita con un sergente dell’ esercito, ma inaspettatamente Vittorio Emanuele reagì, e lo sfortunato rivale venne mandato in Sardegna. Peraltro, la ragazza di campagna si rivolse al suo principe per ottenere la grazia a beneficio del fratello Domenico, che era stato messo agli arresti. Tempo dopo, la sua posizione cominciò a divenire evidente quando Vittorio Emanuele, ormai re, esonerò il generale Cigala, in servizio a corte da trent’ anni, perché le aveva negato una vettura con lo stemma dei Savoia. Quando le cose tra i due amanti si fecero serie e le voci iniziarono a trapelare, presto emerse dal nulla una crescente schiera di parenti che, sempre vestiti a festa, accompagnavano la giovane praticamente ovunque, che fosse a teatro o durante la passeggiata attraverso il Parco del Valentino: vi fu perfino una vecchietta che aveva sempre venduto fiammiferi sotto i portici che incominciò addirittura a parlare del monarca come di «suo nipote Vittorio». Il sovrano reagì prontamente, ridimensionando con forza i pinerolesi dalla schiera degli aiutanti. Rosina riuscì comunque a piazzare a corte un cugino, Natale Aghemo, che divenne conte e addirittura capo di gabinetto di Vittorio Emanuele.
Ormai apertamente sulla bocca di tutti, questa relazione suscitò scandalo e ostilità sia a corte che presso l’ aristocrazia, ove imperavano bigottismo e alterigia, ma Vittorio Emanuele non cedette alle pressioni, e spesso ricordava a tutti e senza mezzi termini di essere il re. Affiancò a Rosa una dama di compagnia, Madama Michela, con il compito di insegnarle le buone maniere, ma per quanto lei si addobbasse con vistosi gioielli e sontuosi vestiti, venne sempre disprezzata ed evitata dalla nobiltà. I due amanti ebbero due figli, Vittoria ed Emanuele Guerrieri, nati rispettivamente nel 1848 e nel 1851 e denunciati come figli di ignoti. Maria Adelaide fu la sola a non accusare mai il colpo, andando costantemente avanti tra sorrisi e opere pie, sebbene un diplomatico francese di nome Ideville riferì che la regina un giorno incontrò uno dei figli di Vittorio e Rosina durante una passeggiata nel castello di Stupinigi e lo prese tra le braccia con il volto inondato di lacrime. Il 20 gennaio 1855, ella morì a seguito di un’ improvvisa e violenta gastroenterite manifestatasi mentre si trovava in carrozza, al ritorno a palazzo dai funerali della suocera Maria Teresa d’ Asburgo-Toscana. La sua agonia fu atroce, tanto che i suoi gemiti si udivano nella vicina piazza. Impietrito al suo capezzale, Vittorio Emanuele le tenne la mano sino all’ ultimo respiro. La morte della sua regina fu un duro colpo per lui, abbastanza forte da mettere per qualche tempo in crisi la convivenza con Rosa. Il sovrano manifestò un sincero dolore per la scomparsa della consorte, che aveva svolto magnificamente il proprio ruolo istituzionale, come una vera Asburgo, senza mai opporre ostacoli alla sua politica o compromettere il suo buon nome. Ora che il regnante si trovava vedovo, il conte di Cavour e i suoi ministri si interessarono vivamente alla preparazione di un nuovo matrimonio politico, identificando una cerchia di candidate ideali sulla base dei benefici dinastici che avrebbero portato con sé. La sola idea che sposasse ufficialmente la tanto invisa campagnola era intollerabile, e il Primo ministro in particolare non ebbe scrupoli a ricorrere a tenaci e costanti manovre che spesso sconfinarono nella minaccia pur di separare i due amanti: la Bela Rosin era impresentabile, avrebbe certamente finito con il gettare discredito sull’ immagine del re e Casa Savoia proprio ora che erano al centro di tutti i progetti per l’ unità d’ Italia, quindi non lasciò nulla di intentato nella sua opera, arrivando perfino a dire che lo tradiva, ma lei si difese con intelligenza affermando che non avrebbe mai potuto avere altri amanti perché i focosi assalti di Vittorio Emanuele erano piuttosto stancanti. Lo stesso re scrisse in una lettera: «Io non sposerò altra donna che lei!». Si racconta che quando il monarca convocava insieme il suo Primo ministro e la sua compagna in qualche residenza, loro viaggiassero sullo stesso treno ma su carrozze separate, però, una volta casa, lei cucinava risotti e tajarin di fronte ai quali anche il duro capo di governo tendeva ad ammorbidirsi.
Dopo la brillante partecipazione del Piemonte alla Guerra di Crimea, i sovrani di mezza Europa si mostravano interessati ad imparentarsi con Vittorio Emanuele, signore di quel piccolo Stato che, grazie al genio del conte di Cavour e all’ evolversi della situazione internazionale, stava espandendosi riscuotendo forti simpatie in ambito europeo: l’ imperatore Napoleone III voleva offrirgli una principessa dei belgi, mentre la regina Vittoria del Regno Unito, che lo invitò a Windsor per insignirlo dell’ ordine della Giarrettiera, pur avendo espresso privatamente alcuni dubbi su di lui, avanzò la candidatura di sua figlia Mary. Altri invece pensarono alla cognata Elisabetta di Sassonia, vedova del fratello Ferdinando di Genova. Benché comprendesse il prestigio e i numerosi vantaggi che avrebbe tratto da tali unioni dinastiche, il Re Galantuomo oppose sempre un fermo diniego: a proposito della principessa Mary, ad esempio, disse che «sapeva troppo di greco e di latino», manifestando una certa allergia verso la donna colta e al tempo stesso bellissima ed intrigante. Il re eluse con ostinazione i piani matrimoniali del suo governo, pensando sempre più spesso che Rosa fosse la sposa ideale per lui: cucinava per lui i cibi tradizionali della cucina piemontese, gli tagliava le unghie dei piedi, come tradizione nelle campagne, lo trattava con l’ affetto e la deferenza delle mogli borghesi dell’ epoca. Addirittura, nelle cene ufficiali non toccava cibo, mettendo tutti i commensali in imbarazzo. Ostile ad ogni forma di etichetta, nel proprio animo si considerava un borghese, un proprietario terriero, e lei lo faceva sentire tale. Lo seguì in ogni suo trasferimento lungo l’ Italia, sempre defilata ma presente: «E’ la compagna indivisa delle mie pene.».
In seguito, l’ 11 aprile 1858, la nominò contessa di Mirafiori e Fontanafredda, comprando per lei anche il castello di Sommariva Perno, con la possibilità di trasmettere il titolo al figlio Emanuele. Isolata e disprezzata dai nobili, Rosa fu invece amata dal popolo per le sue origini contadine: si dice che la canzone popolare risorgimentale «La bella Gigogin» si riferisse in realtà a lei, e il soprannome Bela Rosin veniva pronunciato sempre con affetto e rispetto. Nel 1863 si trasferì negli Appartamenti Reali di Borgo Castello. Tale residenza, che non apparteneva alla Corona ma al patrimonio privato del re, rimase sempre la preferita della coppia, poiché Vittorio Emanuele amava rifugiarvisi per cacciare e sfuggire alla vita di corte.
Vittorio Emanuele con Rosa e i figli;

Anche se in circostanze drammatiche, nel 1869 giunse finalmente la grande svolta nel loro rapporto. Dopo una tenace opposizione da parte di governo e aristocrazia, i due poterono sposarsi: a dicembre, Vittorio Emanuele fu colpito da una forte polmonite, che per i medici sarebbe stata fatale, e complice il fatto che il conte di Cavour era morto nel 1861, pochi mesi dopo la proclamazione dell’ Italia unita, si parlò apertamente di un matrimonio religioso, al quale il parroco di Mirafiori già lavorava da tempo. La notte del 18, alla presenza del principe ereditario, Umberto di Piemonte, figlio secondogenito del re, del Primo ministro Luigi Federico Menabrea e di pochi intimi, Vittorio Emanuele ricevette in articulo mortis il sacramento del matrimonio, e quello dell’ estrema unzione, sebbene qualche tempo dopo guarì e, nel giro di un anno, entrò trionfalmente a Roma. Quasi otto anni dopo, il 7 novembre 1877, nella Villa Mirafiori di Roma, sarebbe stato celebrato anche il matrimonio civile, del quale però non esistono documenti. Le nozze tra il Re Galantuomo e la Bela Rosin furono morganatiche, che escludevano sia la moglie che i figli dall’ ereditarietà e dall’ acquisizione dei titoli e del marito. Rosa, quindi, non fu mai regina, traguardo a cui pare che non mirasse neppure, sebbene qualche storico sia convinto del contrario. Sicuramente, Vittorio Emanuele avrebbe tanto voluto condividere la corona con lei, trovandosi tuttavia costretto a cedere a pressioni politiche, veti dei figli legittimi e questioni di immagine. Il successo di Casa Savoia, unica famiglia reale rimasta sulla scena italiana, fu un peso sulla loro vita coniugale che furono tenuti sempre ad accettare: non potevano far parlare di sé, dando il minimo appiglio agli oppositori, fossero essi aristocratici locali nostalgici delle precedenti famiglie reali oppure repubblicani. Rosa risiedeva in una villa sulla Salaria, che il re raggiungeva ogni giorno uscendo dalla foresteria del Quirinale, che non amava particolarmente, e viveva nel più stretto riserbo, accettando la condizione di moglie ombra. Le residenze dove lei abitava, dalla Mandria di Venaria alla Pietraia nei pressi di Firenze, passando per Villa Mirafiori, fatta costruire proprio per lei sulla Nomentana a Roma, furono le vere case anche del sovrano, quelle dove trovava una vera famiglia, con lei che lo aspettava per dargli tutto quello che una brava moglie sa dare a un marito, divenendo il suo rifugio tranquillo e appartato dalle noiose cerimonie e dagli interminabili ricevimenti, l’ oasi di benessere semplice, quasi borghese, campagnolo ed erotico, sempre pronta ad accoglierlo e viziarlo con piatti di tajarin, agnolotti, cinghiale in civet e barolo davanti al caminetto, oltre che con passeggiate a braccetto nei boschi e tra le vigne, lontano dagli intrighi di corte. Certo, si vestiva in modo un po’ chiassoso, a un certo punto della vita sembrava un po’ troppo incline agli sfarzi, per quanto sempre relativi, mentre lui non metteva mai a freno i propri istinti amorosi, conquistando una bella e focosa amante dopo l’ altra. Ma la Bela Rosin aspettava sempre, paziente e fiduciosa, e lui tornava puntualmente da lei, pronta a togliergli gli stivali, a porgergli un sigaro intinto nel cognac e a preparagli un buon piatto di bagna caoda. Le residenze ufficiali a lei erano precluse, ma questo non le impedì di organizzare con una certa bravura un proprio regno all’ interno delle sue eleganti tenute.
Se perfino Laura Bon, la sua più accesa rivale, l’ aveva trovava bella è certo che secondo i criteri dell’ epoca lo fosse davvero, ma dalle fotografie attualmente rimaste l’ aggettivo che più le si addice è «riposante»: forse fu proprio questo il suo lato caratteriale più importante, la base sicura della decennale storia d’ amore con il Re Galantuomo. In tali fotografie, che la ritraggono in età matura, appare rotondetta, serena, paciosa, matronale e protettiva, con l’ aria da popolana rifatta. Non ha più il fascino acerbo della ragazzina scorta per la prima volta al castello di Racconigi, ma certamente basa su altri mezzi il proprio potere di seduzione. Fu una donna riposante e semplice, spettatrice di primo piano della storia del Risorgimento, che visse di riflesso, come dalle finestre di un’ elegante e pacifica alcova, e certamente non inquietante o disinibita come la contessa di Castiglione, inviata dal conte di Cavour a Parigi per sedurre Napoleone III affinché fosse più propenso ad appoggiare gli interessi del governo di Torino. E neanche fatale, profonda, graziosa e inattingibile come la baronessa milanese Metilde Viscontini Dembrowski, coinvolta nel 1821 in una congiura contro gli austriaci, di cui Henri Beyle, in arte Stendhal, s’ innamorò perdutamente senza essere riamato.
Il Mausoleo della Bela Rosin, a Mirafiori, Torino;

Il 9 gennaio 1878, Vittorio Emanuele morì al Quirinale, a seguito di una polmonite derivante da una notte trascorsa all’ addiaccio presso il lago nella sua tenuta di caccia laziale in occasione di una battuta venatoria. La commozione che investì rapidamente la nazione fu unanime, e i titoli dei giornali la espressero facendo uso della retorica tipica del periodo. La sua Rosa era lontana, colpita da un’ influenza nella tenuta della Mandria, a pochi passi da Torino, uno dei tanti nidi d’ amore in cui alla coppia piaceva trascorrere le vacanze. Il Padre della Patria venne seppellito al Pantheon, pur avendo espresso il desiderio di riposare eternamente nella Cripta Reale della Basilica di Superga, ove erano già stati tumulati alcuni membri di Casa Savoia, come il padre Carlo Alberto. In occasione dei suoi solenni funerali, a cui parteciparono esponenti di governi e famiglie reali, nonché diplomatici e militari di alto rango, Roma fu invasa da una moltitudine sconfinata, comprendente circa duecentomila persone. Sul trono del neonato regno italiano salì il figlio Umberto di Piemonte, freddo, autoritario e compassato, che pur essendo il quarto capo del casato a portare questo nome decise di chiamarsi Umberto I per rispetto verso la patria, a differenza del padre, che non aveva ritenuto opportuno cambiare il numero per sottolineare la continuità dinastica.
Dopo la morte dell’ amato marito, la Bela Rosin fu definita persona non gradita da Margherita, moglie di Umberto e prima regina d’ Italia, che analogamente al marito l’ aveva sempre trattata con distacco, come un’ intrusa. Le vennero requisite tutte le residenze in cui abitava ad eccezione del Castello di Sommariva Perno. Malinconica e nostalgica, assunse il ruolo di vedova ombra, al punto che la corona di fiori che inviava al Pantheon ogni anno in occasione dell’ anniversario della morte di Vittorio Emanuele non recava alcun nome. Trascorse quindi il resto della sua vita presso Palazzo Beltrami, a Pisa, ove morì di diabete il 26 dicembre 1885, dopo aver spesso ripetuto di essere «sopravvissuta» all’ amato consorte. Casa Savoia vietò espressamente che venisse seppellita al Pantheon, non essendo mai stata regina: per questo motivo, in aperta sfida alla corte di Roma, i figli Vittoria ed Emanuele decisero di riunire moralmente i genitori facendo edificare a Mirafiori un Pantheon in miniatura, il «Mausoleo della Bela Rosin», in cui deposero le spoglie mortali di lei, che vi rimasero fino al 1972, quando furono spostate al Cimitero monumentale di Torino per evitare profanazioni e vandalismi ai danni della tomba. Oggi, in seguito ad un grave periodo di degrado, il Mausoleo di Mirafiori è sede espositiva gestita dalle biblioteche civiche torinesi.
Mentre i Savoia consolidavano la propria posizione sulla scena nazionale e internazionale cogliendo l’ eredità di Vittorio Emanuele II, Vittoria ed Emanuele Alberto Guerrieri vissero un’ esistenza decorosa e tranquilla, lontana dai clamori e dalla notorietà. Lei sposò nel 1868 il marchese Giacomo Filippo Spinola, primo aiutante di campo del sovrano, e poi con il fratello Luigi, mentre lui, che nel 1866, appena quindicenne, aveva partecipato insieme al padre alla Terza Guerra d’ Indipendenza, svolse attività di produttore di vini e altri prodotti agricoli nei territori di Serralunga d’ Alba e Barolo, fungendo da presidente di associazioni di ex combattenti e sportive. Fondò le rinomate Cantine di Fontanafredda, prestigiosa ditta vinicola ancora esistente, dimostrandosi un valente pioniere della viticultura piemontese. Sposò Bianca Enrichetta de Larderel, una nipote del conte Francesco Giacomo de Larderel di Montecerboli, da cui ebbe due figli, il secondo dei quali, Gastone, prese in moglie Margherita Boasso, da cui ebbe una sola figlia, Vittoria, che convolò a nozze con il conte Melchiorre Gromis di Trana, da cui nacquero sei figli, il secondo dei quali, Gastone, fu padre di Caterina, classe 1962, etologa e autrice di libri sugli animali nativa di Torino, dove risiede tuttora.
La contessa Caterina Gromis di Trana;

Quella tra Vittorio Emanuele e Rosa fu senz’ altro una bella storia di amore, forse addirittura la più famosa del Risorgimento, e si intrecciò in modo unico con la tappe dell’ unità nazionale e con le prime vicende del neonato Regno d’ Italia. Nonostante la sua natura poligama, che visse beatamente anche dopo averla conosciuta, il Re Galantuomo vide costantemente nella Bela Rosin la propria anima gemella, il suo spirito complice e confortante, la fonte più autentica della sua felicità, da cui ebbe i figli che molto probabilmente amò più di tutti gli altri. Fu senz’ altro un amore intenso e passionale, vissuto rigorosamente nel segreto delle loro stanze da letto, perfettamente armonioso a dispetto della differente provenienza sociale dei due, visto dal di fuori e nel tempo soprattutto come una relazione pacata, domestica e familiare, rasserenante e straordinariamente capace di resistere alle pressanti difficoltà affrontate, prima tra tutte la ferma opposizione da parte del potente conte di Cavour, uomo dalla mente raffinata, vasta ed intricata. Fu un rapporto davvero straordinario, come dimostrato dai ritratti in cui i due appaiono insieme: entrambi tracagnotti, con lo sguardo fiero, dritto e profondo di chi sa cosa vuole dalla vita, immersi in una bella aria di campagna, a conferma del vecchio detto secondo cui chi si assomiglia si piglia.
Perfino il loro matrimonio morganatico, che impedì a lei di divenire regina e ai due figli di acquisire il nome dei Savoia e di entrare conseguentemente nella linea di successione al trono d’ Italia, fu una notevole eccezione, in un’ era in cui principi e principesse di sangue reale si sposavano soltanto tra di loro stringendo vincoli di interesse e arricchendo la discendenza dinastica, a beneficio esclusivo della ragion di Stato e di casta: celebrato quando lui pareva ormai al termine della sua esistenza, più di ogni altra cosa dimostrò un sincero e raro amore.