mercoledì 14 ottobre 2020

C' era una volta un Re

Re Vittorio Emanuele III, 1915;


«Gli uomini si illudono di fare la Storia, ma la Storia fa da sé.» Re Vittorio Emanuele III d’ Italia;


Come noi ben sappiamo in quanto persone viventi nell’ epoca delle informazioni, la storia non è una scienza esatta, e nonostante la tendenza dei vincitori a scolpirla sulla pietra per mezzo di versioni ufficiali, nessun argomento è mai quello definitivo. L’ essere umano è per definizione qualcosa di estremamente complesso da analizzare e comprendere appieno, con i suoi pensieri, sentimenti, azioni e reazioni, e il principio si riflette a livello esponenziale sulla società in cui vive, in quanto sconfinato insieme di singoli individui. Dopo oltre duecento anni, ad esempio, Napoleone Bonaparte è tuttora al centro di un animato dibattito atto a determinare il movente della sua azione politica, mossa da ideali sia rivoluzionari che assolutistici, da altri cento anni si discute ancora su di chi fu la principale responsabilità dello scoppio della Grande Guerra, che di fatto mutò per sempre il volto dell’ Europa e la società interna dei singoli Paesi coinvolti, e da altri settantacinque ancora sull’ effettiva utilità dei bombardamenti atomici in Giappone, che da una parte indussero Tokio alla resa, mentre dall’ altro inaugurarono la Guerra fredda tra Stati Uniti e Unione Sovietica.

Comprendere la storia è certamente possibile, anche se spesso risulta complesso per scarsezza di informazioni o per la loro mancanza di chiarezza, e capire i singoli personaggi il più delle volte rappresenta qualcosa di ancor più arduo. Un grande esempio di questo principio è rappresentato da uno dei più noti e discussi personaggi del Novecento italiano, ossia Re Vittorio Emanuele III, terzo e penultimo sovrano d’ Italia, un uomo a suo tempo così riservato e avido di confidenze da passare per una sfinge, che se per i politici rappresenta la causa di energici dibattiti settari, per gli storici che dovrebbero capirlo con distaccata obiettività risulta piuttosto una vera e propria sfida. Poche cose sembrano in grado di mettere tutti d’ accordo: nel suo regno quarantennale avvenne la maggior parte degli eventi che, sia nel bene che nel male, contribuirono a inserire la giovane Italia negli equilibri politici, diplomatici ed economici d’ Europa, complessi quanto una partita a scacchi. Quando salì al trono nel 1900, trovò un Regno che faticava ad imporsi e modernizzarsi, e quando se ne andò nel 1946, ormai abdicatario, lo lasciò all’ imbocco della lenta e impegnativa strada per la ricostruzione e il ritorno alla democrazia. Quale fu il suo ruolo in quei primi quarantasei anni del XX secolo? Quali principi politici lo animarono? Fu un irresponsabile e un fuggiasco? O piuttosto una sorta di prigioniero politico?

La reggia di Capodimone, Napoli;


L’ 11 novembre 1869, presso la meravigliosa reggia di Capodimonte, uno dei capolavori più noti di Carlo III di Borbone, nacque sotto ottimi auspici Vittorio Emanuele Ferdinando Maria Gennaro di Savoia, figlio dei principi Umberto e Margherita di Piemonte. Secondo nella linea di successione al trono italiano, era nipote di Vittorio Emanuele II, il popolare Re Galantuomo celebrato per aver mantenuto in vigore lo Statuto Albertino che aveva fatto del regno sabaudo una monarchia costituzionale, e che come Padre della Patria per aveva portato a compimento il Risorgimento nazionale con la Proclamazione del Regno d’ Italia, otto anni prima, con il prezioso aiuto del conte Camillo Benso di Cavour, suo Presidente del Consiglio dei ministri.

La scelta di Napoli come luogo di nascita del futuro re e del suo titolo di principe di Napoli non furono casuali, in quanto si desiderava avvicinare la popolazione locale, per lungo tempo regnata dai Borbone, a Casa Savoia, in certi ambienti indicata tuttora come una dinastia di provenienza francese e sacrilega per aver rovesciato lo Stato Pontificio, retto fin dal 751 dal papa. Come avvenne per suo nonno, che era stato oggetto di chiacchiere secondo le quali era morto nella culla a Firenze per poi essere scambiato con il figlio coetaneo di un macellaio, la nascita del piccolo Vittorio Emanuele fu alla base di qualche pettegolezzo: in molti dissero che la principessa Margherita, divenuta sterile a seguito di complicanze durante il parto, avesse dato alla luce una bambina e che il marito Umberto avesse ordinato di cambiarla con un bambino pronto già da tempo per eventuali emergenze dinastiche. Figlio e nipote di cugini primi, nacque con le gambe sproporzionatamente corte rispetto al resto del corpo, difetto ereditato dalla madre che lo aveva meno accentuato, e un fisico gracile e di bassa statura che lo portarono a maturare una certa sofferenza da cui nacque un carattere schivo e riflessivo al limite del cinismo. Negli ambienti filopapali di Roma si insinuò persino la maldicenza secondo cui le carenze fisiche del principe ereditario fossero il castigo di Dio contro il Re suo nonno, che aveva autorizzato la presa della città santa, cuore della cristianità, ma ai più era chiaro che le cause erano le troppe unioni tra parenti stretti. Si racconta che sua madre, la popolare principessa Margherita, gli propose un giorno di passeggiare insieme per Roma, e che lui le rispose: «E dove vorreste andare a mostrarvi con un nano?». Per compensare l’ insufficienza fisica, il giovane erede al trono sviluppò un amore quasi morboso per lo studio e il lavoro di scrivania, tanto che a dieci anni era in grado di ricordare a memoria l’ intero albero genealogico e l’ ordine di successione della dinastia fino al tempo del leggendario fondatore, il conte Umberto Biancamano di Moriana. Gli interessi culturali lo allontanavano di molto dai suoi predecessori, per i quali erano il diritto divino e la provvidenza a guidare i loro passi, quindi non vi era bisogno di letterati e ingegni umani per influire sulla loro esistenza.

Vittorio a otto anni con Margherita;


Bambino introverso ma intelligente, gentile e generoso, Vittorio Emanuele non ebbe un’ infanzia molto felice, in quanto crebbe secondo la tradizionale educazione della sua Casa, severa e di carattere militare, in cui non si favorivano gli slanci affettuosi. Con i genitori, che non si occuparono mai di lui, ebbe relazioni formali e quasi episodiche, mangiando con loro solo due volte alla settimana. Il 9 gennaio 1878, con la morte del nonno, il padre divenne il nuovo re, e lui divenne il primo nella linea di successione. Tre anni dopo, dodicenne, fu affidato ad un precettore, il colonnello Egidio Osio, un tempo addetto militare all’ ambasciata italiana a Berlino e suggerito dal principe Federico di Hohenzollern, erede al trono dell’ Impero tedesco: uomo duro, imperioso e abituato al comando, questi gli impresse un’ educazione sul modello prussiano del sovrano in arme. Pare che appena ricevuto l’ incarico disse apertamente al pupillo: «Ricordatevi che il figlio di un Re, come il figlio di un calzolaio, quando è asino è asino.». Spesso venne udito affermare: «Il Principe è libero di fare tutto quello che voglio io.». Nonostante le voci circa gli effetti insalubri che la severità del militare ebbe sul carattere del futuro sovrano, rendendolo ancora più insicuro e introverso, i due ebbero un rapporto di amicizia che li portò ad intrattenere una corrispondenza quasi giornaliera, e il principe ereditario difendeva spesso il precettore dalle accuse rivoltegli. L’ educazione di Osio fu comunque rigida, meccanica ed ossessionante, il principe si irrobustì nel fisico e si abituò alla semplicità ma accentuò il suo carattere arido, pignolo, riservato e diffidente.

Miscredente in tema di religione, al punto che il suo precettore dovette punirlo perché fece gestacci in direzione della processione del Corpus Domini che passava sotto il suo palazzo, ebbe un’ educazione accurata, comprendente la frequenza della prestigiosa Scuola militare Nunziatella di Napoli, che completò con lunghi viaggi all’ estero. Per ordine della madre, che apprezzava la buona musica, apprese faticosamente il pianoforte pur amando la tromba, a cui non poté dedicarsi, e il risultato fu uno scarso interesse per la musica, con qualche eccezione: apprezzava Liszt e le musiche marziali eseguite dalle bande militari.

Amante della cultura, contrariamente al padre, di educazione prevalentemente militare e che si vantava di non aver mai letto un libro, e di suo nonno, notoriamente non una mente eccelsa negli studi, era estimatore di William Shakespeare, molto appassionato di numismatica e geografia: la sua conoscenza in queste materie era riconosciuta ad alti livelli, anche fuori dal Regno. Parlava quattro lingue, tra italiano, francese, inglese e tedesco, e il dialetto piemontese e napoletano, ma non amava il teatro e neppure i concerti. Tra tutte le sue passioni svettavano forse la numismatica, la storia e la geografia.

La principessa Elena del Montenegro;


Soprannominato «Sciaboletta» durante gli anni di servizio militare, a causa del fatto che gli era stata fabbricata una spada più corta in confronto ai commilitoni per adeguarla alla sua bassa statura, era infatti alto un metro e cinquantatré centimetri, durante il suo periodo di stanza a Napoli come colonnello entrò in conflitto con un suo parigrado che comandava il 10º Reggimento dei Bersaglieri: quel colonnello era Luigi Cadorna e tra i due nacque una forte antipatia che durò tutta la vita. Analogamente a tutti i giovani di Casa Savoia ebbe diverse avventure erotiche, una in particolare con la baronessa Maria Barracco da cui pare nacque una figlia, ma fu molto più prudente e riservato, tanto che le solite maldicenze parlarono di omosessualità. Si racconta che una sera ricevette un sonoro schiaffone da un’ attrice che non gradiva le sue troppo spinte iniziative, e che la contessa Maria Doria d’ Angri impazzì quando seppe di essere stata abbandonata per motivi dinastici.

La questione del suo matrimonio divenne oggetto di estrema preoccupazione per Re Umberto I e la Regina consorte Margherita: nessun Savoia fino ad allora era giunto alla soglia dei venticinque anni scapolo e senza mostrare alcuna intenzione di sposarsi. Questo divenne un caso di importanza internazionale all’ interno della Triplice Alleanza di cui l’ Italia faceva parte al fine di aprirsi un varco coloniale in Africa, in contrapposizione a Francia e Gran Bretagna: lo stesso Guglielmo II di Germania se ne interessò, e approfittando di una visita a Berlino del principe italiano, lo affrontò domandandogli perché non si decidesse a prendere moglie. Vittorio Emanuele dimostrò caparbietà tenendogli testa e invitandolo a non impicciarsi dei fatti suoi. Dopo un tentativo di combinare un fidanzamento con la principessa Maud, figlia del principe Edoardo del Regno Unito e quindi nipote della potente regina Vittoria, fallito per l’ opposizione di Margherita che, dimostrandosi persino più intransigente del pontefice, voleva che la fanciulla abiurasse la fede anglicana prima delle nozze, e uno con la principessa danese Luisa di Schleswig-Holstein-Sonderburg-Glücksburg, non riuscito a causa delle obiezioni dello stesso Vittorio Emanuele che non voleva sentire parlare di matrimoni combinati, specie tra consanguinei, la Regina e il Primo ministro Francesco Crispi, di discendenza albanese e desideroso di una maggiore apertura dell’ Italia verso il  mare Adriatico e i Balcani, gli combinarono un incontro con Elena Petrović-Njegoš, principessa del Montenegro e figlia di Nicola I, al teatro La Fenice di Venezia in occasione dell’ Esposizione Internazionale d’ Arte del 1895: alta e vigorosa, schiva e riservata ma anche piuttosto caparbia, attaccata alle tradizioni, di animo sensibile e una mente vivace e curiosa, dotata di un forte amore per la natura e la poesia, aveva studiato a San Pietroburgo ed era in ottimi rapporti personali con i Romanov, la famiglia imperiale russa. Tra i due fu amore a prima vista, e dopo un altro incontro in Russia, in occasione dell’ incoronazione di Nicola II, il 25 maggio 1896, Vittorio Emanuele formulò la richiesta ufficiale al padre di Elena, e il fidanzamento venne subito ufficializzato. Il matrimonio, modesto, fu celebrato il 24 ottobre dello stesso anno nella Basilica romana Santa Maria degli Angeli, dopo che lei, ortodossa, aveva abiurato e abbracciato il Cattolicesimo. Tuttavia, furono in molti a corte e nei piani alti della politica a storcere il naso dinnanzi a questa unione, considerando che i Savoia erano la più antica famiglia reale europea dopo gli Hohenzollern tedeschi, mentre i Petrović-Njegoš erano poco più che principi pastori. Si ironizzò persino a proposito di «nozze coi fichi secchi», avvenute in totale economia e quindi non all’ altezza di un erede al trono.

Nei primi anni di regno;


Chiuso, sospettoso, apparentemente freddo, non facile alle amicizie ma capace di giudicare gli individui, misurato, amante della semplicità e della vita famigliare, poco o nulla attratto dagli sfarzi e dalle cerimonie ufficiali, si dice che non desiderasse salire al trono, avendo aspirazioni di altro genere. Soprattutto, era amareggiato dai molti pettegolezzi e dalle malignità sulla sua altezza, oltre che dalle continue derisioni del cugino, il duca Emanuele Filiberto di Savoia Aosta, un giovanotto prestante e vigoroso, nonché suo coetaneo, che contravvenendo alle secolari tradizioni si era sposato un anno prima di lui negandogli la precedenza come erede al trono, con Elena d’ Orléans, appartenente alla famiglia reale francese, con cui aveva avuto un figlio, Amedeo, che lei chiamava apertamente «mon petit roi» definendo la principessa Elena «ma cousine la bergére». Durante alcuni colloqui con il padre Umberto, pare che quasi lo convinse a trasferire i diritti dinastici ad un altro principe sabaudo, a dispetto della rigida condizione dei primogeniti, a cui veniva inculcato da sempre il rispetto per i doveri verso la dinastia e che fino ad allora mai messa in discussione. Tuttavia, il destino decise presto diversamente: il 21 luglio 1900, mentre sfilava in carrozza per le vie di Monza ove era in visita ufficiale, il sovrano venne ucciso con tre colpi di pistola sparati da Gaetano Bresci, un anarchico che aveva vissuto negli Stati Uniti e intendeva vendicare il conferimento della medaglia al valore al generale Fiorenzo Bava Beccaris, che nel 1898 aveva preso a cannonate la folla che protestava contro l’ ennesimo aumento del prezzo del pane, provocando ottantadue morti e cinquecentotre feriti. Vittorio Emanuele, tempestivamente avvertito durante la crociera nel mar Mediterraneo, rientrò immediatamente e partecipò alle esequie del padre, senza versare nemmeno una lacrima essendogli sempre stato estraneo.

Solo in quel momento accettò di salire al trono, anche se controvoglia: il 29 luglio 1900 divenne Vittorio Emanuele III, terzo sovrano d’ Italia. Nei suoi ventidue anni di regno, il padre aveva riconosciuto il carattere parlamentare del sistema politico italiano: non aveva mai presieduto il Consiglio dei ministri, limitandosi a riceverne il Presidente e, ascoltata la relazione, a firmare i decreti. Freddo e compassato, si era sforzato per tutta la vita di impersonare davanti al popolo l’ autorità. Il nuovo Re, che fino ad allora non aveva avuto ruoli di primo piano secondo il tradizionale principio secondo cui «in casa Savoia si regna uno alla volta», non amava affatto la caotica classe politica ereditata dal genitore, impantanata com’ era tra intrighi, scandali elettorali, bancari e tante piccole miserie che non avevano più nulla a che fare con il patriottismo delle eroiche lotte risorgimentali. Vittorio Emanuele volle immediatamente accelerare l’ evoluzione politica del governo italiano in senso progressista. Appena due giorni dopo il regicidio di Monza, ad esempio, convocò il Presidente del consiglio, Giuseppe Saracco, per un colloquio, e senza dargli tempo di pronunciare le solite parole di cordoglio gli mostrò le carte che si ammucchiavano sul tavolo, un insieme decreti su cui il padre non aveva fatto in tempo ad apporre la firma, ma che secondo lui concordavano poco o nulla con lo Statuto Albertino, la costituzione allora vigente. Saracco replicò che la valutazione di costituzionalità non era competenza del regnante, tenuto a limitarsi a firmare come aveva sempre fatto fino ad allora. Vittorio Emanuele però gli rispose: «Già, ma d’ ora in avanti il Re firmerà solo gli errori suoi, non quelli degli altri.». Saracco, grande esperto di diritto, si sentì offeso e offrì seduta stante le proprie dimissioni, ma il nuovo capo di Casa Savoia fece finta di non sentire, insistendo sul fatto che i decreti gli fossero portati prima in lettura: «Non ho la pretesa di rimediare con le sole mie forze alle presenti difficoltà. Ma sono convinto che queste difficoltà hanno una causa unica. In Italia pochi compiono esattamente il loro dovere: v’ è troppa mollezza e rilassatezza. Bisogna che ognuno, senza eccezioni, osservi esattamente i suoi obblighi. Io sarò d’ esempio, adempiendo a tutti i miei doveri. I Ministri mi aiuteranno, non cullando alcuno in vane illusioni, non promettendo quanto saranno certi di poter mantenere.».

Sebbene sempre rispettosissimo delle norme costituzionali, estraneo e superiore alle competizioni dei gruppi e partiti politici, riservando a sé, essenzialmente, il compito di supremo moderatore e stimolatore, Vittorio Emanuele si rivelò sensibilissimo ai bisogni e alle tendenze del Paese, e sempre riuscì a interpretare in ogni momento della vita italiana, le necessità dell’ ora. Sentiva che il Regno aveva bisogno di lavorare in pace al fine di risolvere una quantità di problemi fondamentali per la sua prosperità e per il suo benessere, per la pacificazione sociale, per il rafforzamento economico, finanziario e militare. Ed egli andò incontro a questi bisogni. Impresse all’ Italia uno stile diverso da quello che aveva caratterizzato il regno del padre: Umberto aveva dato spazio alla corte, puntando sull’ esigenza di rappresentatività di una Monarchia che aveva ancora bisogno di consolidarsi come espressione dello Stato unitario nelle coscienze dei cittadini, mentre lui stabilì un clima di austerità tra tagli drastici di spese, riduzione di servitù ed eliminazione degli aspetti maestosi e mondani della vita di corte, che si spogliò dei fasti ottocenteschi comunque mantenendo inalterata la propria pompa reale fatta di rigida etichetta, carrozze scortate dai corazzieri a cavallo, discorsi in Parlamento, gioielli, uniformi, manti di corte e molto altro ancora. Nelle residenze reali, sparse per tutto il Regno, i principi dei rami Aosta e Genova svolgevano i doveri di rappresentanza in nome del Re in svariati impegni istituzionali, contribuendo a fare dell’ Italia la seconda per importanza e prestigio in Europa, dopo quella britannica. Questa scelta fu certamente politica ma anche, per certi versi, legata alla sua personalità. Era talmente moderato che, stando alle voci, i suoi pasti erano prevalentemente a base di gallina bollita e patate: nella buona società, chi pranzava con avidità o ingordigia poteva sentirsi chiedere se avesse fatto colazione a corte. Al di fuori degli impegni istituzionali, amava risiedere nei castelli di Racconigi e di Pollenzo, ove secondo i resoconti ufficiali di corte si dedicava alla lettura e all’ agricoltura, studiando le tecniche che, il 7 giugno 1905, lo avrebbero portato a fondare l’ Istituto internazionale di agricoltura, presso Roma, allo scopo di promuovere le politiche produttive nel settore agricolo.

La famiglia reale nel 1924;


La coppia reale, felicissima sul lato affettivo, tardò ad avere figli, tanto da far temere una possibile sterilità del monarca a vantaggio del ramo cadetto dei Savoia Aosta, sempre in competizione con quello principale. Tuttavia, con la nascita nel 1901 della principessa Jolanda, a cui seguirono quella di Mafalda nel 1902, di Umberto nel 1904 e di Giovanna nel 1907, tutti quanti fisicamente sani, forti e di bell’ aspetto, la successione al trono fu garantita per un’ altra generazione rinforzando la posizione di Vittorio Emanuele. Di orientamento liberale, antitedesco, filobritannico e filofrancese, anche grazie al novello sovrano l’ Italia si modernizzò, migliorando il tenore di vita della popolazione, e vantò figure di gran valore sul piano della cultura, delle arti, delle scienze. Ebbero luogo grandi progressi, tra la realizzazione di ferrovie, lo sviluppo di forze armate e marina mercantile, l’ alfabetizzazione di massa, la burocrazia e la diplomazia, che diedero al Regno un immenso prestigio internazionale. Con il ritorno di Giovanni Giolitti come capo di governo a partire dal 1903, dopo l’ iniziale esperienza del decennio precedente, si aprì un’ età politica nel cui corso la lira italiana divenne una delle più solide valute al mondo, l’ industria tessile, elettrica e siderurgica decollò, Torino divenne il cuore dell’ industria automobilistica, e con il traforo di alcuni valichi alpini si permisero più agevoli comunicazioni con l’ estero.

In più occasioni, in virtù della sua profonda conoscenza in campo geografico, il Re venne chiamato come mediatore nei trattati di pace: nel 1903 fu arbitro per stabilire i confini tra Brasile e Guyana britannica, nel 1905 delineò i confini in Barotseland tra Portogallo e Gran Bretagna, e nel 1909 dovette decidere se la sovranità sull’ isola di Clipperton dovesse spettare a Francia o Messico. Stimatissimo sul piano internazionale, confermò i tradizionali buoni rapporti con la Gran Bretagna di Edoardo VII. Negli anni seguenti, in politica estera si mostrò favorevole alla conquista coloniale della Libia, avvenuta tra il 1911 e l’ anno dopo, e incoraggiò il riavvicinamento alla Francia e alla Russia, cosa già iniziata con il matrimonio con Elena: la diplomazia italiana disegnava così un sistema che avrebbe reso meno rigida quella divisione tra «blocchi di Potenze» che avrebbe condotto allo scoppio di un conflitto dalle vaste proporzioni. Sempre nel 1911, l’ Italia celebrò il cinquantenario dell’ unità nazionale, e il monarca vide aumentare la propria importanza quale simbolo di quell’ Italia che si era inteso costruire con la cacciata degli Asburgo dal nordest, del papa dal centro e dei Borbone dal sud.

Vignetta satirica all' alba della Grande Guerra;


In quel tempo, però, l’ Europa iniziava ad agitarsi in preda ad ambizioni imperialistiche e nazionalistiche, mentre nel Regno d’ Italia si risvegliava l’ irredentismo che reclamava i territori ancora in mano austriaca, a cui lo stesso Vittorio Emanuele non fu insensibile, come riconosciuto in ambito diplomatico. Il 28 giugno 1914, giorno di solenni celebrazioni e festa nazionale serba, l’ arciduca Francesco Ferdinando d’ Asburgo Este, erede al trono austroungarico, e la moglie Sophie Chotek von Chotkowa, recatisi a Sarajevo in visita ufficiale, furono uccisi da alcuni colpi di pistola sparati dal nazionalista diciannovenne serbo Gavrilo Princip: paradossalmente, il futuro Kaiser von Österreich era forse l’ unico austriaco autorevole comprensivo verso i nazionalisti serbi, sognando un impero unito in forma federativa, e da questo avvenimento scaturì una drammatica crisi diplomatica che infiammò le tensioni latenti e portò l’ Austria a dichiarare guerra alla Serbia su istigazione della Germania, convinta di poter circoscrivere il conflitto, segnando l’ inizio della guerra tra le maggiori d’ Europa in virtù delle numerose e articolate alleanze reciproche.

Vittorio Emanuele sostenne dapprima la posizione inizialmente neutrale del Paese. Ostile all’ Austria, promosse con il convinto sostegno del Presidente del consiglio Antonio Salandra e il Ministro degli Esteri Sidney Sonnino la causa dell’ annessione di Trentino e Venezia Giulia. Allettato dalle vantaggiose offerte francesi e britanniche, che promettevano a Roma ampliamenti territoriali a scapito di Vienna e una posizione di dominio nell’ Adriatico, il 26 aprile 1915 acconsentì all’ ufficializzazione del Patto di Londra, stipulato in segreto, all’ insaputa del Parlamento e firmato per l’ Italia dal Guglielmo Imperiali di Francavilla, influente diplomatico, comportando quindi l’ abbandono della Triplice alleanza per passare a fianco della Triplice intesa.

Il 24 maggio 1915 il Regno d’ Italia dichiarò guerra all’ Austria, e Vittorio Emanuele affidò la Luogotenenza del Regno a suo zio, il duca Tommaso di Genova, recandosi immediatamente al fronte, ove si trattenne costantemente condividendo la vita dei soldati in trincea. Non si stabilì nella sede del quartier generale di Udine, ma in un paese vicino, Torreano di Martignacco, presso Villa Linussa, con un piccolo seguito di ufficiali e gentiluomini, e brevemente a Monteaperta durante i combattimenti vista la notevole importanza del posto, alle spalle del fronte: ogni mattina, seguito dagli aiutanti da campo, partiva in macchina per il fronte o a visitare le retrovie, e la sera, al ritorno, un ufficiale di stato maggiore veniva a presentargli un resoconto sulla situazione militare. Il sovrano, dopo aver ascoltato, esprimeva il proprio parere senza mai scavalcare i compiti del comando supremo. Rimase sempre con l’ esercito operante, lasciando al capo di stato maggiore il compito di condurre le operazioni, assumendosi piuttosto quello di condividere la vita dei combattenti, incoraggiandoli, visitandoli negli ospedali, ascoltando i loro bisogni e desideri, persino condividendo cameratescamente con essi il rancio e la tenda, saggiandone il morale, e nello stesso tempo assistendo all’ andamento delle operazioni. Non si arrestava davanti ai disagi e ai pericoli, e spesso i soldati lo vedevano comparire vicino nei punti d’ osservazione più avanzati, nelle trincee più battute, nei momenti dell’ intensa lotta, sempre pronto a dire una parola di conforto e di incoraggiamento. Fu in una di queste visite, che, in un ospedaletto da campo, si incontrò con un giovane soldato ferito, Benito Mussolini, a cui parlò ricavando un’ impressione viva delle qualità e possibilità dell’ uomo. Durante tutto il corso della guerra, il Re d’ Italia ricevette circa quattrocento lettere, alcune anche minatorie, dal carattere più che altro ostile all’ interventismo e firmate da sudditi di qualsiasi estrazione sociale, soprattutto bassa e composta da semialfabeti: attualmente, esse sono conservate nell’ Archivio Centrale dello Stato, ma sono state digitalizzate e rese di dominio pubblico dato il loro grande interesse storico e linguistico.

Il Re al fronte;


La Grande Guerra fu un vero e proprio uragano che scosse il volto del Vecchio Continente. Fu il più grande conflitto armato mai combattuto fino a quel momento, e si concluse definitivamente l’ 11 novembre 1918, quando la Germania, ultimo degli Imperi centrali a deporre le armi, firmò l’ armistizio imposto dalle potenze dell’ Intesa. La sua conclusione portò alla dissoluzione dell’ Impero tedesco, di quello austroungarico e di quello ottomano, a cui seguirono l’ esilio degli Hohenzollern, degli Asburgo e della Casa di Osman, quindi la nascita di nuovi Stati europei in conseguenza dello smembramento dell’ Impero austroungarico. Frattanto, nel 1917, a seguito della Rivoluzione di febbraio scatenata dai bolscevichi, di idee marxiste, l’ Impero russo era a sua volta crollato in gran parte a causa della fallimentare partecipazione al conflitto: nella notte tra il 16 e il 17 luglio 1918 l’ ormai ex sovrano Nicola II, la moglie Aleksandra, i cinque figli, Olga, Tatijana, Marija, Anastasija ed Aleksej, seguiti dal medico Botkin, l’ inserviente Trupp, il cuoco Charitonov e la dama di compagnia Anna Demidova, furono massacrati a colpi di pistola dal plotone che li deteneva a Ekaterinburg, per poi essere portati quindi nella foresta di Koptyaki ove vennero spogliati, mutilati e gettati in una fossa comune. Successivamente, i bolscevichi promossero la formazione di uno Stato totalitario comunista, l’ Unione Sovietica.

In Italia, la vittoria contro l’ Austria portò all’ annessione del Trentino e dell’ Alto Adige con Trento, della Venezia Giulia, di Zara e di alcune isole dalmate tra le quali Lagosta. Fu il momento di maggiore popolarità per Vittorio Emanuele III, che per la sua costante presenza sulla prima linea del fronte e soprattutto con la sua decisiva azione dopo Caporetto, quando si adoperò per bloccare l’ offensiva austriaca sul Piave fu soprannominato «Re soldato» e «Re vittorioso». Tuttavia, la situazione che si venne presto a creare non fu estremamente problematica. Con il Patto di Londra, le potenze dell’ Intesa avevano promesso agli italiani aggiustamenti vantaggiosi sui confini con i possedimenti francesi e britannici in Africa, oltre che il bacino carbonifero di Adalia, il protettorato sull’ Albania e la neutralizzazione di tutti i porti dalmati che fossero stati assegnati ai croati, ai serbi o ai montenegrini. La città di Fiume, invece, veniva espressamente assegnata quale principale sbocco marittimo di un eventuale futuro Stato croato o dell’ Ungheria, se la Croazia avesse continuato a essere un banato dello Stato magiaro o della Duplice Monarchia. Ora che la situazione internazionale era profondamente mutata, alla conferenza di pace di Parigi del 1919, che si tenne a Versailles, i rappresentanti italiani Vittorio Emanuele Orlando e Sidney Sonnino non furono in grado di esigere il pieno rispetto del Trattato di Londra e le rivendicazioni italiane a fronte della riluttanza, se non dell’ ostilità, degli alleati dell’ Intesa, preoccupati ciascuno dell’ opinione pubblica nei rispettivi Paesi. Visti vani i loro sforzi, i delegati italiani abbandonarono il congresso per chiedere il sostegno del Parlamento, ma l’ esito di tale iniziativa fu quello di rendere ancor meno fastidioso a britannici e francesi di attribuirsi i mandati sulle ex colonie tedesche e sui territori espropriati all’ Impero ottomano.

In quegli anni, l’ Italia risultava la settima potenza industriale del mondo, ma il suo dopoguerra fu praticamente analogo a quello delle nazioni sconfitte, caratterizzato come fu da una profonda crisi dalle conseguenze decisive. Nel conflitto, essa aveva subito pesanti perdite umane, più di seicentomila morti, e gravissimi danni materiali. La situazione economica era allarmante: la lira si era fortemente svalutata, il costo della vita era aumentato in modo vertiginoso e l’ apparato produttivo non era in grado di reintegrare la manodopera nuovamente a disposizione con il ritorno dei reduci dal fronte. Vi era poi l’ enorme problema della riconversione dell’ industria bellica, la sola che per ovvie ragioni aveva ricavato vantaggio nel periodo bellico, a produzioni tipiche dei tempi di pace. In questa difficile situazione scoppiarono presto forti tensioni di sociali: tra il 1919 e il 1920, il cosiddetto biennio rosso, ebbe luogo una lunga serie di agitazioni e scioperi. I lavoratori dell’ industria, coordinati dalle organizzazioni sindacali, che si erano mobilitate chiedendo un miglioramento globale delle loro condizioni, ottennero importanti conquiste come la diminuzione dell’ orario settimanale e paghe invariate. Entrarono in agitazione anche i contadini, che chiedevano le terre promesse dal governo durante la guerra. Il momento culminante di questo periodo fu nel settembre 1920, quando in tutta Italia gli operai misero in atto l’ occupazione delle fabbriche, in risposta alla serrata imposta dagli industriali di fronte alle rivendicazioni salariali e allo sciopero dei lavoratori, visti come un vero e proprio atto di sfida nei confronti del padronato. Tutto ciò si aggravava da quella che ormai veniva chiamata «vittoria mutilata» in denuncia alla mancanza di tutti i compensi territoriali che si ritenevano spettanti al Paese. La politica entrò praticamente in crisi, con ben cinque governi che si succedettero in appena tre anni, tra il 1919 e il 1922: il governo di Vittorio Emanuele Orlando cadde perché, nel corso delle trattative di pace, non era riuscito ad ottenere la Dalmazia e la città di Fiume, assegnate al nuovo Regno di Jugoslavia; Francesco Saverio Nitti si dimise presentandosi al Parlamento dopo aver ritirato il decreto legge sul rincaro del pane; Giovanni Giolitti fu battuto alla Camera su due ordini del giorno, uno di Turati-Modigliani sulla politica estera e la questione di Fiume e l’ altro relativo alla questione interna; Ivanoe Bonomi si dimise il dopo essere stato battuto alla Camera, lasciando il posto a Luigi Facta.

Benito Mussolini;


In questa culla di scontento e dissenso nacquero come funghi svariati movimenti politici nazionalistici, antidemocratici e illiberali come i Fasci di combattimento, costituito nel 1919 da Benito Mussolini, ex socialista e giornalista allontanato dal partito per aver sostenuto l’ intervento dell’ Italia nella Grande Guerra, ora alla testa di una formazione antigovernativa ed antisocialista di ex combattenti e in costante evoluzione, che godeva del sostegno degli industriali e del consenso di una discreta parte della società, tra nobiltà, borghesia e gente comune, reduci inclusi, tutti attratti dalle sue idee patriottarde, autoritarie, autocratiche e totalitarie, interpretate allo stesso tempo come rivoluzionarie e reazionarie, una valida alternativa al capitalismo liberale. Ideologicamente populista, collettivista, statalista, fautore della funzione sociale della proprietà privata e della divisione della società in classi, Mussolini costituì una formazione squadrista che sguinzagliò per intimidire e reprimere violentemente gli avversari politici, specialmente quelli appartenenti al movimento operaio, e che fu protagonista di numerosi episodi di violenza tra manganellate, roghi e olio di ricino. Temendo il pericolo di una rivoluzione comunista sull’ esempio di quanto avvenuto in Unione Sovietica, l’ alta società italiana accettò in larga parte una gestione del potere più autoritaria, puntando sull’ astro nascente mussoliniano.

Tale clima violento scosse profondamente l’ Italia. Lo stesso Vittorio Emanuele III era preoccupato, ma non manifestò mai apertamente alcun sentimento di incertezza, attenendosi fermamente al proprio ruolo di sovrano costituzionale e confermando l’ importanza del Parlamento. La situazione precipitò ulteriormente il 27 ottobre 1922, quando Mussolini, da un anno deputato alla Camera, fece scattare un piano di presa del potere, ordinando alle formazioni squadriste di occupare nell’ Italia del nord svariate prefetture e caserme. Il Re, in quei giorni alla tenuta di San Rossore, tornò immediatamente alla reggia del Quirinale per comunicare al Presidente del consiglio di voler personalmente decidere sulla crisi in atto. Gli eventi delle ore successive sono tuttora molto confusi, e non permettono di fornire una chiara ricostruzione degli eventi: Facta ebbe almeno due colloqui con il sovrano sia alla stazione di Roma che a Villa Savoia, nei quali Vittorio Emanuele avrebbe detto allo statista che si rifiutava di deliberare «sotto la minaccia dei moschetti fascisti» per poi chiedere al governo di prendere tutti i provvedimenti necessari e poi sottoporglieli per sancirne l’ approvazione. Le versioni di tali colloqui sono assai discordanti, in una ad esempio si riferisce che Facta minacciò persino le proprie dimissioni. Fu comunque assai strano che, malgrado la situazione fosse piuttosto grave, il Presidente del consiglio, convinto fino all’ ultimo che Mussolini imbrogliasse, se ne andò semplicemente a dormire come se nulla fosse, per poi essere svegliato nel cuore della notte dai collaboratori che lo informarono della marcia delle camicie nere su Roma. Alle 6:00 del 28 ottobre, Facta riunì il Consiglio dei ministri che, su precise insistenze del generale Cittadini, primo aiutante di campo del monarca, deliberò il ricorso allo stato d’ assedio per fermare la marcia su Roma. Ma quando alle 9:00 Facta si recò al Quirinale per la controfirma, ricevette il rifiuto del Re a sottoscrivere l’ atto. Vedendo la bozza del proclama, Vittorio Emanuele andò su tutte le furie dicendo incollerito: «Queste decisioni spettano soltanto a me. Dopo lo stato d’ assedio non c’ è che la guerra civile. Ora bisogna che qualcuno di noi due si sacrifichi.». A questo punto sembra che Facta rispose: «Vostra Maestà non ha bisogno di dire a chi tocca.». E si congedò.

I motivi che portarono a questo rapido mutamento da parte del sovrano non sono mai stati chiariti. Le forze dell’ esercito di stanza a Roma erano molto superiori a quelle dei fascisti, essendo ben ventottomila uomini contro appena qualche migliaio, equipaggiato alla meglio. Quasi sicuramente ebbero un certo peso il timore che l’ esercito si ribellasse, le pressioni della classe dirigente e la convinzione che il Fascismo potesse fungere da argine alle tensioni sociali che allora scuotevano il Paese. Ambienti vicini alla corte e autorevoli storici come Renzo De Felice sostennero che Vittorio Emanuele tenne conto peraltro della debolezza del governo Facta, oltre che il rischio di una guerra civile, effettivamente concreto. Su tutto questo, poi, pesava l’ atteggiamento filofascista del duca Emanuele Filiberto di Aosta, negli divenuto anni generale di alto rango e stimato tra le maggiori figure della Grande Guerra, avendo riportato numerose vittorie, e nessuna sconfitta, venendo soprannominato «Duca Invitto»: si sapeva che Mussolini lo aveva proposto come rimpiazzo del Re nel caso in cui questi si fosse opposto al movimento fascista. Dopo tanti anni, l’ astio tra i due cugini reali non solo non era venuto meno, ma era peggiorato fino a divenire pericoloso sul piano politico.

Il Re e il Duce a una cerimonia ufficiale;


In conseguenza della decisione del Re, Facta presentò le dimissioni da Presidente del consiglio, che il Quirinale accolse immediatamente. Il giorno dopo, il regnante si consultò con i massimi esponenti della classe dirigente politica liberale, da Giolitti ad Antonio Salandra, e i vertici militari, soprattutto Armando Diaz e Paolo Thaon di Revel: dopo la bocciatura da parte di Mussolini di un possibile gabinetto Salandra-Mussolini, con l’ intento di far rientrare il movimento fascista nell’ alveo costituzionale parlamentare e di favorire la pacificazione sociale, Vittorio Emanuele affidò a Mussolini l’ incarico di formare un nuovo governo. Questi si presentò in Parlamento il 16 novembre con toni minacciosi, arrivando persino a dichiarare: «Potevo fare di quest’ aula sorda e grigia un bivacco di manipoli. Potevo sprangare il Parlamento e costituire un governo composto esclusivamente di fascisti. Potevo, ma non ho, almeno in questo primo tempo, voluto...». Eppure, a conferma di quanto fosse stimato da alcuni e visto come un valido strumento da altri, ricevette una larga fiducia: alla Camera si contarono trecentosedici voti a favore, centosedici contrari e sette astenuti, in Senato si ebbero centonovantasei voti favorevoli e diciannove contrari. I deputati fascisti erano solo trentacinque. Tra i favorevoli vi furono Giolitti, Orlando, Facta, Salandra, Benedetto Croce e Alcide De Gasperi, mentre Nitti abbandonò l’ aula per protesta. Il nuovo governo, composto da quattordici ministri e sedici ministeri, con Mussolini Presidente del consiglio e Ministro ad interim di Esteri e Interni, era formato da nazionalisti, liberali e popolari, ossia gli esponenti dei partiti democratici del tempo.

L’ avvento del Fascismo fu dunque l’ esito di una combinazione tra l’ uso della forza, esibita e minacciata con la mobilitazione teatrale degli squadristi, e il rispetto formale della legge. E anche se nella successiva retorica di regime quella presa del potere fu sempre celebrata come rottura violenta, un «atto indiscutibilmente rivoluzionario», Mussolini prestò giuramento al sovrano e allo Statuto Albertino presentandosi poi al Parlamento, al quale chiese pieni poteri, ottenendoli. Come disse a un giornalista del Corriere della Sera: «Dite la verità, che abbiamo fatto una rivoluzione unica al mondo.».

Un incontro informale tra Re e Duce;


Vittorio Emanuele osservò sempre con una certa preoccupazione il Fascismo. Il Re e il Duce appartenevano a mondi del tutto differenti, e si guardarono sempre vicendevolmente con malcelata diffidenza, mista a un reciproco sentimento di inferiorità: il primo non provò mai eccessiva simpatia per un uomo che considerava un avventuriero della politica, l’ altro rimase sempre repubblicano e non abbandonò mai del tutto l’ idea di liquidare prima o poi la Corona. Eppure, questi due «solitari prigionieri della loro stessa solitudine», come li definì il gerarca Dino Grandi, riuscirono a convivere. Come molti altri, il Re pensava che a dispetto dei metodi violenti questo principiante della politica sarebbe stato manovrabile, un fastidio temporaneamente necessario per opportunità strategica, destinato ad eclissarsi in breve tempo. Tuttavia, le cose presero presto una piega ben diversa, e più drammatica, con un Vittorio Emanuele con sempre meno margine politico.

Il dittatore in Parlamento;


Nell’ aprile 1924 vennero indette nuove elezioni politiche, che si svolsero tra gravi violenze e brogli. Il deputato socialista Giacomo Matteotti denunciò queste irregolarità, ma poco dopo, il 10 giugno, venne rapito per poi essere trovato morto il successivo 16 agosto. Il fatto scosse profondamente il mondo politico, e aprì un semestre di crisi interna che si risolse il 3 gennaio 1925, quando Mussolini rivendicò la responsabilità non materiale dell’ accaduto, peraltro indicando al Parlamento la procedura di messa in stato d’ accusa conformemente all’ Articolo 47 dello Statuto Albertino: «Se il Fascismo è stato un’ associazione a delinquere, io sono il capo di questa associazione a delinquere!». La Camera, ove l’ opposizione era frantumata nelle molteplici correnti e incapace di accordarsi su strategie condivise, non procedette e il Duce diede inizio per via parlamentare alla trasformazione in senso autoritario e poi totalitario dello Stato. Il Re, che fino ad allora aveva conservato il controllo dell’ esercito, non si oppose: del resto, il Parlamento, ove alla Camera per soli sette seggi gli iscritti al Partito fascista erano la maggioranza assoluta, indebolito dalla secessione dell’ Aventino, non aveva fornito alcun pretesto giuridico per chiedere le dimissioni del Presidente del consiglio e neppure predisposto una compagine di governo alternativa e accettabile. Neanche la scelta extraparlamentare dell’ opposizione era riuscita a mobilitare le masse, quindi il sovrano rimase in attesa di un’ iniziativa parlamentare nel rispetto delle regole istituzionali vigenti. Quando il senatore Campello gli presentò le prove della responsabilità del Duce nel delitto Matteotti, il monarca rispose: «Sono cieco e sordo. I miei occhi e le mie orecchie sono la Camera e il Senato.». L’ ex Presidente del consiglio Nitti, in esilio a causa alle intimidazioni fasciste, inviò una lettera al regnante lo accusò a chiare lettere di indolente connivenza con Mussolini e lo esortò a prendere provvedimenti contro di lui. Il 27 dicembre venne pubblicato su «Il Mondo» e altri giornali il memoriale dello squadrista Cesare Rossi, nel quale il Duce veniva documentatamente indicato come mandante di un gran numero di atti di violenza politica già prima del delitto Matteotti e, almeno implicitamente, anche di quest’ ultimo, ma nemmeno queste rivelazioni portarono Vittorio Emanuele a dimettere il capo di governo che, secondo la procedura, avrebbe prima dovuto essere messo dal Parlamento in stato d’ accusa: nessun deputato propose mai il provvedimento. Il mancato ricorso all’ Articolo 47 testimoniò chiaramente il controllo sul Parlamento da parte di Mussolini.

Il Re in una caricatura;


Negli anni seguenti, la collaborazione tra il monarca e il dittatore si fece sempre meno serena. Il Fascismo, di idee repubblicane, cresceva mentre la Monarchia, istituzione tradizionalmente molto sentita dagli italiani, veniva sempre più messa in angolo nelle stanze del potere. Il risultato non fu la pace sociale, ma un Paese in balia di leggi sempre più liberticide. Tra il 1925 e il 1926 vennero emanate le leggi eccezionali del Fascismo, meglio note come Leggi fascistissime, provvedimenti «a difesa dello Stato» che, dopo lo scioglimento dei sindacati e dei partiti e la chiusura o la sospensione di tutti i giornali non fascisti, segnarono la definitiva chiusura di tutti gli spazi di libertà. Lo Statuto Albertino era la prima carta costituzione italiana, preparata nel 1848 dai ministri di Carlo Alberto, bisnonno di Vittorio Emanuele, per soddisfare le rivendicazioni espresse durante i moti insurrezionali, e si ispirava alle costituzioni francesi, in particolare al principio della separazione dei poteri di Montesquieu, lasciando al sovrano ampie possibilità di controllo di essi, e pieno controllo dell’ esecutivo. Era una costituzione flessibile, perché poteva essere facilmente modificata con una legge ordinaria promossa dal governo e votata in Parlamento, e il Duce non ebbe alcun problema nel cambiarne svariati passaggi.

Il Re si mostrò particolarmente ostile alle innovazioni istituzionali del regime, all’ introduzione di nuove onorificenze e cerimonie che contribuivano a rafforzare il peso del Presidente del consiglio, ai progetti di modifica dei costumi italiani quali l’ introduzione del saluto fascista e del lei. Questa opposizione esasperò le relazioni con Mussolini e gli ambienti più radicali del Partito fascista, fedeli al programma originario e convinti fautori del sistema repubblicano. Con la legge del 24 dicembre 1925 si attribuì al capo del governo, responsabile solo di fronte al Re, la nomina e revoca dei ministri. Nel 1926, Vittorio Emanuele autorizzò la nascita del Tribunale speciale per la difesa dello Stato, che sottraeva alla magistratura ordinaria tutti i reati politici, e la formazione della polizia politica segreta, l’ OVRA. In seguito, si istituì il famigerato confino di polizia per gli oppositori. I rapporti tra Re e Duce degenerarono in burrascose scenate private, nelle quali il primo difendeva le proprie prerogative, preoccupato dalla legalità formale, mentre in pubblico taceva rigorosamente. La relazione tra i due degenerò ulteriormente con la legge di costituzionalizzazione del Gran consiglio del Fascismo del 9 dicembre 1928. Durante la cosiddetta Diarchia, il ruolo del regnante fu sempre più relegato in funzione del cerimoniale retorico del Fascismo. Le maggiori riserve che Vittorio Emanuele manifestò al Duce, divenuto «cugino del sovrano» dopo il conferimento dell’ Ordine supremo della Santissima Annunziata, massima onorificenza di Casa Savoia, furono di carattere prevalentemente procedurale, tra precedenze, ordine delle firme e rispetto del protocollo. Il monarca non mancò mai di ricordare positivamente a Mussolini e ai suoi collaboratori l’ esperienza dello Stato liberale, ma fu sempre restio a scegliere la strada della forza, un po’ per formalismo giuridico e un po’ per evitare il rischio di una guerra civile, mai veramente placatosi negli anni. Si disse che, come custode sia del Regno d’ Italia che di Casa Savoia, gli risultò più facile tutelare la seconda che il primo, ma anche che con la possibile caduta della Monarchia il Duce avrebbe instaurato una Repubblica di cui sarebbe stato capo assoluto in quanto anche capo dello Stato, facendovi passare come e quando avrebbe voluto ogni provvedimento ritenuto opportuno: se la dittatura era un dato di fatto, la Corona ne costituì comunque un freno.

I reali in visita dal papa in Vaticano;


L’ 11 febbraio 1929, tuttavia, ebbe luogo un avvenimento fondamentale nella storia sia d’ Italia che di Casa Savoia, tuttora considerato positivo, ossia la firma dei Patti Lateranensi. Sottoscritti presso Palazzo del Laterano, sede papale e residenza ufficiale dei pontefici per molti secoli, da Benito Mussolini in persona e dal cardinale Pietro Gasparri, Segretario di Stato di papa Pio XI, essi sancirono dopo cinquantanove anni la conciliazione tra Regno d’ Italia e Chiesa cattolica dopo la brusca interruzione dei loro rapporti nel 1870 a seguito della presa di Roma, la città santa della cristianità. In tale accordo il papa veniva riconosciuto dall’ Italia come legittimo sovrano della Città del Vaticano, e questi in cambio riconosceva lo Stato italiano con Roma come sua capitale. Con la convenzione finanziaria vennero regolati i rapporti economici tra Stato e Chiesa, e infine si regolarono i rapporti tra Stato e Cattolicesimo, assegnando a quest’ ultimo una serie di vantaggi, tra cui la condizione di religione di Stato, con importanti conseguenze sul sistema scolastico pubblico come l’ istituzione del suo insegnamento. Il governo italiano acconsentì peraltro di rendere le leggi sul matrimonio e il divorzio conformi a quelle della Chiesa cattolica e di rendere il clero esente dal servizio militare. Il capoverso dell’ Articolo 1 del concordato riconobbe anche il carattere sacro della città di Roma. Il 13 febbraio 1929, due giorni dopo la firma dei Patti Lateranensi, Pio XI, in una udienza concessa a professori e studenti dell’ Università Cattolica del Sacro Cuore, tenne un discorso che passò alla storia per un passaggio in cui il Duce era indicato come «l’ uomo della Provvidenza».

I Patti Lateranensi furono un vero e proprio trionfo della politica estera fascista, essendo il regime riuscito laddove la Legge delle guarentigie, provvedimento legislativo promulgato il 13 maggio 1871 dal governo Lanza, aveva fallito insieme al successivo tentativo di riconciliazione tra il Presidente del Consiglio Vittorio Emanuele Orlando e monsignor Cerretti, non riuscito anche a causa delle posizioni irremovibili di Vittorio Emanuele, restio ad aperture verso le pretese politiche della Chiesa. Pur nel massimo rispetto delle istituzioni ecclesiastiche e della fede della propria Casa e degli italiani, il Re aveva sempre promosso la separazione fra Stato e Chiesa, senza ricucire per via concordataria o pattizia i rapporti rotti durante le campagne risorgimentali. Laicista e profondamente conscio del proprio ruolo quanto di quello che la Chiesa aveva avuto nella storia del Paese, considerava la questione romana risolta già dal 1871. A seguito di questo storico concordato, ai Savoia venne revocata la scomunica inferta dopo la breccia di Porta Pia, considerata atto sacrilego, e, poco distante, il 7 giugno 1929, come suggello di questo importante evento, Vittorio Emanuele ed Elena visitarono il pontefice in Vaticano. Pio XI non restituì la visita, ma il cardinale Gasparri ricambiò al posto suo il gesto dei sovrani recandosi al Quirinale.

Vittorio Emanuele negli Anni Trenta;


Durante gli anni Venti e Trenta, mentre il Fascismo consolidava la dittatura del partito unico di cui il Partito e il Duce erano i pilastri indissolubili, il sovrano si dedicò molto alle questioni dinastiche, tra gli scambi di visita con gli altri regnanti europei e i matrimoni dei figli, primo tra tutti quello fastoso del principe ereditario Umberto con Maria José di Sassonia-Coburgo-Gotha, principessa del Belgio, l’ 8 gennaio 1930. Nonostante le cronache, non fu uno sposalizio d’ amore, ma una precisa unione dinastica atta a dare prestigio a Casa Savoia, rompendo le precedenti unioni tradizionali con principesse francesi e austriache e tra cugini primi, e per rinsaldare i rapporti tra Italia e Belgio. La nuora belga, allegra e spensierata, elegante e sofisticata, anticonformista e tenace, spirito critico amante della musica e dell’ alpinismo, dotata della vena di pazzia dei Wittelsbach ereditata dalla madre, era cresciuta in un Paese democratico, ove gli ideali di giustizia, di libertà, uguaglianza e difesa dei più poveri erano ancora vivi, cosa che la portò a provare una certa ostilità nei confronti del Fascismo, pur non esprimendosi mai pubblicamente alla pari del suocero.

La vita in famiglia era tra le poche cose che lo rendevano davvero felice. Nel 1904 aveva riacquistato Villa Ada, comperata nel 1872 dal nonno Vittorio Emanuele II e poi venduta dal padre Umberto che non amava vivere in campagna preferendo il Quirinale: la ribattezzò Villa Savoia, facendo del Quirinale semplicemente il proprio ufficio. Ivi, sovrani e figli vivevano semplicemente, con poca servitù. Elena assecondava il marito in tutto, e la sua presenza accanto a lui si manteneva sempre umile e discreta, senza mai intervenire in questioni strettamente politiche, ma sempre dedita e attenta ai bisogni del suo popolo adottivo. Come riportò in seguito Domenico Bartoli, giornalista e saggista: «Soltanto nella più completa intimità, lontano dagli occhi estranei, dalla pettegola curiosità del pubblico, con la moglie, con i figli, Vittorio Emanuele era felice. Allora il suo imbarazzo, il disagio continuo che lo prendeva quando si trovava fra la gente, si scioglieva e gli affetti umani prendevano il posto della diffidenza e del malumore. Non aveva amici, non aveva confidenti; non si abbandonava mai. Teneva tutto dentro di sé, geloso dei suoi sentimenti e dei suoi pensieri. Ma a Villa Savoia gli affetti potevano manifestarsi liberamente come in una qualunque residenza borghese.». Pur amando i figli, fu sempre misurato nell’ esprimere i sentimenti, specialmente verso Umberto, suo erede al trono, che si era preoccupato di formare in quanto futuro sovrano conferendo all’ ammiraglio Attilio Bonaldi il rango di suo precettore, seguendo quella tradizione educativa radicata in Casa Savoia. Il giovane principe era cresciuto in solitudine nelle residenze sabaude di Racconigi, villa Ada e San Rossore, lontano dalla scuola pubblica, con una decina di insegnanti coordinati dal militare in un tipo di educazione ormai antiquata e fuori dai mutamenti pedagogici e sociali nel frattempo avvenuti, che lo avevano reso obbediente e rispettoso, dominato dall’ ossequio all’ autorità e alla gerarchia, e da un rigido autocontrollo. Circa il rapporto con il padre, lo stesso Umberto confidò: «Il Re non ha figli, né amici e non può essere altro che il Re. Una regola quasi monastica che mio padre osservò per tutta la vita. Non so se fu virtù o manchevolezza, ma è certo che ne ricavò soltanto antipatie, incomprensione, fama di uomo arido e gretto.». La sola persona con cui si confidava era Elena: «C’ erano tre insormontabili barriere che mi vietavano le sue confidenze: io ero suddito, ufficiale e principe ereditario. Le cose che non voleva dirmi, io le conoscevo ugualmente. Era mia made che mi teneva al corrente delle vicende e dei più gravi problemi che assillavano il Re. Ho il dubbio che fosse mio padre a ordinare che fossi informato così minutamente su tutto, ma per vie indirette, in modo che restassero inviolate le sue prerogative e invalicati i miei limiti.». In un’ altra occasione aggiunse: «I Savoia erano re soldati e si preparavano fin da bambini a questo destino. Con mio padre avevo contatti normali nell’ ambito di questa educazione.».

Villa Savoia;


Durante gli Anni Trenta, tra riforme sociali e infrastrutturali e guerre coloniali, il regime fascista raggiunse l’ apice della popolarità, affermando la propria supremazia del potere esecutivo, trasformando il sistema amministrativo e inquadrando le masse nelle organizzazioni di partito. Mussolini spesso riservava a sé stesso, oltre alla carica di capo del governo e il titolo di Duce del Fascismo, anche alcuni ministeri chiave. Dal 1932 la tessera del Partito fascista fu necessaria per partecipare ai concorsi pubblici, e cinque anni dopo fu dichiarata equiparabile alla carta d’ identità. Il partito, nelle cui organizzazioni confluirono tutte le categorie di cittadini, senza distinzioni di sesso e di età, dai giovanissimi figli della lupa alle massaie rurali, doveva svolgere la funzione di «grande pedagogo» seguendo i cittadini «in tutto il loro sviluppo, e prima ancora del loro venire alla luce e formarsi, non abbandonandoli mai, dando a tutti una coscienza e una volontà unitarie e profondamente accentrate». Il monopolio dell’ attività politica, dell’ attività assistenziale e del tempo libero dalle colonie estive ai dopolavoro, l’ inquadramento e la mobilitazione delle giovani generazioni, dai balilla agli avanguardisti, furono alla base di quel regime fatto non solo di imposizione, ma anche di largo consenso: fin da piccolo, secondo la dottrina mussoliniana, «l’ uomo nuovo», il futuro cittadino soldato, si sarebbe dovuto svuotare della propria individualità per lasciarsi interamente assorbire nella comunità totalitaria. E votare al culto del capo supremo. Va quindi sfatata l’ idea che il Fascismo fosse consistito in un regime che vessava una popolazione anelante la democrazia, la libertà e la difesa del diritto: in realtà la grande maggioranza del popolo italiano, o meglio la classe borghese, i nobili decaduti, i militari, gli industriali furono consenzienti, o per lo meno non contrari al tentativo di risolvere gli endemici problemi nazionali con la scorciatoia del totalitarismo. Il Re avallava regolarmente le decisioni del Presidente del Consiglio.

Il Fascismo manifestò peraltro l’ intenzione di espandere i possedimenti del Regno e soddisfare le pretese degli irredentisti e dei nazionalisti dandogli «il suo posto al sole», riprendendo il celebre termine comunemente riferito agli imperi europei coloniali del XIX secolo. Si diede inizio quindi ad una campagna fortemente ripresa dalla propaganda, che nel 1934 portò all’ annessione di Cirenaica e Tripolitania alla Libia italiana, oltre che alla conquista dell’ Impero d’ Etiopia con la guerra tra il 1935 e il 1936, la cui vittoria condusse alla creazione dell’ Africa Orientale Italiana, e in cui furono incorporate Etiopia, Eritrea e Somalia. Vittorio Emanuele III assunse il titolo di Imperatore d’ Etiopia, e la Corona sabauda assunse un elevato prestigio di immagine, sebbene l’ aggressione italiana contro il Paese africano ebbe rilevanti conseguenze diplomatiche, suscitando una notevole riprovazione da parte della comunità internazionale: in virtù, tra le altre cose, dell’ impiego da parte del generale Pietro Badoglio, che aveva il comando dell’ esercito, di armi chimiche messe al bando dalle convenzioni internazionali, fatto fermamente denunciato dall’ imperatore etiope Hailé Selassié, ormai in esilio, la Società delle Nazioni decise di imporre sanzioni economiche contro l’ Italia, ma benché queste vennero ritirate nel luglio 1936 senza peraltro aver provocato il benché minimo rallentamento delle operazioni militari, isolarono la nazione sul piano internazionale che pur si vedeva progressivamente riconoscere la conquista e la corona imperiale dalla maggior parte dei membri della comunità internazionale, tra cui Gran Bretagna e Francia, con l’ eccezione di Stati Uniti e Unione Sovietica.

In Germania, frattanto, Adolf Hitler, capo del partito nazista divenuto Cancelliere nel 1933 e guida di un regime totalitario fortemente militarizzato e razzista, approfittò della situazione creatasi a livello europeo per rimilitarizzare la Renania, regione tedesca al confine con Francia, Belgio e Lussemburgo, disarmata sulla base del Trattato di Versailles del 1919 e del Patto di Locarno del 1925: nei suoi discorsi osannava la Grande Germania e il suo diritto a espandersi unendo tutti i popoli di sangue e cultura tedeschi, recuperando lo spazio vitale di cui era stata privata al termine della Grande Guerra. Il Duce si avvicinò gradualmente ma inesorabilmente al dittatore tedesco, pur avendo passato anni guardandolo con disapprovazione e diffidenza, in quanto ora pareva il solo con cui si potesse discutere: se il Führer desiderava soddisfare le antiche ambizioni espansionistiche germaniche, lui avrebbe potuto approfittarne per proseguire i suoi piani di conquista coloniale, anche su terreno europeo. Dopo molti anni, Vittorio Emanuele continuava a non amare la Germania, e aveva una certa avversione per Hitler, che reputava un degenerato che certamente avrebbe portato il continente ad una nuova guerra rovinosa. Conscio dell’ impreparazione militare italiana, avrebbe preferito di gran lunga un alleato come la Gran Bretagna, ma il Fascismo attuò ugualmente un solido avvicinamento al Terzo Reich: nell’ ottobre 1936 i due dittatori costituirono l’ Asse Roma-Berlino, patto di amicizia tra governi che si ritenevano delusi dalla politica di Versailles e, in generale, dalla Società delle Nazioni. L’ alleanza, di tipo ideologico, politico e militare, si concretizzò subito nella partecipazione nazifascista alla guerra civile spagnola, al fianco delle forze franchiste e, nel 1938, nel via libera dell’ Italia all’ Anschluss, l’ annessione tedesca dell’ Austria.

Il 3 maggio del 1938, Hitler e i vertici del Terzo Reich visitarono l’ Italia. Gli ospiti nazisti rimasero fino al 9 maggio visitando Roma, Napoli e Firenze. In occasione del loro primo incontro, nel giugno del 1934 a Venezia, Mussolini non era stato piacevolmente colpito dal Führer, tanto da definirlo «pallido come un cencio e malvestito». A preoccuparlo erano gli appetiti territoriali del dittatore nazista, a partire dall’ Austria, che avrebbe preferito continuare a sfruttare come Stato cuscinetto, ben consapevole dell’ inferiorità militare italiana di fronte alla Germania. Il viaggio fu sapientemente organizzato dalla macchina del regime, ma il Duce non poté non lasciare il ruolo di anfitrione al Re, a causa di ragioni istituzionali e di protocollo che fu notata negativamente da Hitler, per il quale Mussolini era un costante punto di riferimento, un esempio: ad accoglierlo vi era «il piccolo, invecchiato monarca che aveva guidato vent’ anni prima il proprio esercito a sconfiggere gli Imperi centrali e che ancora coltivava un radicato sentimento antitedesco; e il Duce si defilava per non scontare l’ umiliazione della subalternità». La visita dei gerarchi nazisti nel Regno d’ Italia fu pomposa e scandita da un magnifico cerimoniale, e Hitler compì diverse visite istituzionali come quella al Pantheon, ove depose alcuni mazzi di fiori sulle tombe dei sovrani, ammirando la maestosità della cupola, di cui era estimatore. Poi fu la volta dell’ Altare della Patria, dove i due dittatori passarono attraverso cinquemila uomini in perfetta divisa: a destra milizie tedesche, a sinistra italiane. La successiva sfilata su via dei Fori imperiali, messa a lucido per l’ occasione, fu, come riportarono i giornali di regime, «la riproposizione dei fasti della Roma antica». Sebbene Mussolini e Hitler non si piacessero, la visita fu l’ ennesima tappa di avvicinamento alla definitiva alleanza. Ricevuto al Quirinale, il Führer sedette accanto a Maria Josè, mantenendosi compassato e glaciale, mangiando un pezzo di cioccolata con forchetta e coltello, e biscotti al posto del pane. Re Vittorio Emanuele, non appena questi gli voltava le spalle, faceva smorfie di raccapriccio e il figlio Umberto e la moglie Maria José temevano che potessero esser viste dal seguito del dittatore. Anche Pio XI manifestò il suo dissenso per la visita del dittatore rifiutandosi apertamente di riceverlo, relegandosi a Castel Gandolfo e facendo chiudere i Musei Vaticani, spegnendo le luci delle chiese quando le città erano illuminate a giorno in suo onore.

Il Re e il Duce durante la visita di Hitler nel 1938;


Il clima politico europeo era oramai rovente, e il monarca, sia pur avallando pubblicamente i provvedimenti del regime fascista, in privato esponeva sempre più duramente i propri dubbi a Mussolini. Fino ad allora, almeno in patria il Fascismo aveva dato vita a un tipo di regime più tollerante di quello nazista sia nei confronti delle minoranze etniche e religiose sia verso i propri avversari politici, generalmente sottoposti a sorveglianza o inviati al confino e solo nei casi più gravi incarcerati. Ma ora, per favorire l’ intesa con il Terzo Reich, il Duce e i suoi gerarchi adottarono una politica antisemita sull’ esempio di Berlino, sebbene fino ad allora il rapporto tra Fascismo ed ebrei italiani fosse stato generalmente buono, e dalla comunità ebraica non si fosse levata un’ opposizione alla presa del potere del Fascismo più vigorosa di altri settori della popolazione. Nei suoi discorsi del primo dopoguerra, Mussolini aveva generalmente espresso opinioni distanti dall’ antisemitismo e rassicurato gli ebrei italiani: gli ebrei iscritti in parte ai Fasci Italiani di Combattimento ed in parte all’ Associazione Nazionalista Italiana, che nel 1923 si sarebbe fusa con il Partito Nazionale Fascista, erano settecentoquarantasei, mentre quelli che avevano partecipato alla marcia su Roma erano stati trecentocinquanta. Nei cinque anni tra il 1928 e il 1933 gli ebrei iscritti al Partito fascista furono quattromilanovecentoventi, circa il dieci percento della popolazione ebraica italiana totale. Sebbene non siano mai pervenute prove di pressione diretta da parte germanica nella partenza della campagna razzista fascista, apparve evidente la sua opportunità politica e diplomatica al fine di favorire i rapporti tra le due dittature. Il regime italiano ottenne da parte di grandi esponenti della cultura e della scienza la firma del Manifesto della razza, un documento in cui si sosteneva la tesi della pericolosità degli ebrei, e subito dopo il Duce fece preparare le leggi razziali, provvedimenti segregazionisti nei confronti degli ebrei italiani e dei sudditi di colore dell’ Impero, presentandosi poi a Vittorio Emanuele, allora nella tenuta di San Rossore, affinché le firmasse. Di formazione liberale, il Re fece presente al Presidente del Consiglio il proprio dissenso, avversando chiaramente tali disposizioni perché vanificavano due tra i più notevoli provvedimenti che Casa Savoia aveva sancito nel 1848 in alcuni importanti articoli dello Statuto Albertino, ossia il riconoscimento dei culti non cattolici e l’ uguaglianza di fronte alla legge di tutti i sudditi. Parlò dei buoni rapporti tra la famiglia reale e gli ebrei italiani, in virtù del loro ruolo importante nel Risorgimento e nel governo del Paese fino ad allora, cosa che aveva sospinto suo nonno Vittorio Emanuele II a concedere i diritti politici agli ebrei romani, e ricordò la propria visita all’ inaugurazione della sinagoga romana il 2 luglio 1904. Al tempo stesso, però, constatò con frustrazione di avere ben poche possibilità di opporsi efficacemente, perché in quel momento il dittatore era adorato dalle masse e tenuto in gran conto all’ estero. Avrebbe potuto rifiutarsi e salvarsi la coscienza con l’ abdicazione, ma il dittatore aveva sufficientemente spazio politico e forza materiale per fondare, sia con una certa forzatura, una repubblica fascista con le quali avrebbe ufficializzato comunque le leggi razziali. Considerando peraltro la presenza dell’ esercito tedesco ormai ai confini, pronto a supportare il Duce contro di lui, e le efferatezze che avrebbero potuto conseguirne sin da subito, si attenne quindi al suo ruolo costituzionale, a cui era molto legato, e firmò il regio decreto che ne sanciva l’ entrata in vigore dal 5 Settembre 1938 sul territorio nazionale. Tre mesi dopo, a dicembre, questa disposizione giunse in Parlamento per la sua approvazione e conversione in termini di legge: il giorno 14 la Camera la votò con una maggioranza schiacciante, mentre appena sei giorni dopo passò in Senato, ove fu promossa con solo nove voti contrari. Fu proprio il voto tra le mura senatoriali a destare una profonda polemica negli ambienti antifascisti: come Camera alta del Regno, essa era composta da senatori di nomina regia come previsto dallo Statuto Albertino, molti di essi voluti dal Re ben prima del 1922, e quindi era la sola istituzione del Paese non completamente fascistizzata, un luogo privilegiato ove manifestare il dissenso, cosa che infastidiva non poco i fascisti duri e puri, i quali non a caso periodicamente chiedevano la chiusura di Palazzo Madama. Alla votazione, svolta a scrutinio segreto, presero parte centosessantaquattro senatori che si allinearono alla scelta segregazionista del Fascismo con l’ eccezione di appena nove di loro.

Questo fatto, dopo la recente approvazione alla Camera il precedente 30 marzo sotto l’ impulso del conte Costanzo e del figlio Galeazzo Ciano della duplice attribuzione del titolo di Primo Maresciallo dell’ Impero, conferito sia al sovrano che al Presidente del Consiglio contemporaneamente, fatto discusso perché, come sostenuto da Federzoni, allora Presidente del Senato, non si poteva non usare un riguardo nei riguardi del monarca, sia pur solo formalmente, fu alla base del grave e ormai insanabile peggioramento dei rapporti tra Corona e regime, sempre meno paziente davanti agli ostacoli che questa frapponeva in quanto ormai suo unico serio freno ed opposizione. Il Duce meditava già da tempo l’ abolizione dell’ istituzione monarchica, in modo da ritagliarsi maggiore spazio d’ azione, ma rinviò più volte la decisione a causa del forte sostegno popolare ai reali, nella speranza che il destino gli avrebbe un giorno presentato il momento opportuno per instaurare una Repubblica. Come ebbe a dire al genero, il conte Galeazzo Ciano: «C’ è voluta la mia pazienza, con questa Monarchia rimorchiata. Non ha mai fatto un gesto impegnativo verso il regime. Aspetto ancora perché il Re ha 70 anni e spero che la natura mi aiuti, e quando alla firma del Re, si sostituirà quella meno rispettabile del principe potremo agire.». Molto probabilmente fu proprio Vittorio Emanuele il solo a criticare apertamente le leggi razziali, sia pur in privato: quasi nessuna voce si levò contro di esse da parlamentari e intellettuali, e mentre gli ebrei venivano emarginati e privati di beni e dignità molti sudditi ragguardevoli si stabilivano prontamente nei posti lasciati liberi, con la Chiesa che taceva e il consenso dell’ opinione pubblica al regime che funse da complice.

Mussolini dichiara l' entrata in guerra dell' Italia;


Per la seconda volta dopo vent’ anni, l’ Europa si ritrovò nuovamente sull’ orlo di una mostruosa guerra internazionale. Da molti anni, Hitler cavalcava abilmente e con furore i sentimenti di scontento e il desiderio di rivalsa della Germania, guidandola in un espansionismo in Europa in aperta violazione della pace del 1919, in modo da soddisfarne i sentimenti patriottici abilmente esasperati e le necessità della crescente popolazione. I patti tra Roma e Berlino obbligavano Fascismo e Nazismo al sostegno reciproco sia da un punto di difensivo che offensivo. Italia e Germania erano inoltre vincolate alla consultazione reciproca e al divieto di firmare, in caso di guerra, paci separate.

Il 1° settembre 1939 le truppe tedesche invasero la Polonia, e due giorni dopo, Gran Bretagna e Francia dichiararono guerra a Berlino, colpevole di non essersi attenuta agli accordi della Conferenza di Monaco, in cui si era impegnata a non compiere altre conquiste: fu l’ inizio della Seconda Guerra Mondiale. Una guerra che l’ Italia non sarebbe palesemente stata in grado di combattere, e lo stesso Vittorio Emanuele III, che dal 9 aprile 1939 era stato proclamato Re di Albania a seguito dell’ invasione italiana del Regno di Albania, già suo protettorato tra il 1918 e il 1920, concordemente con i vertici militari si disse contrario ad una discesa in campo vista l’ impreparazione militare della nazione, e anche perché avverso alle politiche naziste.

In poco tempo, le truppe naziste occuparono Danimarca, Norvegia, Belgio, Olanda e Francia, mentre l’ Italia rischiava di perdere l’ occasione di partecipare a quella che si presentava come un’ imminente vittoria germanica. Allarmato, nel marzo 1940 il regnante si rivolse al Ministro della Real Casa, il conte Pietro Acquarone, affinché stabilisse contatti informali con il conte Ciano, allora Ministro degli Esteri, noto per la lealtà alla Corona e la contrarietà all’ alleanza con la Germania e quindi alla guerra, e sondasse le possibilità di evitare l’ entrata in guerra dell’ Italia. Si mise in atto persino un tentativo di rovesciare il Duce: la legalità formale sarebbe stata salvaguardata tramite un voto di sfiducia dal Gran Consiglio del Fascismo, e Ciano sarebbe stato chiamato a guidare il nuovo governo. Tuttavia, il «genero del regime», come Ciano era chiamato, si tirò indietro sostenendo di non poter agire contro il suocero proprio nel momento dell’ apice della sua popolarità e influenza. Di conseguenza, il successivo 10 giugno, il Duce si presentò al balcone di Palazzo Venezia a Roma dichiarando pomposamente guerra a Londra e Parigi, ormai vinta: «Combattenti di terra, di mare, e dell’ aria! Camicie Nere della Rivoluzione e delle Legioni, uomini e donne d’ Italia, dell’ Impero e del Regno di Albania. Ascoltate! La dichiarazione di guerra è già stata consegnata agli ambasciatori di Gran Bretagna e di Francia. La parola d’ ordine è una sola, categorica e impegnativa per tutti. Essa già trasvola e accende i cuori dalle Alpi all’ Oceano Indiano: vincere! E vinceremo, per dare finalmente un lungo periodo di pace con la giustizia all’ Italia, all’ Europa, al mondo!». Tra Vittorio Emanuele e Mussolini nacquero nuovi motivi di dissidio: il dittatore, infatti, tramite il generale Ubaldo Soddu, chiese che gli venisse ceduto il comando supremo delle forze armate, il quale, in base allo Statuto Albertino, era detenuto dal sovrano che vi oppose notevole resistenza, finendo poi con il concordare una formula di compromesso in base al quale il comando supremo sarebbe rimasto a lui, ma il Duce lo avrebbe gestito semplicemente in delega. Il 6 giugno, scontento di questa soluzione e irritato dalla difesa del sovrano delle proprie prerogative statutarie, il dittatore sbottò: «Alla fine della guerra dirò a Hitler di far fuori tutti questi assurdi anacronismi che sono le monarchie.».

Il Re con Umberto e il nipotino Vittorio Emanuele; 


Il Re seguì con grande attenzione gli eventi del secondo conflitto europeo, ma non vi esercitò un ruolo attivo e fondamentale a differenza di quello di vent’ anni prima. Al contrario, il principe Umberto, ufficiale dell’ esercito, fu molto attivo al fronte. Dopo qualche effimero successo in Egitto e nell’ Africa orientale, i disastri che sopravvennero fra l’ autunno 1940 e la primavera 1941, tra il fallito attacco alla Grecia, le sconfitte navali di Taranto e Capo Matapan, la perdita di gran parte dei territori italiani in Libia e quella totale dei possedimenti in Africa orientale da parte degli angloamericani, rivelarono la prevista debolezza delle forze italiane. Sfuggito ad un attentato durante una visita in Albania nel 1941, il monarca osservò con sempre maggior preoccupazione l’ evolversi della situazione militare ed il progressivo asservimento delle forze italiane agli interessi germanici. Alla fine del 1942 fu tra i primi ad accorgersi della svolta decisiva della guerra e da allora meditò di uscirne. A lui ricorsero tutti quelli che avvertirono l’ imminenza della catastrofe, tra militari, uomini politici, antifascisti vecchi e nuovi, e si parlò sempre più apertamente della rimozione di Benito Mussolini dalla carica di Presidente del Consiglio. L’ eventualità del fallimento del colpo di Stato e in questo caso della guerra civile, nella quale i fascisti più accesi, aiutati dai nazisti, avrebbero potuto sopraffarlo, lo resero esitante ma, per tenere il segreto, nascose le sue intenzioni e si astenne dal fare i necessari preparativi.

A seguito della sconfitta nella seconda battaglia di El Alamein, il 4 novembre 1942, gli italiani abbandonarono totalmente il Corno d’ Africa, mentre il 9 luglio 1943 britannici e statunitensi invasero la Sicilia, bombardando sistematicamente le città italiane. A quel punto, finalmente, Vittorio Emanuele vide la tanto agognata possibilità di disfarsi dello scomodo Duce, ormai poco considerato dal Führer e dal suo regime, riprendendo lo schema già attuato senza successo nel 1940 e intensificando i contatti con esponenti dell’ antifascismo, direttamente o mediante il conte Acquarone. Pur continuando ad opporsi alla sua politica e al suo stile retorico, parlando del dittatore fu udito esclamare: «Eppure quell’ uomo ha una gran testa.».

Il 21 luglio 1943, Mussolini concesse la convocazione del Gran Consiglio del Fascismo per il 24, recandosi poi dal Re per il consueto colloquio, durante il quale riferì dell’ adunanza. Si esaminarono i pro e i contro di un eventuale mutamento di alleanze, e venne paventata la possibilità che la Germania volesse annettersi i territori italiani acquisiti in seguito alla Grande Guerra, ossia Alto Adige, Istria, Fiume e Dalmazia. Il monarca concordò sulla decisione di traghettare il Paese fuori dal conflitto, lasciando Berlino alla sua sorte, ma il presupposto indispensabile era che il Duce lasciasse il potere, ricordando che gli angloamericani consideravano la sua permanenza al governo come un ostacolo a qualsiasi trattativa. Nel pomeriggio di sabato 24 luglio, a porte chiuse, iniziò la lunga e attesa seduta del Gran Consiglio, che si concluse alle prime ore del giorno successivo con l’ approvazione dell’ ordine del giorno presentato da Dino Grandi e quindi con la destituzione di Mussolini dai suoi incarichi di governo avendo fallito, benché la votazione, significativa in quanto votata dai massimi rappresentanti del Partito fascista, non avesse valore giuridico in quanto il capo del governo era legalmente responsabile del proprio operato solo dinanzi al regnante, il solo a poterlo destituire. Quello stesso pomeriggio, quindi, il dittatore si presentò alle 17:00 a Villa Savoia, ove Vittorio Emanuele gli comunicò la sua sostituzione come Presidente del Consiglio con il maresciallo Pietro Badoglio, garantendogli l’ incolumità. Il Duce finalmente deposto non era però al corrente delle reali intenzioni del Re, che aveva fatto circondare l’ edificio da duecento carabinieri, ordinando loro di porre sotto scorta Mussolini, che invece fu arrestato. La Regina consorte Elena lasciò scritto nelle sue memorie un resoconto dell’ incontro che precedette l’ arresto di Mussolini e la sua reazione successiva: «Eravamo in giardino. A me non aveva ancora detto nulla. Quando un emozionato Acquarone ci raggiunse, e disse a mio marito ‘‘Il generale dei carabinieri desidera, prima dell’ arresto di Mussolini, l’ autorizzazione di Vostra Maestà.’’. Io restai di sasso. Mi venne poi da tremare quando sentii mio marito rispondere ‘‘Va bene. Qualcuno deve prendersi la responsabilità. Me l’ assumo io.’’. Poi salì la scalinata con il generale. Attraversavo l’ atrio quando Mussolini arrivò. Andò incontro a mio marito. E mio marito gli disse ‘‘Caro Duce, l’ Italia va in tocchi…’’. Non lo aveva mai chiamato così, ma sempre ‘Eccellenza’. Io nel frattempo salii al piano superiore, mentre la mia dama di compagnia, la Jaccarino, attardandosi nella saletta era rimasta giù e ormai non poteva più muoversi. Più tardi mi riferì tutto. Mi narrò che mio marito aveva perso le staffe e si era messo a urlare contro Mussolini, infine gli comunicò che lo destituiva e che a suo posto metteva Pietro Badoglio. Quando poi la Jaccarino mi raggiunse, dalla finestra di una sala, vedemmo mio marito tranquillo e sereno, che accompagnava Mussolini sulla scalinata della villa. Il colloquio era durato meno di venti minuti. Mussolini appariva invecchiato di vent’ anni. Mio marito gli strinse la mano. L’ altro mosse qualche passo nel giardino, ma fu fermato da un ufficiale dei carabinieri seguito da soldati armati. Il dramma si era compiuto. Mi sentivo ribollire. Per poco non sbattei contro mio marito, che rientrava. ‘‘E’ fatta.’’ disse piano lui. ‘‘Se dovevate farlo arrestare,’’ gli gridai a piena voce, indignata ‘‘questo doveva avvenire fuori casa nostra. Quel che avete fatto non è un gesto da sovrano…’’. Lui ripeté ‘‘Ormai è fatta.’’ e cercò di prendermi sotto braccio, ma io mi allontanai di scatto da lui. ‘‘Non posso accettare un fatto del genere.’’ dissi ‘‘Mio padre non lo avrebbe mai fatto.’’, poi andai a rinchiudermi nella mia camera.».

L' atto della Luogotenenza;


Con il Fascismo ormai finalmente decaduto, il governo Badoglio ereditò il gravoso compito di elaborare una strategia di uscita dal conflitto, e di garantire l’ ordine pubblico nel Paese. La situazione imponeva un armistizio con Gran Bretagna e Stati Uniti, evitando rivalse da parte dell’ esercito tedesco, che a seguito degli accordi presi con il regime fascista stava rafforzando la propria presenza nella Penisola, sulla popolazione: il Presidente del Consiglio annunciò quindi la continuazione della guerra pur intavolando negoziati con gli Alleati, che il 3 settembre successivo portarono all’ armistizio di Cassibile, frazione di Siracusa, firmato dal generale Giuseppe Castellano e dal generale statunitense Walter Bedell Smith, in cui si proclamò la resa incondizionata dell’ Italia agli Alleati e quindi la rottura con la Germania. La stipula rimase segreta per cinque giorni, nel rispetto di una clausola del patto che prevedeva che esso entrasse in vigore dal momento del suo annuncio pubblico, che avvenne tramite una trasmissione in lingua inglese di Radio Algeri il pomeriggio dell’ 8 settembre, alle ore 18:30 e alle 19:42 direttamente da Badoglio tramite i microfoni dell’ EIAR.

La notte tra l’ 8 e il 9 settembre, dopo un’ iniziale esitazione, Vittorio Emanuele accolse il suggerimento di Badoglio di lasciare Roma, che in quel momento non poteva essere difesa adeguatamente, in modo da evitare una strage di fronte ai suoi due milioni di abitanti, la presenza del papa e l’ insostituibile patrimonio artistico e culturale che avrebbe potuto finire depredato o distrutto, alla volta di Brindisi, città libera dal controllo tedesco e non occupata dagli angloamericani. Soprattutto, si sarebbe assicurata la continuità dello Stato e del governo evitando una cattura da parte nazista. Stabilitisi nel nuovo quartier generale, il sovrano, la famiglia reale, il capo del governo, e i vertici militari ebbero il riconoscimento internazionale e continuarono a rappresentare lo Stato legittimo, ma la fretta con cui ebbe luogo il trasferimento comportò l’ assenza di ogni ordine e disposizione alle truppe e agli apparati dello Stato, utile a fronteggiare le conseguenze dell’ armistizio, pregiudicandone gravemente l’ esistenza stessa nei convulsi eventi delle settantadue ore successive: le forze di terra italiane, abbandonate a loro stesse e senza ordini e piani precisi, non furono in grado di opporre un’ efficace e coordinata resistenza alla ovvia e prevedibile reazione germanica, disintegrandosi nel volgere di poco e finendo in larga parte preda dei tedeschi. La propaganda nazista, peraltro, dipinse l’ abbandono della capitale come una fuga ignominiosa da parte di Vittorio Emanuele, un vigliacco che aveva pensato semplicemente a salvarsi la pellaccia analogamente a tanti altri capi di Stato, suggiti all’ estero. Tra gli errori che effettivamente si possono addurre al monarca si possono indicare la mancanza di un piano per le istituzioni e le forze armate e dell’ ordine romane, e soprattutto quello di non aver lasciato il figlio Umberto in città. Il principe ereditario, infatti, quale ufficiale dell’ esercito attivamente impegnato sul fronte, aveva espresso apertamente il desiderio di restare a difendere la capitale, ma il padre gli rispose in piemontese: «Beppo, s’ at piju, at massu.», ossia: «Beppo, se ti prendono ti ammazzano.». Se da una parte l’ abbandono di Roma da parte di Re e Presidente del Consiglio aveva lasciato l’ intero esercito italiano dislocato in patria e su tutti i fronti di guerra senza ordini e al completo sbando, permettendo ai nazisti di attuare senza problemi l’ operazione Achse e sancendo la più grave disfatta italiana, che in dieci giorni subì ventimila perdite e oltre ottocentomila prigionieri, dall’ altra permise la continuità formale dello Stato soprattutto agli occhi degli Alleati, che videro garantita la validità dell’ armistizio mentre la presenza di un governo legittimo evitava all’ Italia l’ instaurazione di un duro regime di occupazione, almeno nelle zone meridionali.


Dalla sede governativa di Brindisi, Vittorio Emanuele si diede molto da fare: assicuratosi il riconoscimento angloamericano, il 13 ottobre dichiarò formalmente guerra al Terzo Reich e gli Alleati accordarono all’ Italia lo status di nazione cobelligerante. Assistette alla riorganizzazione dell’ esercito, e affrontò i rinascenti partiti politici, in particolare di quelli riuniti nel Comitato di Liberazione Nazionale, presieduto da Ivanoe Bonomi. Da parte di alti dignitari rimasti leali alla Corona, come Benedetto Croce, furono sollevate richieste di una sua abdicazione, a cui non cedette intendendo difendere il principio monarchico e dinastico che incarnava e riaffermare almeno formalmente l’ indipendenza dello Stato dalle ingerenze esterne. Come confermato dai rapporti degli agenti segreti statunitensi, i partiti politici pensavano già a vendette e a recuperare il potere lasciato dal Fascismo, in una lotta acutizzata dagli interessi di parte sovietica, statunitense e britannica, che avevano veri e propri scontri diplomatici sulle sorti del Belpaese. Tuttavia, consapevole di responsabilità politiche, vere o presunte, e di eventi che non era riuscito a controllare, ormai stanco ma pur sempre intento a garantire una certa continuità, su pressione degli antifascisti il 12 aprile 1944 venne trasmesso un messaggio radiofonico in cui si annunciava la decisione del Re di nominare il principe Umberto Luogotenente del Regno, soluzione caldeggiata da molte parti: il successivo 5 giugno, quindi il vecchio sovrano affidò al proprio erede la Luogotenenza in un’ abdicazione informale.

Frattanto, Mussolini, imprigionato a Campo Imperatore, sul Gran Sasso, venne liberato dai nazisti con l’ Operazione Quercia, venendo poi portato nell’ Italia del nord, ove Berlino montò uno Stato fantoccio, la Repubblica Sociale Italiana, con capitale formalmente a Roma ma di fatto suddivisa in città quali Salò, Brescia, Gargnano, Verona e Milano. Al Duce venne concessa pochissima libertà di azione, prevalentemente in ambito economico e in quello dell’ organizzazione militare. Ivi, le leggi razziali e tutti quegli altri provvedimenti che la Monarchia aveva costantemente provveduto a mitigare vennero attuati in completa libertà e su diretta spinta delle autorità naziste. Ma tale entità politica e militare ebbe vita breve, a causa delle incursioni angloamericane e delle azioni di guerriglia partigiana, che godevano del supporto della popolazione e di aiuti da parte degli Alleati. Nell’ aprile 1945, sempre più isolato e impotente, con le forze tedesche in Italia ormai in rotta, Mussolini si trasferì a Milano, da cui tentò la fuga in Svizzera, venendo però catturato il 26 aprile dai partigiani e ucciso due giorni dopo. Il suo cadavere, insieme a quello dell’ amante Claretta Petacci, dell’ amico Nicola Bombacci e dei gerarchi Alessandro Pavolini e Achille Starace, venne esposto a Piazzale Loreto, a Milano, ove venne posto agli scherni della folla rancorosa.

Villa Maria Pia, Napoli;


Con la caduta definitiva del Fascismo, la resa incondizionata della Germania nel maggio 1945 e la ricomposizione dei territori italiani sotto un unico governo, ora l’ Italia poteva finalmente voltare pagina e dedicarsi alla ricostruzione, sia materiale che politica. Vittorio Emanuele scelse di non tornare a Roma, restando a Napoli, nella tranquilla residenza di Villa Maria Pia, nel quartiere collinare di Posillipo, mentre Umberto, tuttora Luogotenente, si stabilì al Quirinale, esercitando le prerogative reali senza tuttavia essere ancora sovrano, dando a tutti un segnale di rinnovo.

Il Regno di quei giorni era infiammato da ferite e attese, e sulla base del Patto di Salerno sancito dal decreto luogotenenziale del 25 giugno 1944 su iniziativa dei partiti politici facenti parte della Resistenza e pressione degli Alleati si preparava al referendum istituzionale previsto per il successivo 2 giugno 1946. Sulla Corona pesavano le accuse di connivenza con il Fascismo e di fuga da Roma all’ indomani dell’ armistizio, ampiamente riprese dagli antimonarchici in generale e dai movimenti politici che avevano animato la lotta partigiana nell’ Italia settentrionale occupata dai nazisti in particolare, di orientamento prevalentemente comunista e socialista. Tra di essi, solo il Partito Liberale Italiano si era dichiarato a favore della Monarchia. Dopo novecento anni trascorsi destreggiandosi un po’ sul campo di battaglia e un po’ negli ambienti diplomatici per evitare le aspirazioni delle potenze vicine, soprattutto Francia e Austria, il destino di Casa Savoia sarebbe stato discusso dalla sua stessa sudditanza, in un contesto ancora poco consono ad una scelta obiettiva, essendo il Paese ancora soggetto agli ovvi malumori dovuti alla dittatura e alla guerra, ai settarismi politici e alle pressioni delle potenze occupanti. Qualunque sarebbe stato l’ esito, Vittorio Emanuele III rappresentava il passato, ragion per cui scelse di tenersi rigorosamente in disparte nella villa di Posillipo, praticamente esule, trascorrendo le giornate pescando, ascoltando la radio e leggendo i giornali senza mai fare commenti. Non compì il minimo intervento in quei giorni di transizione, non vide mai la stampa e non tenne contatti politici ufficiali, ritenendo che il destino della famiglia reale fosse ormai legato al figlio Umberto. Giovedì 9 maggio 1946, alle 15:15, firmò quindi la propria abdicazione su un foglio di carta bollata da dodici lire, ricalcando la formula usata quasi cento anni prima dal bisnonno Carlo Alberto: «Abdico alla corona del regno d’ Italia in favore di mio figlio Umberto di Savoia, Principe di Piemonte.». Erano presenti il notaio Nicola Angrisani, con studio a Napoli, il tenente colonnello Brunoro De Buzzaccarini e l’ aiutante di campo dello stesso Re, generale Paolo Puntoni, oltre che il principe Umberto e Pietro Acquarone, ora duca, appena giunti da Roma. Benché per legge le funzioni di notaio della Corona ora fossero di competenza del Presidente del Consiglio, che in quel momento era Alcide De Gasperi, non si ritenne opportuno rivolgersi a lui per avallare un atto formalmente non legale. Fu emanato quindi un comunicato ufficiale: «Oggi alle ore 15:15 in Napoli, il Re Vittorio Emanuele III ha firmato l’ atto di abdicazione e, secondo la consuetudine, è partito in volontario esilio. Non appena il nuovo Re, Umberto II, tornerà a Roma ne verrà data comunicazione ufficiale al Consiglio dei ministri.».

Qualche ora più tardi, una lancia traghettò Vittorio Emanuele ed Elena, che avevano assunto il titolo di conte e contessa di Pollenzo, sull’ incrociatore Duca degli Abruzzi, che alle 19:40 levò le ancore e li scortò nella navigazione fino a Porto Said, in Egitto, ove Re Fārūq I concesse loro ospitalità ricambiando l’ ospitalità concessa a suo tempo a suo padre, Fuad I. Gli ex sovrani si stabilirono presso Villa Yela, affacciata su di un palmeto nella periferia di Alessandria, ove sventolava nostalgicamente il tricolore sabaudo. L’ ex Re trascorse un esilio silenzioso, monotono e agiato, tra la pesca mattutina sulle feluche, qualche ricevimento alla corte egiziana e le memorie di mezzo secolo di regno.

L' abdicazione di Vittorio Emanuele;


Frattanto, in Italia, con Umberto II e la nuova Regina consorte, Maria Josè, il Quirinale recuperò la propria dignità di reggia, riaprendosi alle feste e ai ricevimenti. La nuova coppia reale viaggiava in lungo e in largo per l’ Italia in un’ autentica campagna elettorale con conseguente grande recupero di consensi: in molti concordano tuttora che se Vittorio Emanuele avesse abdicato prima, le cose per loro sarebbero state più facili. Il nuovo Re affascinava le folle, riscuotendo successo in ogni impegno svolto e forse proprio per questo e le idee contrarie al regime che negli anni precedenti aveva mormorato in confidenza, il Duce lo aveva fatto seguire dalla polizia segreta e concedendogli poca visibilità sui mezzi di comunicazione, con l’ ordine tassativo di non rivolgersi mai a lui come principe ereditario ma con il titolo dinastico di principe di Piemonte. La storia ufficiale descrisse l’ erede al trono come un personaggio passivo escluso dagli affari di Stato, ma forse la realtà fu diversa. Mussolini aveva rivelato al proprio biografo in una conversazione riservata quanto l’ opinione pubblica si sbagliasse: Umberto era un uomo moderno che si riteneva al servizio dello Stato e non viceversa, consapevole della situazione effettiva del Paese, concludendo che «non voleva rappresentare un personaggio, voleva esserlo». Già con i decreti luogotenenziali, il nuovo sovrano si era messo all’ opera per riportare in ogni modo il Regno alla normalità e alla democrazia, abolendo la pena di morte, ponendo le basi delle autonomie locali di Sicilia e Valle d’ Aosta, mentre il 22 aprile 1946 aveva istituito il 25 aprile come Festa della Liberazione, su proposta del Presidente del Consiglio Alcide De Gasperi.

Venne infine il 2 giugno, in cui il tanto atteso referendum ebbe luogo in un clima tutt’ altro che sereno, tra le macerie dei bombardamenti angloamericani e quelle delle demolizioni naziste, con centinaia di migliaia di italiani ancora sparsi nei campi di prigionia in tutto il mondo, intere province ancora sotto governo militare straniero e in un clima che sembrava vicino a quello di una guerra civile. I votanti furono oltre ventiquattro milioni, pari a circa all’ ottantanove percento della popolazione totale. Quasi tre milioni di cittadini furono esclusi dal voto: non poterono votare coloro che prima della chiusura delle liste elettorali si trovavano ancora al di fuori del territorio nazionale, nei campi di prigionia o di internamento all’ estero, né i cittadini dei territori delle province di Bolzano, Gorizia, Trieste, Pola, Fiume e Zara, in quanto oggetto di contesa internazionale e ancora soggette ai governi militari alleato o jugoslavo. Furono inoltre esclusi coloro che si trovavano in Libia, allora ancora territorio italiano, e chi rientrò in Italia tra la data di chiusura delle liste, nell’ aprile 1945, e le votazioni. Vi furono peraltro molti casi di tanti certificati elettorali non reperiti.

Terminato il voto la mattina del giorno 3, da tutta Italia le schede elettorali e i verbali delle trentuno circoscrizioni vennero inviate a Roma, nella Sala della Lupa di Montecitorio. Il conteggio avvenne in presenza della Corte di Cassazione, degli ufficiali angloamericani della Commissione alleata e dei giornalisti. Due addetti assommavano i dati dei verbali su due macchine calcolatrici, una per la Monarchia e una per la Repubblica, tenendo una seconda conta a mano. Lo spoglio del risultato mostrò chiaramente che l’ Italia era divisa in due metà, tra un nord repubblicano e un sud monarchico poiché la guerra aveva praticamente diviso il Paese: al nord vi erano i partigiani e al sud le forze regolari. Il settentrione superò il sessantasei percento dei voti in favore della Repubblica, e il meridione vide una preferenza per la Monarchia con oltre il sessantatré percento. In tutte le province a nord di Roma, tranne Padova e Cuneo, vinse la Repubblica, che a Trento ebbe l’ ottantacinque percento dei consensi. In ogni provincia del centro e del sud, tranne due Latina e Trapani, trionfò la Corona, soprattutto a Napoli, con il settantanove percento delle preferenze. Contemporaneamente, gli italiani votarono anche per eleggere i membri dell’ Assemblea costituente: la Democrazia Cristiana ottenne la maggioranza relativa dei deputati, duecentosette in tutto, mentre al secondo posto arrivarono i socialisti e i comunisti arrivarono al terzo.

L' ex re alla residenza di Alessandria;


Lo svolgimento del voto referendario fu complicato e poco chiaro, finendo per alimentare ben presto il sospetto di irregolarità. I primi risultati arrivarono il 4 giugno e sembravano dare in vantaggio la Monarchia. Durante la notte e la mattina del 5, la Repubblica passò in netto vantaggio, e il 10 la Corte di Cassazione proclamò il risultato: dodici milioni di voti a favore della Repubblica e dieci della Monarchia. A sorpresa, nel comunicato si utilizzò una formula dubitativa, che rimandava l’ annuncio definitivo al 18 giugno dopo l’ esame delle contestazioni presentate soprattutto dai monarchici. La più importante era arrivata da un gruppo di professori, secondo cui la Repubblica avrebbe potuto proclamarsi vincitrice soltanto in caso di conquista della maggioranza assoluta dei voti, cioè solo se avesse ottenuto la maggioranza di tutti i voti espressi, contando anche le schede bianche e nulle: in altre parole alla Repubblica non sarebbe bastato superare la Monarchia per proclamarsi vincitrice.

In parte a causa del clima teso che si respirava in quelle settimane, e che continuò per anni a incombere sul Paese, e in parte perché lo spoglio e il processo con cui venne annunciato il referendum furono gestiti in maniera incerta e decisamente pasticciata, fin dal primo momento si parlò di brogli. I capi dei principali partiti, Democrazia Cristiana, Partito Socialista, Comunista e Repubblicano, erano quasi tutti a favore della Repubblica, ma temevano che al sud i monarchici avrebbero potuto organizzare insurrezioni o rivolte e che in caso di disordini i carabinieri si sarebbero schierati con il Re. Anche i repubblicani erano divisi tra di loro: i centristi temevano che i comunisti stessero organizzando un colpo di Stato o una rivolta, non troppo diversa da quella scoppiata in Grecia in quei mesi. Dopo la proclamazione dei primi risultati, ci fu un vero e proprio scontro tra il governo provvisorio guidato dal leader della Democrazia Cristiana Alcide De Gasperi e la Monarchia. E l’ 11 giugno, a Napoli, in via Medina, ove esisteva la sede locale del Partito Comunista Italiano ebbe luogo una nota strage in cui morirono nove militanti monarchici e un centinaio di persone rimasero ferite, a seguito di una protesta da parte dei monarchici contro l’ esposizione della bandiera rossa con falce e martello e una bandiera tricolore priva dello stemma sabaudo. Tra i morti vi fu la studentessa Ida Cavalieri che, avvolta con un tricolore con la corona sabauda, fu investita da un’ autoblindo delle forze dell’ ordine. Al culmine delle tensioni, De Gasperi si rivolse al nuovo Ministro della Real Casa, Falcone Lucifero, con parole passate alla storia: «Entro stasera, o lei verrà a trovare me a Regina Coeli, o io verrò a trovare lei.». Alla fine vinse de Gasperi, che il 13 giugno, ancor prima che uscissero i risultati definitivi, proclamò il passaggio dei poteri dal Re al governo provvisorio. Umberto II denunciò prontamente il gesto, ma trovandosi di fronte alla drammatica alternativa di opporsi con la forza o di partire per l’ esilio evitando altro spargimento di sangue si rassegnò al pensiero di lasciare l’ Italia il giorno stesso, indirizzando un messaggio al suo popolo partendo in aereo per Lisbona, in Portogallo, seguito dal resto della famiglia reale e dopo aver ricevuto gli onori militari.


In visita con Umberto a El Alamein, 1947


Chiuso e taciturno sotto il peso del suo passato, e di eventi che non era riuscito a controllare, Vittorio Emanuele morì il 28 dicembre 1947, colpito da trombosi, concludendo dignitosamente la propria esistenza in esilio. Appena il giorno prima, Enrico De Nicola, capo provvisorio dello Stato, aveva firmato la Costituzione repubblicana che, con la XIII disposizione transitoria e finale, così affermava: «I membri e i discendenti di Casa Savoia non sono elettori e non possono ricoprire uffici pubblici né cariche elettive. Agli ex re di Casa Savoia, alle loro consorti e ai loro discendenti maschi sono vietati l’ ingresso e il soggiorno nel territorio nazionale. I beni esistenti nel territorio nazionale degli ex re di Casa Savoia, delle loro consorti e dei loro discendenti maschi, sono avocati allo Stato. I trasferimenti e le costituzioni di diritti reali sui beni stessi, che siano avvenuti dopo il 2 giugno 1946, sono nulli.».

Il defunto sovrano venne sepolto tre giorni dopo presso la cattedrale di Santa Caterina, con una cerimonia funebre a cui Re Fārūq accordò un carattere reale: l’ atmosfera della città fu scossa da colpi di cannone che ne segnavano l’ inizio, e mentre la piccola e lucente bara, avvolta nel tricolore sabaudo, procedeva lentamente verso la basilica, una banda della Marina egiziana suonava la Marcia reale italiana. Dopo la benedizione, la salma venne deposta in un loculo dietro l’ altare maggiore e fu murata con una lastra di travertino sulla quale era scolpito: «Vittorio Emanuele di Savoia – 1869-1947». Il giorno dopo il funerale, il 1 gennaio 1948, entrò ufficialmente in vigore la nuova Costituzione italiana.

I funerali dell' ex Re ad Alessandria d' Egitto;


Smilzo e nano, debole e per consuetudine indifferente: queste sono alcune caratteristiche che politici e cronisti percepiscono in Vittorio Emanuele III, che ebbe la sfortuna di regnare nel periodo meno roseo della storia d’ Italia e di Casa Savoia, che nel Novecento era divenuta la più antica famiglia reale europea, con alle spalle ben nove secoli di storia. Nonostante il giudizio negativo proveniente da ambienti antifascisti e repubblicani, che lo accusarono di grettezza e inattività, fu un uomo colto e un abile capo di Stato, che all’ inizio del suo regno, iniziato per coincidenza all’ inizio del XX secolo, operò un forte ricambio nella classe di governo nell’ ambito dell’ ammodernamento del Paese recentemente ma non ancora completamente unificato. Dal 1946 in poi, la propaganda repubblicana mischiò tra loro Monarchia e Fascismo, ingigantendo i fatti negativi dell’ epoca regia e le colpe del terzo e penultimo sovrano, che passò per un Re troppo piccolo per il suo tempo, svogliato e insensibile a dispetto del fine intelletto. I suoi quarantasei anni di regno non furono un disastro come si è voluto far credere. All’ opposto! Tra il 1900 e il 1946 si consolidò l’ industrializzazione, si introdusse il suffragio universale maschile nel 1912 e quello femminile nel 1945, si assistette alle prime importanti forme di protezione sociale, alla soluzione della questione romana con i Patti lateranensi e al raggiungimento dei massimi confini territoriali dell’ Italia unita. Tra il 1900 e il 1922 si susseguirono venti governi presieduti da dodici diversi uomini politici che videro la centralità del Re nell’ ordinamento costituzionale e il suo intervento personale nelle decisioni fondamentali del tempo, che vide con onore l’ Italia nel novero delle grandi potenze. Il suo impegno in politica estera fu alto, e ottimi furono i rapporti con lo zar Nicola II di Russia e con i sovrani britannici, a dispetto di quelli con Guglielmo II di Germania e Francesco Giuseppe I d’ Austria, a cui era legato dagli accordi presi in età umbertina. Egli ebbe la sventura di vivere al crepuscolo di un secolo turbolento, l’ Ottocento, e all’ alba di uno nuovo, il Novecento, portatore di fermenti nazionalisti e rivoluzionari destinati a scuotere le fondamenta del tranquillo Vecchio Continente, e di dover indossare una corona ancora soggetta a rigide e provinciali convenzioni, e che agognava di una modernizzazione e uno svecchiamento. Non è possibile, tuttavia, non addebitargli l’ errore di essere stato troppo prudente e formale sul piano costituzionale. Il Fascismo fu effettivamente un terremoto, sostenuto dall’ alta società e dai partiti della Destra che volevano chiudere i porti italiani all’ oscura ideologia rossa e filosovietica, dinnanzi al quale la Corona rischiò effettivamente di cadere in favore di una Repubblica totalmente soggetta al Duce, quindi se da una parte fu effettivamente costretto ad accettare Mussolini come Presidente del Consiglio, dall’ altra avrebbe senz’ altro potuto aspettare il momento giusto e l’ appiglio ideale per rimpiazzarlo con un soggetto più opportuno con cui guidare un graduale ritorno di rotta. Vi fu certamente il tentativo del 1940, naufragato per le incertezze del conte Ciano, ma purtroppo fu ben poca cosa. Prima ancora, vi era stata la questione del delitto Matteotti, ma il Parlamento che avrebbe potuto formulare lo stato di accusa non fu d’ aiuto. Disse un giorno Umberto II in un’ intervista a Luigi Cavicchioli: «Il sovrano non credeva, nel 1939-40, di poter imporre una soluzione d’ autorità senza conseguenze funeste per il Paese. Io non intendo esprimere un giudizio. Giudichi da sé, secondo coscienza, ogni italiano. E’ un fatto, comunque, che mio padre non vide altra via di salvezza al di fuori della prassi costituzionale: la sola speranza che coltivò fu un voto di sfiducia del Gran Consiglio del Fascismo. Voto che non ci fu.». Ed ecco l’ abbandono di Roma, tuttora additato come una fuga dagli antimonarchici: per quanto effettivamente servì ad assicurare la sopravvivenza della Corona e del governo assicurando l’ avvicinamento agli Alleati, se avesse dato disposizioni alle forze armate per la difesa di Roma e magari abdicando proprio allora in favore di Umberto, più giovane e popolare di lui, oggi l’ Italia sarebbe tuttora una Monarchia.

Con Vittorio Emanuele III si concludeva un’ epoca e ne cominciava un’ altra, quella della Repubblica che, nonostante il vanto di aver rotto i ponti con Monarchia e Fascismo, negli anni volle al proprio servizio svariati funzionari fascisti, camice nere e altre figure inquietanti che, benché accusate da Jugoslavia, Grecia, Albania, Francia e dagli angloamericani per crimini di guerra, mai furono processate in Italia o epurate, estradate all’ estero o giudicate dai tribunali internazionali: piuttosto, tutti furono reinseriti negli apparati dello Stato democratico con ruoli di primo piano, divenendo questori, prefetti, capi dei servizi segreti, deputati e ministri. Tra coloro che non si macchiarono di colpe ma che parteciparono al governo fascista e ne condivisero le idee vi furono ad esempio Giovanni Gronchi, sottosegretario al Ministero dell’ Industria nel primo governo Mussolini e poi terzo Presidente della Repubblica; Giuseppe Pella, Vice Podestà della città di Biella e poi secondo Presidente del Consiglio dei ministri e più volte ministro; Amintore Fanfani, che si espresse favorevolmente per il Manifesto della razza e le leggi razziali del 1938, poi padre costituente e Presidente del Consiglio dei Ministri; Aldo Moro, in gioventù di aperte simpatie fasciste avendo aderito ai Gruppi universitari fascisti, favorevole al sostegno italiano alla guerra civile spagnola e all’ intervento nel 1940 a fianco della Germania vedendo nel Fascismo il miglior sistema politico atto a garantire tale integrazione politica, civile e morale, ovvero cristiana, e poi a sua volta Presidente del Consiglio; Giovanni Spadolini, dalle giovanili simpatie per il Fascismo repubblichino fino al 1944, quando lamentò che avesse perso «a poco a poco la sua agilità e il suo dinamismo rivoluzionario, proprio mentre riaffioravano i rimasugli della massoneria, i rottami del liberalismo, i detriti del giudaismo», primo Presidente del Consiglio dei ministri non democristiano. Notevole fu poi il caso di Giuseppe Pièche, uomo di fiducia di Mussolini e poi di Mario Scelba, Presidente del Consiglio negli anni Cinquanta. Altri personaggi cupi che nella neonata Repubblica divennero assai influenti venivano dall’ ala dura dei partigiani, come i comunisti Palmiro Togliatti e Pietro Secchia, di aperte simpatie sovietiche, e Francesco Moranino, capo partigiano responsabile di svariati delitti ed eccidi, prima tra tutte la strage della missione Strassera.

La tomba dell' ex Re ad Alessandria d' Egitto;


Su Vittorio Emanuele III e Casa Savoia calò una condanna esagerata, come sempre avviene agli sconfitti da parte dei vincitori, la cui giuria riscrisse la storia facendo passare la Monarchia come la sola complice del Fascismo, senza ovviamente ricordare che nel 1922 i partiti democratici che sedevano in Parlamento, tra popolari e liberali, avevano votato ampiamente la fiducia a Mussolini, e che i provvedimenti fascisti votati dal Re erano stati prima approvati dallo stesso consiglio legislativo. L’ ex famiglia reale divenne il capro espiatorio di tutti i mali, pur non avendo mai subito alcun processo come invece fu per i gerarchi nazisti al processo di Norimberga del 1945: malgrado la campagna di criminalizzazione scatenata contro di essa, non si era macchiata di crimini, tanto che al referendum del 1946 ottenne quasi la metà dei voti nazionali. Tale accanimento, giustificato da una poco lucida valutazione sia storica che politica, fu evidente soprattutto nelle disposizioni riguardanti l’ esilio degli ex reali, che perdurarono non solo nella vita ma anche nella morte, in quanto la Repubblica vietò espressamente il rimpatrio della salma di Vittorio Emanuele, e in seguito quelle di Elena, morta e sepolta a Montpellier nel novembre 1952, di Umberto, venuto a mancare nel 1983 a Ginevra e seppellito all’ abbazia reale di Altacomba, ove venne seguito da Maria José nel 2001. Un diniego che venne contestato per decenni dai monarchici, secondo i quali rappresentava un’ esagerazione allo scopo di salvaguardare la Repubblica dal pericolo di un possibile ritorno alla Monarchia, come dimostrato ad esempio al funerale della duchessa Elena di Aosta, vedova del Duca Invitto, morta nel 1951 e sepolta nella basilica dell’ Incoronata Madre del Buon Consiglio di Napoli: il suo funerale, tanta fu la partecipazione dei napoletani, si trasformò in un trionfo di popolo, con migliaia di persone presenti e pescatori di Mergellina precipitatisi con gran deferenza a sorreggere la sua bara all’ uscita dal duomo, al grido di «Viva il Re!».

Solo il 17 dicembre 2017, quasi in concomitanza con il settantesimo anniversario della sua morte, la salma di Vittorio Emanuele venne rimpatriata a bordo di un aereo dell’ Aeronautica militare e tumulata nella cappella di San Bernardo del santuario di Vicoforte, in provincia di Cuneo, voluto dal duca Carlo Emanuele I di Savoia nel 1596, a fianco della moglie Elena, i cui resti vi erano stati traslati due giorni prima, a seguito di ben sei anni di negoziati condotti in riservatezza dalla nipote Maria Gabriella di Savoia, figlia di Umberto, e con l’ appoggio del cugino Amedeo di Savoia Aosta, entrambi da lungo tempo desiderosi di rimpatriarlo in quanto capo dello Stato e preoccupati dai crescenti disordini causati dal terrorismo in Egitto, accettando l’ esclusione di una sepoltura al Pantheon, ove sono conservate tuttora le tombe dei due primi re italiani, Vittorio Emanuele II e suo figlio Umberto I. Lo spostamento delle salme del Re e della Regina consorte, sebbene avvenuta dopo molti decenni, destò numerose polemiche da parte degli ambienti antifascisti e della comunità ebraica, dimostrando indipendentemente da qualsivoglia argomentazione favorevole o contraria nei riguardi di Vittorio Emanuele in particolare e della Monarchia in generale la fatica tipicamente italiana a fare i conti con il proprio passato. Una difficoltà per certi versi comprensibile, a differenza invece della tendenza nel fare due pesi e due misure, vizio alquanto radicato nella tradizione del Belpaese: infatti, se da un lato la Repubblica volle l’ esilio dei Savoia, vivi o morti che fossero, dall’ altra non si curò mai del destino della famiglia Mussolini, lasciando la vedova e i quattro figli del Duce vivere in un tranquillo anonimato in Italia. Lo stesso dittatore venne tumulato presso la Cripta Mussolini, al cimitero dell’ originaria Predappio, in provincia di Forlì-Cesena, senza che si levasse mai alcuna protesta formale da parte di nessuno.

La nuova tomba, a Vicoforte;


Ma per quante parole siano state spese nei decenni e quante ancora si susseguiranno su Vittorio Emanuele, il Re Soldato, il Re borghese, uomo così sfuggente e indecifrabile, chiunque senta di volerlo capire un po’ meglio dovrebbe molto probabilmente recarsi all’ isola di Montecristo, uno dei luoghi più aspri, selvaggi e inaccessibili dell’ arcipelago toscano, che nel 1896 fu la meta del suo viaggio di nozze con Elena, ove visse semplicemente e in solitudine, lontano dalla vita regale...