venerdì 26 ottobre 2018

Il principe Vlad III, l’ uomo dietro al mito del conte Dracula

Dracula, il «Figlio del Drago»,


«All’ interno c’ era un vecchio, alto, sbarbato ma con lunghi baffi bianchi, vestito di nero dalla testa ai piedi: neppure una nota di colore in tutta la sua persona.» tratto dal capitolo secondo di ‘Dracula’, di Bram Stoker;

Da un tempo immemorabile, l’ umanità subisce profondamente il fascino della leggenda, il racconto epico di un avvenimento speciale e di vasta portata che ha avuto per protagonisti uno o più eroi straordinari e coraggiosi. Lo stesso termine «leggenda», dal latino legenda, ossia «cose degne di essere lette», indica quel particolare racconto che nell’ antichità tramandava il ricordo della vita di un prode e delle sue gesta, mentre durante il Medioevo europeo passò a rievocare eternamente le vicende dei santi cristiani e i loro miracoli, fungendo da esempio di fede per la cristianità.
L’ aspetto più importante e forse addirittura più affascinante di ogni leggenda è il fatto che, proprio come sostiene il vecchio detto, vanti un fondo di verità: i racconti leggendari non si basano mai su fatti inventati di sana pianta, ma contengono un elemento reale ripreso da più narratori che nel corso del tempo lo hanno trasformato in quel mito giunto sino a noi in forma di vicenda epica animata da concetti e simboli straordinari, ai limiti dell’ inverosimile, capaci di catturare l’ interesse e l’ ammirazione della gente.
Bela Lugosi nei panni del conte transilvano;

Talvolta, però, le leggende denotano un movente diametralmente opposto a quello del suscitare ammirazione e desiderio di imitazione, e cioè quello di incutere paura e terrore nel cuore delle persone, dando vita a simboli spaventosi. E’ il caso ad esempio del famigerato Dracula, l’ emblema del vampirismo, il cui nome evoca con immediatezza il terrifico potere della notte, nero e implacabile, legato alla figura del pipistrello, il macabro volatile temuto per la sua relazione mistica con streghe, spettri e demoni. I principi fondamentali della leggenda valgono appieno persino nel caso di questo sinistro e suggestivo personaggio, creato dal romanziere Bram Stoker alla fine dell’ Ottocento vittoriano: il demoniaco conte transilvano nerovestito e residente in un oscuro maniero in cima ad una rupe ove coltivava malefici propositi non fu una pura invenzione da parte del celebre autore irlandese, ma il rimaneggiamento di un personaggio storico realmente vissuto, ossia Vlad III, principe di Valacchia, l’ attuale Romania, appartenente alla stirpe dei Drăculeștii. Nominando Dracula viene alla mente un individuo più che mai inquietante, che Stoker tratteggiò ricorrendo a tutte le risorse della propria fantasia e agli espedienti di un accurato mestiere, sprigionando una magia che si sospinge sino alle soglie dell’ incubo, rappresentando in modo nuovo il duello infinito tra Bene e Male attraverso una storia scaturita direttamente dalle profondità della mente e che quindi raggiunge la fantasia delle coscienze, infiltrandosi nei sogni più spaventosi senza che nessun esorcismo possa attenuarne la pervadente suggestione.
Il notevole successo letterario del romanzo gotico «Dracula» consentì velocemente al subdolo e raffinato vampiro transilvano di superare in fascino e fama la notorietà del multiforme voivòda vissuto nel Quattrocento, al crepuscolo del Medioevo, e passato alla storia come «Impalatore» per l’ abitudine di ricorrere a cruente forme di impalamento di massa. Uomo costantemente ondeggiante tra atteggiamenti clementi e spietati, leali e traditòri, astuti e atroci, venne osannato dal proprio popolo e dagli alleati come l’ eroe per eccellenza della lotta contro gli ottomani, divenendo una sorta di Giuseppe Garibaldi romeno, quanto dipinto dai nemici come un tiranno sanguinario e un carnefice di insensata ferocia. Per tutta la sua esistenza, quest’ uomo spaventoso, il cui nome stesso veniva sussurrato con sgomento, seppe elargire ferocemente la morte a chiunque si mettesse sulla sua strada, tanto da trasformarsi in una leggenda nera ancor prima di trapassare, distinguendosi nettamente dagli altri potenti suoi contemporanei sebbene in quei giorni la crudeltà e la spietatezza fossero metodi comuni e accettati nella consueta gestione del potere, nell’ amministrazione della giustizia e nella conduzione della guerra al fine di terrorizzare il dissenso interno e i nemici esterni. Dracula entrò prepotentemente nella storia e nella leggenda come un mostro assetato di sangue, tanto che dopo quattrocento anni fu proprio lui ad ispirare il modello ideale del vampiro, e qualunque sia il metro con cui lo si valuti e il giudizio che si reputi più opportuno, oggi il ricordo storico e la leggenda, aumentata sia in quantità che in significato, sono uniti in un suggestivo amalgama concesso solo a pochi altri individui venuti sia prima che dopo di lui.
Celebre ritratto del voivòda Vlad III; 

Durante il Quattrocento, la situazione della Valacchia, uno dei tanti principati dell’ area balcanica, poggiava su equilibri estremamente precari, dal momento che si trovava in mezzo alle due maggiori potenze politiche e militari del tempo, ossia il Sacro Romano Impero, a nord, e l’ Impero ottomano, a sud, che da qualche tempo coltivava una decisa politica espansionistica nei Balcani. Il controllo definitivo degli Stati cuscinetto come la Valacchia era quindi qualcosa di fondamentale importanza strategica tanto per la cristianità quanto per l’ islamismo, e i signori locali che avevano a cuore prima di tutto la propria autonomia e incolumità personale dovevano necessariamente ricorrere ad una diplomazia costantemente mutevole, destreggiandosi tra le ruvide esigenze di potere di forze ben più potenti tra voltafaccia, alleanze instabili, tradimenti reciproci ed esibizioni di forza che sfociavano in atti di vero e proprio terrorismo.
Il principe Vlad nacque il 2 novembre 1431 nacque a Sighișoara, in Transilvania, figlio di Vlad Hagyak, capostipite dei Drăculeștii, e nipote di Mircea il Vecchio, voivòda di Valacchia che dedicò la propria vita alla difesa del principato dalle crescenti minacce espansionistiche degli ottomani, partecipando nel 1396 alla Crociata di Nicopoli ed estendendo la sovranità valacca fino alla Dobrugia, sul Mar Nero, dando alla signoria la sua massima espansione finché, sconfitto nel 1417 dal sultano Maometto I, terminò il proprio dominio come tributario indipendente di Costantinopoli. Il padre Vlad, invece, dall’ 8 febbraio 1431 era un membro dell’ Ordine del Drago, ordine militare del Sacro Romano Impero Germanico istituito dall’ imperatore Sigismondo di Lussemburgo per distruggere gli hussiti, appartenenti ad un movimento cristiano riformatore e rivoluzionario sorto da poco in Boemia per opera del teologo Jan Hus, e per rispondere alle crescenti minacce dell’ Impero ottomano: tale appartenenza gli valse il soprannome Dracul, dal termine romeno drac, traducibile sia come «drago» che come «diavolo», e dal suffisso ul, ossia «il», quindi esprimibile in «il Diavolo». Lo stretto legame tra il diavolo e il drago era ben noto nel simbolismo biblico, quindi risulta piuttosto bizzarro che un potente sovrano cristiano quale l’ imperatore del Sacro Romano Impero Germanico abbia potuto scegliere proprio tali entità come emblemi di un ordine votato alla difesa del Vangelo. Non si conosce l’ identità della madre di Vlad, per quanto si affermi che in quel tempo il padre, attorniato da una discreta cerchia di amanti, fosse sposato con la principessa Cneajna di Moldavia, figlia maggiore di Alessandro il Buono, principe di Moldavia e zia di Ștefan il Grande di Moldavia. Il giovane ebbe due fratellastri maggiori, Mircea e Vlad Călugărul, e un fratello minore, Radu il Bello.
La casa natale del principe Vlad, a Sighișoara;

Dotato di un lungo naso aquilino, una lunga e fluente capigliatura e foltissimi baffi neri, Vlad trascorse con Radu gli anni della propria educazione a Sighișoara, in Transilvania, dove il padre si era acquartierato per difendere il confine ungherese meridionale in ottemperanza agli ordini di Sigismondo, che lo sostenne nell’ ascesa al trono valacco nel 1431. Il Drago stette costantemente in agguato, osservando da vicino la situazione in Valacchia, godendo come governatore militare della provincia anche delle entrate di una zecca che coniava monete ungheresi. Ivi, Vlad e Radu impararono l’ arte del combattimento, la geografia, la matematica, le scienze, le arti classiche, la filosofia e numerose lingue quali lo slavo ecclesiastico antico, il tedesco, il latino e l’ ungherese. Uno dei principali precettori, perlopiù studiosi romeni o greci provenienti da Costantinopoli, fu un anziano di oltre settant’ anni che aveva combattuto tra le schiere crociate nella battaglia di Nicopoli, durante la quale era stato catturato dai vincitori ottomani che lo avevano venduto ai mercanti di schiavi genovesi, affrontando poi una serie di circostanze in cui  aveva lungamente viaggiato per le coste del Mediterraneo orientale e del Mar Nero, tornando infine in Valacchia dopo aver recuperato la libertà e tratto una vasta esperienza del mondo e appreso varie lingue.
Lo stemma di Vlad III;

Nel 1436, Vlad II, il cui potere poggiava su equilibri molto traballanti, nonostante l’ appartenenza all’ Ordine del Dragone stabilì la pace con il sultano Murad II, che in quel tempo era il sovrano più potente dei Balcani, accettando di recarsi ogni anno alla sua corte per versare un tributo e di guidare e scortare l’ esercito ottomano diretto contro gli ungheresi, facendo di tutto per non infrangere l’ accordo senza però apparire compromesso con gli infedeli maomettani agli occhi del Regno d’ Ungheria. Nel marzo del 1442 gli ottomani entrarono in Valacchia puntando sulla Transilvania. Dracul non si unì a loro, ma al tempo stesso non li contrastò, attenendosi ad una salda neutralità con la quale intendeva evitare problemi alla sua già precaria situazione: la campagna si concluse con una grande sconfitta presso la cittadina di Sibiu, quindi János Hunyadi, voivòda di Transilvania, inseguì il nemico in rotta fino in Valacchia, ove scalzò Vlad II in favore di Basarab II, della stirpe dei Dănești, che accettò la sovranità del Regno d’ Ungheria.
Vlad e i pochi boiardi a lui fedeli ripararono sul suolo ottomano in cerca dell’ appoggio di Murad, che però lo fece arrestare al termine di un banchetto, mandandolo a Gallipoli. In un secondo momento, però, il sultano comprese l’ importanza di un regnante valacco non allineato alla causa ungherese, per quanto infido, dunque nella primavera del 1443 liberò il prigioniero e lo rimise sul trono con il sostegno del suo esercito. L’ anno dopo, osservando i rigidi accordi presi con monarca musulmano, Dracul inviò come ostaggi alla corte levantina i figli Vlad e Radu, accompagnati dal consueto tributo annuale ed un certo numero di giovani destinati a rinnovare le schiere dei Giannizzeri, la guardia reale. Durante la prigionia, i due principi vennero educati all’ arte della guerra, alla logica e alla fede islamica. Vlad in particolare rimase colpito dal terribile supplizio dell’ impalamento, che gli ottomani comunemente infliggevano ai banditi: nella sua mente gli parve il castigo più indicato ai nemici, ai prigionieri e, in genere, a chiunque fosse degno di una punizione esemplare. La sua vita e quella del fratello rimase costantemente appesa a un filo: tre anni prima, ad esempio, i figli del despota di Serbia Đurađ Branković erano stati accecati con i ferri roventi perché sospettati di voler fuggire, ed essi stessi corsero il rischio di subirne la sorte quando János Hunyadi, dietro istanza del legato papale, il cardinale Giuliano Cesarini, costrinse la Valacchia a prendere parte alla crociata che stava conducendo contro la Sublime Porta, dopo aver infranto la pace appena raggiunta con il sultano. Dracul aveva dovuto unirsi all’ azione, ma per non compromettere in maniera irrimediabile i rapporti con gli ottomani aveva inviato solo quattromila uomini al comando dell’ erede Mircea, conservando forze sufficienti per fronteggiare una probabile sconfitta crociata, preannunciata dal ritiro di molti alleati della prima ora, e che ebbe luogo al termine della battaglia di Varna del 10 novembre 1444, che vide la morte del re di Polonia e d’ Ungheria, Ladislao III e del cardinale Cesarini. Mircea fu raggiunto da un messaggio di Murad, che gli intimava di ritirarsi per salvare la vita ai due fratelli tenuti in ostaggio: poiché la causa cristiana era ormai disperata, il sedicenne principe valacco abbandonò il campo salvando Vlad e Radu da una sorte orribile, i quali vennero risparmiati persino l’ anno successivo, quando lo stesso Mircea accompagnò il nobile borgognone Walerand de Wawrin e le sue otto galee lungo il Danubio allo scopo apprendere notizie certe sulla sorte del re e del religioso caduti in battaglia e di cui in Europa non si era saputo niente. Il sultano preferiva impiegare Vlad e Radu come pedine per le trattative future, o per insediare sul trono valacco un sovrano che assecondasse la sua politica. Vlad II firmò quindi un trattato con la Sublime Porta nel quale si confermavano i concetti degli accordi precedenti con l’ aggiunta di un obbligo di scacciare quattromila bulgari che si erano trasferiti in Valacchia nel 1445, in occasione della campagna borgognona. Grazie alla riconciliazione fra valacchi ed ottomani, la condizione dei due ostaggi si fece meno precaria, e molto probabilmente ad essi fu consentito di godere appieno degli agi e dello sfarzo della corte di Adrianopoli, un vero e proprio alveare di aristocratici, burocrati, servitori, eunuchi, concubine, giannizzeri, cuochi, assaggiatori e un’ infinità di altre figure.
In tale ambiente variopinto e suggestivo, il giovane Vlad imparò i segreti della politica e della guerra, sviluppando un grande acume ed intuito che, in futuro, gli avrebbero permesso di cavarsela nei frangenti più drammatici. Acquisì una profonda conoscenza della lingua turca e conobbe il principe Maometto, erede al trono ottomano: pressappoco coetanei, i due vissero insieme molte esperienze, dalle lezioni impartite dai precettori e dai pedagoghi ai rapporti con le avvenenti cortigiane che abbondavano tra le opulente mura di palazzo. Molto intenso fu anche il rapporto fra Maometto e Radu: secondo il cronista bizantino Calcondila, il valacco fu tenacemente importunato dal principe ereditario ottomano, al punto che per difendersi sarebbe arrivato a ferirgli una coscia con un coltello, mentre in seguito avrebbe assunto una condotta assai più accondiscendente, divenendo il suo favorito.
L’ emblema del Dragone;

Il 5 giugno 1446, János Hunyadi venne nominato reggente d’ Ungheria, in attesa che il legittimo sovrano, Ladislao Postumo, raggiungesse la maggiore età. Si era fatta l’ ora di regolare i conti con i valacchi, in virtù dei continui voltafaccia e delle umiliazioni che erano state inflitte sia da Dracul che dal suo erede Mircea, all’ indomani della sconfitta di Varna: durante il consiglio di guerra successivo alla battaglia infatti, si era visto addossare la colpa della rovinosa sconfitta subita dai crociati. Mircea aveva addirittura proposto che fosse condannato mentre ancora si trovava in balia dei valacchi, in quanto il suo esercito era stato quasi completamente sterminato dagli ottomani. Alla fine, tuttavia, Hunyadi era riuscito a tornare in Transilvania, salvato probabilmente dalla sua fama, dalle sue benemerenze nei confronti della cristianità e dai timori di una vendetta ungherese, ma si pensa che la goccia che fece traboccare il vaso fosse legata a dispute di natura monetaria, fra Ungheria e Valacchia, allineate sul medesimo corso valutario.
Nel novembre 1447, János Hunyadi condusse pertanto una spedizione punitiva atta a disfarsi di Vlad II, che venne sbaragliato in una battaglia nei pressi di un luogo imprecisato a sud di Târgoviște. Riuscì a scappare, ma venne raggiunto nelle paludi di Bălțeni, presso Bucarest, probabilmente in fuga verso i domini musulmani, dai fedeli di Vladislav, rampollo della stirpe dei Dănești, sostenuta dagli ungheresi, che lo decapitarono. Mircea, catturato durante lo scontro, fu accecato e sepolto vivo a Târgoviște. In considerazione della piega che gli eventi stavano prendendo, gli ottomani liberarono il giovane Vlad e lo rimandarono in patria alla testa di un grande esercito: negli ultimi giorni dell’ ottobre 1448, il principe varcò il Danubio e sottrasse il trono valacco al nuovo voivòda Vladislav, recatosi contro gli ottomani in Kosovo per volere degli ungheresi, e insediandosi come Vlad III nel corso di una cerimonia che si tenne in una Târgoviște completamente spoglia. Soprannominato Dracula, ossia «figlio del Drago», adottò da subito una serie di provvedimenti astuti ma decisi con i quali rafforzò la propria posizione, preferendo rimandare ad un secondo momento ogni vendetta contro i boiardi che avevano provocato la caduta di suo padre e di suo fratello, così da non aprire scontri e ritorsioni per lui impossibili da fronteggiare convenientemente.
Dracula pranza tra gli impalati;

Dopo appena due mesi di regno, il voivòda affrontò nuovamente Vladislav II, che lo rovesciò dal trono costringendolo alla fuga. Il Figlio del Drago si rifugiò in Moldavia, alla corte di Alexăndrel II, nipote della sua matrigna, che pochi mesi dopo venne a sua volta spodestato da Bogdan II, il quale confermò l’ ospitalità nei confronti del valacco diciassettenne, contribuendo a rieducarlo al Cristianesimo. Vlad strinse peraltro un forte legame con il principe Ștefan, l’ erede di Bogdan, che nel 1451 venne ucciso da uno zio, Petru III. Ștefan dovette quindi rifugiarsi presso l’ alleato János Hunyadi, mentre Dracula ripiegò in Transilvania: dopo un breve ritorno in Moldavia, concomitante con la riconquista del trono da parte di Alexăndrel II, si recò in Ungheria ove János Hunyadi rimase impressionato dalla sua vasta conoscenza dell’ Impero ottomano quanto dalla sua avversione per il nuovo sultano, Maometto II: i due si riconciliarono, tanto che Vlad divenne consigliere del reggente ungherese, imparando l’ arte della guerra e della guerriglia, compiendo incursioni in territorio musulmano e combattendo sul campo quei potentati cristiani in guerra con il potente regno ungherese. Alla corte di Buda, il giovane valacco e l’ amico Ștefan ebbero inoltre modo di conoscere Mattia Corvino, figlio di János Hunyadi. Con la caduta di Costantinopoli nelle mani di Maometto II nel 1453, l’ influenza ottomana prese a propagarsi fortemente nei Carpazi, minacciando l’ Europa continentale, tanto che nel 1481 i maomettani riuscirono a conquistare l’ intera penisola balcanica.
Vlad combatté al fianco degli ungheresi ed ottenne in premio la restituzione alla corona valacca delle cittadelle di Almaș e Făgăraș, sulle falde dei Carpazi meridionali, tra la nativa Sighișoara e l’ importante centro commerciale sassone di Brașov. Nell’ estate del 1456, con la battaglia di Belgrado, l’ esercito d’ Ungheria fermò l’ avanzata ottomana, ma János Hunyadi morì poco dopo di peste. Mentre Maometto II si concentrava sull’ Ungheria, Dracula fece ritorno in Valacchia, riconquistandola e battendo Vladislav II in combattimento: secondo la leggenda, uccise il rivale in duello il 20 agosto 1456 presso Târgșor, ma pare più probabile che Vladislav fu tradito e ucciso dai suoi stessi boiari.
Subito dopo, ancora assetato di vendetta verso i nobili del suo Paese, che avevano congiurato con János Hunyadi per spodestare e assassinare suo padre e il fratello maggiore Mircea, seppellendolo vivo, Vlad colse finalmente l’ occasione lungamente attesa fingendo di voler offrire la pace, invitando i nobili ad un grande banchetto durante il quale domandò ai convenuti quanti regnanti valacchi riuscissero a ricordare. Nessuno tra loro fu in grado di nominarne più di sette, e a quel punto il voivòda ordinò alle guardie di arrestarli insieme a tutti i membri delle rispettive famiglie, incluse le donne, i vecchi e i bambini: i più deboli e anziani, circa cinquecento, furono impalati senza indugio, mentre gli altri, quelli più giovani e forti, furono ridotti in schiavitù e costretti a ristrutturare a ritmi massacranti il diroccato forte di Poenari, che divenne poi il suo quartier generale. I lavori durarono mesi, e la maggioranza dei prigionieri morì di fatica e stenti, mentre coloro che furono abbastanza forti da sopravvivere vennero impalati al termine dei lavori.
Maometto II, sultano ottomano;

Quando molti boiardi fedeli a Vladislav II fuggirono in Transilvania per unirsi ad un nuovo nemico, il principe Dan del casato dei Dănești, il Figlio del Drago venne incoronato dal metropolita valacco nella chiesa di Curtea de Argeș, fatta erigere da suo padre. Bisognoso di aiuti contro gli ottomani, strinse relazioni stabili con i vicini e prestò giuramento di fedeltà alla Corona ungherese, ormai nelle mani di Ladislao il Postumo, assicurando privilegi ai mercanti sassoni residenti e attivi sul suolo valacco. Nel 1457 appoggiò le pretese al trono moldavo di Ștefan, che sconfisse e mise in fuga l’ usurpatore Petru, ma il voivòda non era ancora abbastanza forte per contrastare apertamente il sultano, pertanto all’ inizio dovette pagare il tributo stabilito dagli accordi presi dal padre con Murad II, presentandosi annualmente alla Sublime Porta per il formale omaggio e, nel 1458, permettendo il transito delle forze ottomane che attaccarono gli ungheresi alla rocca di Turnu Severin.
Nel 1459, dovendo rafforzare la propria posizione, Dracula contrastò i ricchi mercanti sassoni ai quali però andava in quel momento la simpatia del nuovo sovrano ungherese, Mattia Corvino, rappacificatosi con l’ imperatore Federico III. Nel frattempo, Vlad sedava il malcontento dei suoi boiari con il pugno di ferro, ordinando il cosiddetto massacro della Pasqua di Sangue a Târgoviște, poi costrinse il principe Dan alla fuga, dopo aver devastato i sobborghi di Brașov impalando diversi suoi seguaci sulla collina di Timpa. Un anno dopo, Dan conquistò le fortezze di Brașov e Făgăraș, ma Dracula lo sconfisse mortalmente sul campo di Rucăr, dandosi poi liberamente al massacro dei suoi sostenitori, evitando però di non toccare i mercanti sassoni e negoziando un accordo ostile agli ottomani con Mattia Corvino. Bisognoso di uno stabile confine meridionale mentre negoziava un’ alleanza contro gli austriaci con Giorgio di Poděbrady, sovrano del Regno di Boemia, Mattia accettò le offerte valacche e promise al voivòda in sposa una giovane del proprio casato, ossia la cugina Ilona Szilágyi.
Busto di Dracula a Târgoviște;

La figura del Figlio del Drago divenne rapidamente famosa non soltanto per il suo ampio e articolato impegno diplomatico e militare, ma anche per la sua attività di governante e la severità delle sue sentenze. Correva voce che disdegnasse fortemente la disonestà, e che quindi punisse implacabilmente con la morte sul palo chiunque si macchiasse di furto, frode o spergiuro entro i confini del suo potentato. Nella piazza principale di Târgoviște, ad esempio, vi era una fontana che dispensava ai viaggiatori assetati le acque dolci e fresche di una fonte, presso cui Vlad aveva fatto collocare sul bordo una meravigliosa coppa d’ oro finemente cesellata, a disposizione di chiunque volesse dissetarsi. Era talmente temuto per la severità e inflessibilità che nessuno osò mai rubare la coppa, dando ai viandanti l’ occasione di trovare ristoro e riflettere sui metodi governo del loro signore. In un’ altra occasione si disse che a Târgoviște giunse un mercante, tornato da un conveniente giro di affari, che pernottò alla locanda: conoscendo la severità con cui Dracula trattava i ladri non si preoccupò di riporre al sicuro il forziere, lasciandolo incustodito sul suo carro durante la notte. La mattina dopo si accorse tuttavia che gli mancavano ben centosessanta ducati d’ oro. Si recò da Vlad in persona, che lo tranquillizzò assicurandogli che il denaro rubato gli sarebbe stato restituito entro un giorno, e che il colpevole sarebbe stato punito duramente. Il voivòda ordinò che una borsa con centosessanta ducati tratti dal suo tesoro personale fosse collocata nel carro del derubato, che volle mettere alla prova aggiungendo alla somma mancante una moneta in più. Nel frattempo fece spargere la voce che il ladro doveva consegnarsi entro il tempo che aveva indicato, altrimenti l’ intera città sarebbe stata messa a ferro e fuoco. La mattina dopo, il mercante trovò nel carro la borsa con il denaro, che contò più e più volte, notando la moneta in più: tornò a corte, ove incontrò il regnante in compagnia del ladro, scovato e pronto a subire l’ infame supplizio. Il mercante lo ringraziò per la prontezza con cui era aveva risolto il suo caso, e dichiarò che nella somma restituita vi era un ducato in più. Dracula si compiacque e lodò la sua onestà, dicendo che in caso contrario lo avrebbe fatto impalare al fianco del ladro.
In quel tempo la Valacchia si ritrovava in condizioni pietose: la costante guerra aveva portato una dilagante delinquenza e un grande calo della produzione agricola, nonché la scomparsa del commercio. Vlad III dovette ricorrere a misure draconiane per ristabilire ordine e prosperità, imponendo tre obiettivi al suo principato: il rinforzo dell’ economia, della difesa e del peso politico. Sostenne il benessere dei contadini con la costruzione di nuovi villaggi e incrementando la produzione agricola, e comprendendo l’ importanza del commercio per lo sviluppo valacco aiutò i mercanti limitando il commercio estero. Vedendo nei boiardi la causa principale dei costanti conflitti e delle mortali cospirazioni di palazzo che avevano ripetutamente portato ad un’ infinita alternanza di voivòda, il Figlio del Drago scelse come consiglieri alcuni dignitari stranieri fidati, e rinforzò l’ esercito istituendo una milizia formata da contadini chiamati a combattere ogni volta che scoppiava una guerra e dando vita ad una piccola guardia personale composta da mercenari che venivano premiati con bottini e promozioni. Dal momento che la nobiltà si alleò con i sassoni transilvani, il principe si mosse contro di loro eliminando i loro privilegi commerciali e razziandone i castelli. Nel 1459 fece impalare diversi coloni sassoni di Brașov, innalzando vere e proprie foreste di impalati che poi lasciò putrefare all’ aria aperta. Costruì una chiesa a Târgșor, presumibilmente in memoria di suo padre e di suo fratello maggiore che sono stati uccisi nelle vicinanze, e con il proprio patrimonio personale volle il Monastero di Snagov.
Si racconta che un giorno Dracula stesse banchettando di buon appetito in mezzo ad un gruppo di condannati che aveva fatto impalare quando ricevette la visita di un nobile che doveva discutere con lui una certa questione. Lo fece sedere alla sua tavola, ma vide che il suo denotava forti segni di disagio. Gli chiese che cosa lo turbasse, e il nobile rispose che non riusciva a sopportare il fetore dei corpi dei suppliziati: Vlad ordinò alle guardie di impalarlo all’ istante su un palo lungo il doppio degli altri, schernendo lo sventurato dicendo che in tal modo il loro odore non lo avrebbe più disturbato.
Più o meno in quel periodo giunsero a corte due monaci impegnati in un pellegrinaggio in vari monasteri valacchi. Il voivòda li accolse affabilmente, li invitò a pranzo e fece loro visitare il palazzo, concludendo la visita con un passaggio per la corte di giustizia, ove una dozzina di condannati agonizzavano sui pali. Domandò ai due che cosa pensassero di quella macabra vista: il primo rispose che Dio lo aveva posto sul trono con il potere di decidere della vita e della morte dei sudditi, e che stava semplicemente esercitando tale facoltà, mentre il secondo affermò che si trattava di uno spettacolo orribile, e che qualunque colpa i condannati avessero commesso, il modo atroce e inumano con cui li aveva messi a morte li rendeva martiri. Dracula fece impalare uno dei due monaci, ma purtroppo non si sa quale dei due: secondo le fonti romene volle giustiziare il monaco adulatore per punirlo della sua vigliaccheria, ricompensando il monaco pietoso, che lodò per aver parlato apertamente e con sincerità, mentre le fonti germaniche sostengono ricompensò il monaco adulatore facendo impalare l’ altro, dicendogli che se la pensava in quel modo non gli sarebbe dispiaciuto diventare egli stesso un martire.
Vlad III riceve gli ambasciatori ottomani;

Nel 1459, durante il Concilio di Mantova, papa Pio II volle una nuova crociata contro gli ottomani, concedendo a Mattia Corvino, figlio di János Hunyadi, il ruolo di condottiero e dandogli quarantamila monete d’ oro, con cui assoldò un esercito di dodicimila uomini e acquistò una flotta di dieci navi da guerra. Vlad si alleò con gli ungheresi, volendo tenere i musulmani fuori dalla Valacchia che rivendicavano come parte del loro impero. Maometto II gli inviò una delegazione per sollecitarlo a pagare il tributo di diecimila ducati e cinquecento reclute per le sue forze, ma questi rifiutò fermamente perché pagare il tributo sarebbe stato sinonimo di pubblica sottomissione della Valacchia, e fece uccidere i messaggeri usando come pretesto il fatto che, in tono con la fede maomettana, non si tolsero il turbante nell’ omaggiarlo: la punizione di Dracula ad una simile mancanza di rispetto fu l’ inchiodare alla loro testa i turbanti. Frattanto, il sultano ricevette i rapporti dei vari informatori, secondo cui il dominio di Vlad si estendeva fino al Danubio, quindi inviò il Bey di Nicopoli, Hamza Pasha, per trattare la pace e, se fosse stato necessario, ucciderlo: per scongiurare questa possibilità, Vlad pianificò un agguato ai danni di Hamza Pasha, che venne attaccato in uno stretto passaggio a nord di Giurgiu, insieme ai suoi mille cavalieri. In breve tempo i miliziani valacchi circondarono e sconfissero gli ottomani, che furono tutti impalati: Hamza Pasha fu issato più in alto degli altri per via del suo alto rango. La notizia si diffuse rapidamente in territorio ottomano, e valse al regnante valacco il soprannome Kaziglu Bey, ossia «principe impalatore».
Nell’ inverno del 1462, il Figlio del Drago attraversò il Danubio e devastò tutto il territorio bulgaro nella zona tra la Serbia e il Mar Nero. Travestendosi da Spahi, soldato della cavalleria pesante ottomana, e ricorrendo alla sua fluente lingua turca, che aveva imparato quando era ostaggio, riuscì ad infiltrarsi e a distruggere i campi ottomani. Come scrisse di suo pugno in una lettera che inviò a Mattia Corvino:
«Ho ucciso contadini, donne, vecchi e giovani che vivevano a Oblucitza e Novoselo, dove il Danubio sfocia nel mare, fino a Rahova, che si trova vicino a Chilia, dal basso Danubio fino a luoghi come Samovit e Ghighen. Abbiamo ucciso ventitrémilaottocentoottantaquattro ottomani, senza contare quelli che sono stati bruciati vivi nelle loro case o quelli le cui teste sono state tagliate dai nostri ufficiali. Così, vostra altezza, deve essere noto che io ho rotto la pace con Maometto II.».
In quei giorni un nobile polacco si presentò alla corte del voivòda con un messaggio di Mattia Corvino. Volendo metterlo alla prova, Vlad lo invitò alla sua tavola. L’ ospite rabbrividì alla vista di un palo di legno poco distante, la cui punta era stata rivestita di una lamina d’ oro. Dopo aver pranzato discutendo di guerra e politica, Dracula domandò amabilmente all’ ambasciatore che cosa pensasse di quell’ oggetto sinistro. Intimorito, il delegato rispose che doveva evidentemente trattarsi dello strumento per il supplizio di un colpevole di alto rango, che in qualche modo aveva fatto una cosa sgradita al principe, che confermò di averlo preparato per lui e chiedendo che cosa ne pensasse. Disperato, il polacco rispose che tutti sapevano che era un regnante crudele ma giusto, quindi se aveva deciso di farlo morire se ne sarebbe assunto la responsabilità perché sicuramente aveva commesso un errore. Vlad scoppiò a ridere, e rispose che aveva affermato la sola cosa sensata. Se ne compiacque, e si congratulò per le sue doti diplomatiche, congedandolo con la sua benedizione e colmandolo di ricchi doni.
La Battaglia delle Torce;

Nel 1642 il sultano mosse un esercito di circa ottantamila uomini e trentamila irregolari, e dirigendosi verso la Valacchia. Vlad non fu in grado di impedire agli ottomani di attraversare il Danubio e di sconfinare nel suo regno, quindi organizzò piccoli attacchi ed imboscate contro di loro, come la famosa Battaglia delle Torce, in cui quindicimila soldati ottomani vennero uccisi durante un attacco notturno di diecimila valacchi, facendo infuriare Maometto II, che attraversò il Danubio per comandare personalmente il proprio esercito. Questa mossa non gli fu di aiuto, infatti gli ottomani furono pesantemente battuti e si ritirarono ad Adrianopoli. La vittoria dell’ Impalatore venne celebrata molto vivamente dalle città sassoni della Transilvania, dagli Stati italiani e dal papato, ma gli ottomani non si diedero per vinti, e ricorsero a Radu, fratello di Dracula, che mandarono a Târgoviște con l’ incarico di organizzare una resistenza capace di spodestare il fratello in cambio del trono. Il principe filo ottomano e i suoi battaglioni di giannizzeri, ben forniti di denaro e polvere da sparo, conquistarono il forte di Poenari, con il sostegno dei boiardi locali e dell’ aristocrazia valacca che si era vista ridurre molti poteri e privilegi.
Pur sconfitto dal fratello, confermato come Bey di Valacchia, il Figlio del Drago, continuò a combattere fino all’ 8 settembre 1462: si ricordano almeno tre battaglie da lui vinte prima di ritirarsi in Ungheria, quando ormai era privo di fondi con cui pagare i propri mercenari. Le cronache riferiscono che in un’ occasione gli ottomani si ritirarono in preda allo sgomento quando, entrati in una valle, si trovarono di fronte a ciò che restava di un convoglio di milizie e salmerie che i valacchi avevano sorpreso e distrutto: una vera e propria foresta di impalati nella quale migliaia di corpi ormai putrefatti ammorbavano l’ aria per chilometri, innalzati a mezz’ aria sui legni che li trafiggevano. Il voivòda aveva fatto impalare non solo i soldati, ma anche le donne e i bambini, e perfino ogni cane che avesse avuto la disgrazia di accompagnare lo sventurato convoglio di rifornimenti. Giunto alla corte di Mattia Corvino, Vlad, alla ricerca di aiuto presso il suo ex alleato, ricevette un netto rifiuto e venne incarcerato per alto tradimento, in quanto gli ungheresi non avevano l’ intenzione di farsi coinvolgere in un conflitto con il potente Impero ottomano.
L’ Impalatore venne inizialmente imprigionato nella fortezza di Oratea, nell’ odierno villaggio di Dâmbovicioara, poi trascorse un periodo di detenzione a Visegrád ed infine a Buda. Non sa esattamente quanto sia la sua prigionia, ma pare che si prolungò per ben dodici anni, dal 1462 al 1474, quando venne infine liberato per volere di Mattia Corvino per contrastate la politica a beneficio della Sublime Porta condotta da Radu, peraltro convinto dall’ intervento di Ștefan III di Moldavia, parente dello stesso Vlad.
Impalamento dei prigionieri ottomani;

Alla morte improvvisa morte di Radu per malattia nel 1475, Dracula, ormai quarantacinquenne, avviò i preparativi per la riconquista della Valacchia con il pieno supporto ungherese, tornando al potere per la terza volta il 26 novembre 1476, ma questa volta il suo dominio si basava su un terreno estremamente precario, e infatti durò poco meno di due mesi, al termine dei quali venne assassinato in circostanze mai accertate: per alcuni fu tradito da alcuni cavalieri del suo seguito, prezzolati dal sultano oppure timorosi della sua atroce vendetta, per altri venne scambiato per un ottomano e colpito per sbaglio durante una battaglia, mentre secondo voci alternative fu proprio l’ esercito musulmano a sopprimerlo e a inviare a Costantinopoli la sua testa mozzata e la sua spada come trofeo. Si disse persino che, più semplicemente, era venuto a mancare per il morso di un pipistrello. Persino la data e il luogo della sua morte non sono mai stati confermati, ma la maggior parte delle fonti la collocano nel dicembre 1476 lungo la strada da Bucarest a Giurgiu.
Nondimeno, il mistero si estese ben presto anche sul luogo della sua sepoltura: sembra infatti che il rivale Basarab Laiota lo seppellì senza cerimonie nel monastero di Comana, di cui Vlad stesso era stato il fondatore nel 1461, ma che poi venne demolito e infine ricostruito nel 1589, mentre a partire dall’ Ottocento si disse che la tomba si trovava al monastero di Snagov, su di un’ isola al centro di un lago a trentacinque chilometri a nord di Bucarest, ove ogni giorno i monaci reciterebbero intense preghiere per la sua anima, in modo da darle la pace e facendola restare nell’ Aldilà, tuttavia alcune analisi archeologiche condotte nel 1933 accertarono che la tomba era vuota, e scoprirono una seconda tomba in cui si rinvenne un corpo con indosso abiti sontuosi ed un anello con il simbolo del Dragone, che per via della presenza della testa si escluse che si trattasse delle spoglie di Dracula. Secondo alcuni studiosi è probabile che il corpo dell’ Impalatore venne semplicemente bruciato, mentre secondo altri fu smembrato dagli ottomani sul campo di battaglia oppure sul suolo del loro Impero.
Il conte Dracula, principe dei vampiri;

La leggenda di questo risoluto principe, morto combattendo così come era sempre vissuto, non poteva ovviamente disperdersi con la sua morte terrena, anzi pareva destinata persino a crescere.
In Valacchia, il ricordo di Dracula venne meno già durante il Cinquecento, con pochi cronisti che lo nominarono appena, confermando la costruzione del forte di Poenari ma omettendo le sue efferatezze e le sue gesta, in pratica confondendolo spesso e volentieri con altri voivòdi quattrocenteschi. Oltre il confine valacco, invece, la figura dell’ Impalatore acquisì un maggiore rilievo, sebbene soggetto ad una divulgazione piuttosto ostile, apparendo sulla scena letteraria nel 1463, quando Mattia Corvino d’ Ungheria fece circolare presso la corte del suo alleato e avversario, l’ imperatore Federico III d’Asburgo, un opuscolo intitolato «Storia del Voivoda Dracula», successivamente messo in scena a corte. Nel mondo germanico, la propaganda riguardante il Figlio del Drago venne modellata con il chiaro intento di distruggere la sua credibilità morale e politica, adulterata spesso da evidenti esagerazioni, che parlavano di un principe mosso da una furiosa rabbia assassina rivolta al mondo intero, senza alcuna logica o riflessione, un tiranno crudele e selvaggio salvato solo dalla sua comprovata fede cristiana. La divulgazione che ebbe luogo nell’ Impero russo subì una certa influenza da parte di quella germanica, con l’ aggiunta di svariati elementi popolari, e indicò fermamente Vlad III come un personaggio positivo, un governante grande e giusto, un valoroso guerriero le cui atrocità, come i turbanti inchiodati alla testa degli ambasciatori del sultano, furono un semplice prezzo da pagare per la sopravvivenza, azioni motivate dal disperato bisogno di garantire una durevole stabilità ad una Valacchia costantemente sull’ orlo del baratro.
Nel 1804, mentre aveva luogo un forte risveglio indipendentista delle popolazioni locali contro ottomani ed austriaci, in Romania, l’ antica Valacchia, la figura di Dracula riemerse dalle ombre del tempo. Animato da un movente fortemente politico, il ricordo popolare dell’ antico voivòda omise l’ orrore per le sue atrocità in favore dell’ ammirazione per le sue virtù cavalleresche, il suo spirito di libertà e le coraggiose gesta compiute in difesa della sua terra contro i perfidi infedeli. Le crudeltà di cui si era macchiato vennero giustificate dal fatto che la natura stessa della guerra era crudele, e la compassione era una debolezza che il nemico non ricambiava: la paura che gli ottomani incutevano andava combattuta con altra paura, e con la forza. Vlad III era stato un sovrano certamente severo, ma la sua ira terrifica si era sempre scagliata contro coloro che osavano mentire o maltrattare la povera gente. Gli stessi sassoni, vittime abituali delle sue persecuzioni, convennero innocentemente con tale versione dei fatti, ammettendo nel manoscritto di San Gallo che quando qualcuno rubava, mentiva o si macchiava di qualsiasi ingiustizia in terra valacca non aveva nessuna possibilità di salvarsi dall’ ira del regnante, che non badava affatto allo stato sociale del colpevole, nobile, sacerdote o comune che fosse, contribuendo a rinforzare il mito del patriota temerario, del savio governante e del principe esemplare votato alla tutela dell’ indipendenza, dell’ ordine e della rettitudine del suo potentato, nonché alla laboriosità degli stessi sudditi. Ne venne fuori un eroe nazionale, spontaneamente disposto a insudiciarsi le mani di sangue e fango pur di difendere l’ integrità della sua terra.
Bram Stoker intorno al 1890;

Poco tempo dopo, l’ 8 novembre 1847, a Clontarf, un villaggio costiero vicino a Dublino, nacque un bambino, Abraham Stoker, detto Bram, che fino all’ età di otto anni fu incapace di alzarsi in piedi a causa di uno stato di salute fortemente precario. Visse un’ infanzia estremamente difficile, e i disagi patiti influirono moltissimo sulla sua fantasia e creatività, che assunsero tinte tetre e nebulose. La sua guarigione apparve miracolosa ai medici che lo avevano in cura, e da quel momento in poi condusse una vita normale, riuscendo addirittura ad eccellere nelle specialità sportive durante gli anni trascorsi all’ Università di Dublino, ove si laureò a pieni voti in matematica.
Grande appassionato di storia e letteratura, a ventinove anni strinse amicizia con l’ attore Henry Irving, uno dei più discussi artisti del suo tempo, e nel 1878 si trasferì a Londra, ove divenne segretario, impresario e poi direttore del Lyceum Theatre. Grande viaggiatore, animato da un incubo avuto in una notte del marzo 1890, e ispirato dalla figura Irving, Stoker venne a conoscenza del sanguinario Vlad III dal dotto Arminius Vambery, professore di Tradizioni slave all’ Università di Budapest, e negli anni seguenti lavorò instancabilmente ad una storia dalle atmosfere cupe, in cui l’ orrore e la minaccia avrebbero assillato i protagonisti in un crescendo di emozioni che li avrebbero condotti alla scoperta del raccapriccio incarnato dal tetro vampiro. L’ idea iniziale dell’ artista irlandese consisteva in uno spettacolo teatrale su Dracula con protagonista l’ amico Irving, che non ne fu entusiasta, dunque la storia divenne un romanzo, un racconto eccezionalmente erotico, orale e febbrile che alla sua pubblicazione nel 1897 consacrò in modo nuovo e affascinante la leggenda del principe orientale facendone un potente simbolo del legame tra Dio e l’ umanità: se il Signore è sacralmente legato a uomini e donne, essi tuttavia possono rinunciare al proprio rapporto con lui sfigurando il proprio spirito.
Il successo del romanzo fu notevole, e si impose presto come un grande fenomeno culturale. Con l’ imposizione della radio e soprattutto del cinema, le continue incarnazioni e reinterpretazioni di Dracula toccarono infiniti ambiti sempre attuali e affascinanti. Molti attori impersonarono il personaggio, da Bela Lugosi a Christopher Lee, da Frank Langella a Gary Oldman, in una vasta produzione che attualmente supera i duecento film. L’ inquietante figura del vampiro venne ripreso anche in alcune parodie, come la canzone del 1959 «Dracula Cha Cha Cha», firmata dal cantante, compositore e pianista Bruno Martino, il cartone animato britannico «Conte Dacula», realizzato tra il 1988 e il 1993, e il film «Dracula morto e contento», del 1995, con Leslie Nielsen e Mel Brooks.
La presunta tomba di Dracula, a Snagov;

Vlad III di Valacchia, il Figlio del Drago, l’ Impalatore, nato il 2 novembre, Giorno dei Morti, e coetaneo di Rodrigo Borgia, ovvero Alessandro VI, pontefice il cui nome venne ricordato come sinonimo di intrighi, corruzione, libertinismo e nepotismo, fu un individuo multiforme in accordo ai molti titoli con cui è tuttora ricordato: cavaliere dedito alla difesa della Cristianità, eroe carismatico per il suo popolo, mostro assetato di sangue. Come personaggio letterario divenne infine sinonimo dello straniero tenebroso, misterioso e pericoloso che giunge di notte sotto forma di forza eccitante e selvaggia, incontrollabile, che si traduce invariabilmente in sangue, morsi, tenebre, ignoto, ossessione, dominio, personificando qualcosa di attraente nella sua inquietante pericolosità. Come pochi altri individui, raggiunse l’ immortalità ottenendo un posto privilegiato nel vasto e variegato panorama della leggenda, assumendo un che di affascinante e insieme di sinistro, di romantico, conformando costantemente e con l’ abilità di un camaleonte la propria immagine ai tempi e agli innumerevoli contesti culturali di questo mondo fluttuante e in continua in evoluzione. Ad oltre cinquecento anni dalla sua esistenza continua fermamente ad affascinare la gente oltre ogni misura, essendo stato capace come a pochi altri fu possibile prima e dopo di lui sia come personaggio storico che leggendario di incarnare il lato oscuro della natura umana. I luoghi della sua vita rappresentano un’ interessante attrattiva turistica, al pari della sua casa natale, oggi in parte adibita a ristorante, del forte di Poenari, abbandonato alla sua morte, e di quello di Bran, in Transilvania, che pur non essendo stato sua residenza venne scelto come ambientazione del celebre romanzo di Stoker.
Persino il dittatore Nicolae Ceaușescu, ultimo Presidente della Repubblica Socialista di Romania, tentò di sfruttare a piene mani la sua popolarità, non mancando mai di ostentare un certo coinvolgimento emotivo in tutto ciò che la figura di Vlad-Dracula rappresentava, arrivando a scegliere il lago di Snagov come propria residenza estiva. Per ironia della sorte, esattamente come l’ antico voivòda non morì serenamente nel proprio letto…

mercoledì 10 ottobre 2018

La leggenda di Fiorello La Guardia, l’ italoamericano nemico della corruzione e della criminalità

Fiorello La Guardia;


Viviamo da sempre in un mondo pieno di paura, rabbia, odio e intolleranza. L’ umanità teme da sempre quello che non riesce a capire e ciò che è diverso, alimentando conseguentemente il veleno del razzismo e del classismo, che da un tempo infinito creano barriere tra le persone, destinate a manifestarsi invariabilmente in attacchi e violenze nei confronti di migranti, richiedenti asilo, rifugiati e in atti di oppressione a danno delle classi più povere e indifese, al punto che per loro l’ anonimato finisce con il costituire la principale difesa contro l’ ostilità del mondo. In questi ultimi anni si è assistito ad un fenomeno migratorio senza precedenti, rappresentato da un’ infinità di sbarchi e dalla conseguente creazione di centri di accoglienza e campi per profughi in numerose aree molto diverse tra loro, su cui un po’ alla volta sono emersi dettagli non proprio edificanti che lo hanno tratteggiato come un grosso affare da parte di alcune correnti politiche connesse ad ambienti dell’ imprenditoria, delle istituzioni sociali e persino della malavita, in cui il lucro è fondamentale. A farne le spese sono sempre loro, i migranti e i diversi, in quanto soggetti più esposti di questo fenomeno che, indipendentemente dalla loro provenienza e dalle circostanze che li hanno portati in una nazione molto diversa dalla loro, vengono accusati dalla cittadinanza locale di essere una minaccia al grido di: «Stiamo subendo un’ invasione!».
Il pregiudizio contro i migranti è mosso da ragioni prettamente istintive, non ha nulla di logico e razionale, e nel corso della storia ha toccato tutte quante le popolazioni soggette al fenomeno dello spostamento. Persino gli italiani hanno subito la loro parte di ostilità da parte della cittadinanza maggioritaria dei Paesi in cui nel corso dei secoli si sono stabiliti, un fenomeno di discriminazione etnica definito come «antitalianismo» o «italofobia» e che si è manifestato soprattutto in nazioni come Francia, Svizzera, Austria, Germania, Belgio, Gran Bretagna, Svezia, Slovenia, Croazia, Canada e, soprattutto, Stati Uniti d’ America. Sul suolo statunitense in particolare, il sentimento antiitaliano fu dovuto principalmente alla massiccia immigrazione compresa tra il 1880 e il 1920 e alla nascita della Mafia italoamericana, dovuta alla fuga forzata di intere cosche dai luoghi di origine, ma anche ad avvenimenti politici e diplomatici, soprattutto di natura bellica e nazionalistiche. Contro gli italiani, così come contro gli afroamericani, gli ebrei e gli irlandesi, maturarono prontamente infiniti pregiudizi, finendo con il generare accuse di naturali tendenze a delinquere, che in realtà erano spesso dovute a condizioni di vita talmente precarie che alcuni di loro videro nella criminalità la sola occasione favorevole alla loro portata. Gli italoamericani erano vittime di un mito che afflisse anche i loro figli e nipoti, considerati tutti individui dalla mentalità abietta, persino fisicamente sporchi, particolare diffamazione che li portò sempre più a fare fronte comune, formando comunità chiuse, fiere e inviolabili, le Little Italy, precluse a qualsivoglia straniero e suddivise al proprio interno per provenienza ragionale, provinciale, comunale e persino estrazione sociale. In proposito, persino il Presidente Richard Nixon, durante la sua visita in Italia all’ inizio degli Anni Settanta, dichiarò apertamente che gli italiani non solo si comportavano in modo diverso dagli altri europei, ma avevano addirittura un odore differente.
Tuttavia, a dispetto di tale mito, secondo il quale italoamericano era uguale a delinquente, le statistiche mostrarono con chiarezza che pur considerando gli stenti patiti dalle prime generazioni di migranti, questa particolare minoranza etnica fu colpevole di ben poche violazioni, in quanto accettava con rassegnazione e dignità i mestieri particolarmente umili che venivano concesse ai propri esponenti, peraltro in cambio di miserevoli compensi: nel 1910, ad esempio, quando rappresentavano l’ undici percento di tutta la popolazione di provenienza straniera, tra i giovani delinquenti e i detenuti non statunitensi gli italoamericani raggiungevano appena il sette percento, e nel 1919, secondo le indagini governative, tra la popolazione carceraria appartenente a diciassette diverse nazionalità straniere, raggiungevano un rapporto pari a dodici su centomila. Nel corso dei decenni, le comunità italiane furono seconde solo agli afroamericani per numero di violenze e linciaggi subiti. E’ comunque vero che la rassegnazione delle prime generazioni di migranti dall’ Italia non trovò spazio nella mente e nel cuore degli italiani più giovani, nati e cresciuti poveri nella nazione più ricca e potente al mondo, privi di tutte quelle opportunità economiche, sociali, scolastiche e professionali che invece erano alla portata degli statunitensi: a differenza di nonni e genitori non vollero chinare passivamente il capo, giungendo al punto di rifiutare i tradizionali valori famigliari, in tutta evidenza deboli e inadeguati alla sfida del Nuovo Mondo, senza però adottarne altri di comprovata efficacia, quindi una minoranza di loro riconobbe nella criminalità il sentiero più adatto per giungere ad una vita migliore, divenendo sicari, biscazzieri, spacciatori di droga, sfruttatori di prostituzione e manodopera, ricattatori, contrabbandieri di liquori. Fu proprio questa cerchia minoritaria di malviventi a gettare le basi del crimine organizzato italoamericano, dando vita ad una serie di organizzazioni molto ben strutturate ed efficienti, e sebbene gli indici di criminalità tra gli italoamericani non superarono mai la media tra le minoranze straniere, essa rafforzò il pregiudizio che gli italiani portavano con sé. E’ tuttora saldamente diffusa la convinzione secondo cui gli italoamericani siano delinquenti e controllati dal crimine organizzato, soprattutto a New York, dogma aizzato soprattutto dalla narrativa incentrata su Cosa Nostra e da celebri film ad essa ispirati quali «Il padrino» e «Quei bravi ragazzi»: secondo un sondaggio della Response Analysis Corporation, il settantaquattro percento della cittadinanza statunitense crede che la maggior parte degli italoamericani sia direttamente associata alla malavita, o che abbia avuto in passato rapporti con essa.
Ogni minoranza in terra straniera patisce i propri problemi di pregiudizio e inserimento, ma in ognuna di esse e in ogni tempo sorgono coloro che lottano contro questa visione abituale. Gli italoamericani ebbero molti grandi uomini che dedicarono con convinzione il proprio intervento al fine di migliorare le cose, e uno dei loro paladini più noti e influenti fu l’ indimenticabile Fiorello La Guardia, il primo sindaco italoamericano di New York, nato da padre foggiano e madre triestina, che durante i turbolenti Anni Trenta, nel pieno del Proibizionismo, al tempo di mafiosi leggendari come Lucky Luciano e Frank Costello, divenne assai popolare rimanendo in carica per ben tre mandati, fino al 1945, contribuendo personalmente a guidare gli Stati Uniti fuori della Grande Depressione, divenendo una solida figura dal peso nazionale. Un vero e proprio mito tuttora ricordato come «l’ italiano che ripulì la Grande Mela».

Fiorello Enrico La Guardia nacque l’ 11 dicembre 1882 nel Greenwich Village, quartiere di Manhattan, figlio di Achille, proveniente da Cerignola, in provincia di Foggia, di professione musicista, che nel 1885 divenne direttore della banda dell’ 11 U.S. Infantry, e di Irene Coen Luzzatto, ebrea italiana originaria di Trieste, nell’ Impero austro-ungarico. Il giovane seguì la famiglia nei vari luoghi dove il padre era inviato per ragioni di servizio: a Fort Sully, South Dakota, a Watertown, Stato di New York, e infine a Fort Whipple, in Arizona. Il padre gli impartì sin da piccolo una solida educazione musicale, e la madre gli trasmise la ricchissima tradizione poliglotta mitteleuropea, mentre sul piano religioso fu educato nella Chiesa episcopaliana, di cui rimase membro per tutta la vita. Parenti e amici lo chiamavano Little Flower, ossia «Piccolo Fiore», tanto per la sua bassa statura, essendo alto appena un metro e cinquantasette centimetri, che in riferimento al suo nome di nascita, di cui il soprannome era la traduzione. Durante l’ infanzia, peraltro, il suo secondo nome, Enrico, fu anglicizzato in Henry.

Nel 1898, a seguito della grave malattia di Achille, manifestatasi durante la guerra ispano-americana e che lo costrinse a congedarsi, i La Guardia si trasferono a Trieste, alloggiando presso la casa di famiglia di Irene, e a partire dal 1901 Fiorello trovò il suo primo lavoro presso i consolati statunitensi di Budapest, Trieste e Fiume: da quei luoghi provenivano molti migranti che si recavano negli Stati Uniti, quindi il giovane poté approfondire la padronanza delle svariate lingue apprese in famiglia, e quando nel 1906 tornò a New York, oltre all’ inglese parlava correntemente ben sette idiomi quali italiano, francese, tedesco, ungherese, croato, ebraico e yiddish, trovando lavoro come interprete per il Servizio Immigrazione a Ellis Island, il celebre e principale punto di ingresso per gli immigrati che sbarcavano nel Nuovo Mondo, studiando nel frattempo legge presso la New York University, qualificandosi con ottimi voti.
Aderente al Partito Repubblicano e dalle tendenze liberali e progressiste, nel 1910 iniziò ad esercitare la professione legale, mentre nel 1915 divenne Assistente Procuratore Generale di New York, e un anno dopo fu il primo italoamericano eletto al Congresso come rappresentante del Lower East Side di Manhattan per i repubblicani. Nel 1917, durante la Grande Guerra, si arruolò volontariamente nell’ American Expeditionary Force con il grado di tenente, divenendo poi il comandante dei piloti statunitensi addestrati e di stanza in Italia, arrivando al grado di maggiore: il 14 settembre 1918 volò con la 5ª Squadriglia bombardando l’ aeroporto di Pergine Valsugana, e insieme a Pietro Negrotto attraversò le linee nemiche devastando il reame asburgico. Il successo dell’ impresa fu ripreso ampiamente dai giornali, e La Guardia ricevette da parte di Vittorio Emanuele III un invito a un ricevimento, occasione in cui incontrò Gabriele D’ Annunzio. Suo importante compagno d’ armi fu il vecchio e caro amico Philip Bongiorno, giovane italoamericano di discendenza siciliana che come lui aveva intrapreso la professione di avvocato.
La Guardia al fronte durante la Grande Guerra;

Al termine del conflitto, Little Flower decise di tornare al Congresso, ove fu rieletto per cinque mandati consecutivi come rappresentante del collegio italiano ed ebraico di East Harlem, e nel corso della sua attività si distinse per l’ altissimo senso di giustizia e per la forza con cui sostenne la causa dei poveri. Criticò apertamente il Presidente Hoover per l’ incapacità di affrontare il crollo di Wall Street del 1929, per poi opporsi fermamente alla politica del Volstead Act, promosso dal deputato Andrew Volstead e che avviò l’ era del Proibizionismo con cui si introdusse il divieto di fabbricazione, importazione, vendita e consumo di bevande alcoliche sul suolo statunitense, allo scopo di moralizzare la società, finendo invece per favorire ampiamente la crescita di numerosi e vasti imperi mafiosi, fondati proprio sul contrabbando di bevande alcoliche.
L’ 8 marzo 1919 sposò Thea Almerigotti, nata in una famiglia di migranti istriani, da cui nel giugno 1920 ebbe una figlia, Fioretta Thea, che però nel maggio 1921 morì di meningite spinale. A tale tragedia si aggiunse la morte della stessa Thea, che nel novembre dello stesso anno venne a mancare a causa della tubercolosi. Rimasto solo, La Guardia passò un lungo e doloroso tormento emotivo, dal quale tuttavia seppe riprendersi trovando la consueta forza e determinazione che amici e colleghi politici da sempre apprezzavano in lui, tanto che la sera della vigilia di Natale del 1928, rimasto in ufficio fino a tarda sera, mentre dettava il testo di alcune lettere alla solerte segretaria Mary Fisher, che le batteva a macchina, ad un tratto si interruppe per domandarle se avesse cenato, e lei, senza neppure alzare la testa, rispose di essersi portata un panino. Lui allora la invitò a mangiare qualcosa fuori, e giunti sulla porta le annunciò di volerla licenziare. Addolorata e stupita, Mary ne domandò il motivo, e lui prontamente rispose: «Non vorrei mai che si dicesse in giro che ho sposato la mia segretaria.». Per lo stupore Mary non riuscì a rispondere nulla, ma pochi mesi dopo i due si sposarono e negli anni adottarono due bambini, Eric Henry, nato nel 1930, e Jean Marie, nata nel 1928 e figlia naturale della sorella di Thea.
La Guardia alla Casa Bianca, ricevuto da Roosevelt;

All’ inizio degli Anni Trenta, La Guardia scese in campo per la candidatura a sindaco di New York, confrontandosi con altri due influenti italoamericani: Generoso Pope, magnate dell’ imprenditoria e proprietario del quotidiano in lingua italiana Il Progresso Italo-Americano, e il vecchio amico Philip Bongiorno, che negli anni, oltre ad essersi imposto come valente avvocato, era divenuto presidente della potente associazione Sons of Italy in America, e il cui figlio, Mike, nato nel 1924, era suo figlioccio di battesimo. Battuti facilmente i due concorrenti in seno alla stessa corrente e appoggiato da una salda coalizione tra le forze repubblicane e quelle del Partito Americano del Lavoro, il 7 novembre 1933 ottenne un’ imponente maggioranza di voti vincendo le elezioni contro Tammany Hall, l’ organizzazione newyorkese collegata al Partito Democratico, che da decenni controllava la vita politica della città, venendo spesso accusata di corruzione. Primo sindaco italoamericano della grande metropoli, abitata da una miriade di popolazioni assai diverse tra loro, l’ elezione di La Guardia accese prontamente l’ orgoglio di tutta la comunità italoamericana sparsa in terra statunitense, e la stessa cittadinanza newyorkese, ormai stanca di corruzione, miseria, ingiustizia e pregiudizi e tensioni razziali, salutò la sua ascesa con profondo ottimismo.
Durante il suo primo giorno come sindaco, nel momento in cui varcava la soglia del palazzo municipale, si fermò sulla scala di ingresso e voltandosi verso i giornalisti esclamò in italiano: «E’ finita la Cuccagna!». Tale affermazione era rivolta neanche troppo velatamente alla coalizione dei democratici che lui aveva battuto: la loro amministrazione aveva infatti condotto una certa opera di corruzione e ampiamente sottratto fondi municipali guastando progressivamente le finanze cittadine, ma i giornalisti presenti non compresero e domandarono cosa fosse la Cuccagna, quindi Little Flower fece un energico cenno di assenso con la testa senza rispondere, volgendo le spalle ai cronisti e proseguendo. Tuttavia, un fotografo di discendenza italiana che stava di fianco al nuovo sindaco, pur rinunciando a tradurre letteralmente si volse esclamando: «Vuol dire basta pranzi a sbafo.».
Sindaco di New York;

Pur avendo aderito alle liste del Partito Repubblicano, il nuovo primo cittadino non fece mistero di averlo fatto soprattutto per opporsi ai democratici, particolarmente corrotti a New York: «Non ho mai aderito a un partito per più di quindici minuti di seguito.». In termini sostanziali, la sua totale autonomia di pensiero e azione lo portò a non ricevere alcun appoggio da parte repubblicana durante la campagna elettorale. Si mise al lavoro fin dal primo momento: licenziò in massa e ad ogni livello dirigenti e impiegati municipali corrotti e raccomandati, smantellando l’ avida e inadeguata struttura che aveva condotto la municipalità allo sfascio, procedendo a tappeto in una vera e propria caccia spietata alle mele marce di entrambi i partiti. Analisti politici e giornalisti evidenziarono che seppe colpire duramente ogni schieramento, e nessuno poté mai accusarlo di favoritismi. Si infiltrò silenziosamente tra la gente comune per valutare il funzionamento o meno di certi uffici, si ridusse lo stipendio a conferma dei suoi discorsi incentrati sulla necessità di stringere la cinghia, istituì l’ assistenza a beneficio di poveri e inabili al lavoro, facendosi promotore della nuova era del New Deal, controllò sempre di persona l’ andamento della grande macchina amministrativa comunale: divenne rapidamente nota la vicenda in cui alle 4:00 del mattino telefonò all’ assessore alle strade chiedendo se avesse disposto uomini, materiali e mezzi nel caso di una nevicata, e questi, ancora assonnato, rispose affermativamente, venendo tuttavia interrotto perentoriamente dal superiore: «E allora tira su il culo, e guarda alla finestra!». Fuori, infatti, stavano già cadendo i primi fiocchi. Durante una riunione di giunta, un consigliere di opposizione, che aveva portato un gruppo di giornalisti con sé, insinuò con tono allusivo e falso moralismo che i vitalizi a beneficio dei poveri, pagati dai contribuenti, andavano anche alle donne che si prostituivano, quindi La Guardia si alzò in piedi urlando: «Pensavo che questo problema fosse stato risolto duemila anni fa, chi è senza peccato lanci la prima pietra!». Nella baraonda generale che non tardò a scoppiare, il sindaco ricevette abbracci e ovazioni, mentre l’ oppositore venne sommerso da motti buffoneschi, insulti e fischi.
Pur volendo apparire forte e autorevole, Little Flower non si calò mai nella parte del funzionario rigido e compassato, ma seppe brillare ampiamente anche per il carattere bonario e gioioso, spesso calato in un’ atmosfera circense: si fece fotografare spesso nell’ atto di mangiare pizza e spaghetti in mezzo ai fratelli italiani, e dai microfoni delle radio, con la sua vocetta gradevole, spesso e volentieri leggeva e commentava i fumetti ai bambini in ascolto, esibendosi come il più discolo tra tutti loro.
La Guardia demolisce alcune slot machine;

Una delle sue battaglie più note e apprezzate fu quella contro la piaga del gioco d’ azzardo, in particolare scagliandosi contro le slot machine, che chiamava «macchinette del diavolo». In quel tempo, infatti, esse invadevano l’ intera città di New York e tramite opportuni canali di comprovata efficacia finanziavano copiosamente i forzieri della malavita: durante una cerimonia su di un battello al largo di Long Island, egli arrivò persino a distruggere a colpi di mazza decine e decine di macchine mangiasoldi, che poi furono gettate in acqua. Si accanì come un lupo affamato anche contro i flipper, che vennero dichiarati illegali da una corte del Bronx. Primo politico a denunciare e promuovere una campagna contro il fumo della marijuana, nel 1938 approntò uno studio particolareggiato sugli effetti del fumo di tale droga, dal momento che in quegli anni il Federal Bureau of Narcotics diretto da Harry Salinger, per mezzo di un’ aspra campagna giornalistica contro la canapa indiana aveva portato alla proibizione della stessa con il Marijuana Tax Act. Nel 1944 venne pubblicato il Rapporto La Guardia, basato su di un’ analisi condotta dalla New York Academy of Medicine e che rimane tuttora una delle poche ricerche mediche ufficiali condotte sull’ uso di questa sostanza.
La Guardia e Roosevelt;

La Guardia manifestò costantemente un atteggiamento piuttosto ostile a Benito Mussolini e Adolf Hitler, sempre più potenti sulla scena internazionale. Gli Stati Uniti, non volendo compromettere i loro notevoli interessi finanziari e commerciali in Europa e in terra germanica, che neppure il Terzo Reich aveva compromesso, e mossi da un certo fondamentalismo cristiano e antisemita, puntavano all’ isolazionismo e al non intervento in caso di una nuova guerra in Europa, mentre gli italoamericani erano largamente di simpatie fasciste: trattati dapprima come gli afroamericani, poi perseguitati come anarchici e mafiosi, essi videro in Mussolini un riscatto, giustificarono l’ invasione della Cecoslovacchia, che definirono «un Paese senz’ anima», mentre Il Progresso Italo-Americano ritenne che l’ occupazione della Francia era «dovuta ad una giusta causa». Lo stesso Presidente Roosevelt era cosciente del suo bisogno di sostegno da parte della comunità italoamericana, e non solo per motivi elettorali, in quanto i suoi consiglieri evidenziavano costantemente la grande importanza strategica del Belpaese, localizzato nel mezzo del Mediterraneo. Espresse interesse e simpatia per «l’ esperimento» del Fascismo e intrecciò con Mussolini rapporti di stima, sperando di riuscire a tenere fuori la nazione dall’ eventuale conflitto.
A New York, invece, il sindaco non guardava in faccia nessuno. Fin dal 1933 definiva il Führer: «Quel maniaco pervertito, quel fanatico tedesco che minaccia la pace di tutto il mondo.». Sul conto del Duce era altrettanto impietoso: «Non saprei che farmene.». Più in generale si augurava che i servizi segreti spazzassero via dalla faccia della terra tutti i fascisti e i nazisti. La risposta delle Potenze dell’ Asse non si fece ovviamente attendere: la propaganda nazista condotta da Joseph Goebbels definì il sindaco italoamericano «un supergangster che insulta Hitler», facendo una sprezzante ironia sulle sue origini giudaiche e pubblicando una foto di La Guardia con uno scimpanzé. I fascisti, invece, lo definirono «un bastardino». Il Segretario di Stato statunitense, Cordell Hull, montò su tutte le furie e presentò scuse formali ai tedeschi, chiedendo a viva voce l’ intervento del Presidente, che convocò Little Flower alla Casa Bianca facendogli il saluto nazista, sorridendogli: «Heil, Fiorello.». L’ italoamericano rispose: «Heil, Mister President.». Quello stesso giorno, via radio, il sindaco newyorkese si scatenò contro il dittatore italiano definendolo «il cagnolino Mussolini»: le trasmissioni in italiano venivano trasmesse anche in territorio italiano, ove la sua popolarità andava di pari passo con quella in terra statunitense.
Nell’ agosto 1940, quando ormai la guerra si profilava all’ orizzonte, Roosevelt pensò di nominare La Guardia come Ministro della Guerra, ma poi lo scelse come Presidente della sezione statunitense del Defense Board statunitense-canadese, incarico che assunse senza tuttavia tralasciare i suoi doveri municipali, e nel 1941, quando infine la nazione entrò in guerra contro il Giappone e quindi contro i suoi alleati nazifascisti, lo mise a capo dello United States Office of Civilian Defense. L’ aiuto dato da Little Flower ai servizi segreti per reclutare agenti da mandare in Italia fu decisivo, e grazie a lui, subito dopo la resa della Germania e la cessazione di tutte le ostilità arrivarono in Italia molte navi cariche di grano. Nel maggio 1945, al termine della guerra, annunciò che non si sarebbe candidato per un quarto mandato come sindaco, e un anno dopo, per volere del nuovo Presidente, Harry Truman, divenne direttore dello United Nations Relief and Rehabilitation Administration, organo competente per la gestione dei fondi per la ricostruzione in Europa.
Assai applaudito per i suoi numerosi e vasti successi e altrettanto criticato dai suoi avversari per i metodi spesso duri e da accentratore, negli anni il sindaco italoamericano era divenuto un uomo particolarmente potente e un suggestivo personaggio mediatico, tanto che in suo onore il 1° giugno 1947 venne reso operativo l’ Aeroporto LaGuardia, il secondo di New York, come tributo al suo vasto e intenso operato a beneficio della sua città. Malato di cancro al pancreas, morì il 20 settembre 1947, a quasi sessantacinque anni, e venne sepolto al Woodlawn Cemetery, nel Bronx, nel corso di una cerimonia che lo omaggiò come personaggio di altissimo livello, fonte di orgoglio e vanto sia per la storia statunitense che per gli italoamericani.
La tomba di La Guardia;

Ancora oggi, il nome di Fiorello La Guardia viene indicato come sinonimo di onestà, lealtà e tenacia, ed è descritto come un degno figlio di un popolo che ha scritto svariate pagine di storia memorabili. Molti importanti uomini politici e di legge dichiararono apertamente di ispirarsi al suo esempio, primo tra tutti Rudolph Giuliani, altro italoamericano giunto alle cariche di Procuratore generale del South District di New York e di sindaco della Grande Mela, ergendosi a paladino della politica di repressione della criminalità passata alla storia come tolleranza zero, e che gli valse il soprannome di «Procuratore di ferro».
Figlio di immigrati italiani, irascibile, energico e carismatico, desideroso di pubblicità, Little Flower fu meritatamente il simbolo della rinascita dalla Grande Depressione di New York, grande città in cui i nostri connazionali facevano fatica a discostarsi dall’ etichetta di criminale o, quando andava bene, di manovale. Spesso indicato come una guida tanto vigorosa da rasentare l’ autoritarismo, seppe governare e riformare con cura una città vasta e variegata, rendendosi portavoce effettivo e saldo della guerra alla corruzione dilagante e alla criminalità organizzata, e riuscì in quella particolare impresa in cui gli statunitensi avevano fallito: arrestare Lucky Luciano, uno dei mafiosi più potenti e dannosi del suo tempo. Non scelse mai di intraprendere la strada del silenzio e dell’ accettazione a proposito della disonestà in politica e nell’ imprenditoria, piuttosto che della criminalità organizzata, anche italiana, ponendole piuttosto al centro della sua azione e dei suoi dibattiti sapendo bene che accettarle, non parlarne, sottovalutarle oppure delegarle alle forze dell’ ordine non avrebbe fatto altro che alimentare e peggiorare i pregiudizi di cui gli italiani soffrivano, nonché la diffusa convinzione che questo mondo è quello che è, e che bisogna prendere le cose così come vengono. Se New York è la metropoli che conosciamo oggi, è anche grazie a questo insolito personaggio e agli italoamericani, che hanno letteralmente costruito New York.
E’ quindi molto importante ricordare e riflettere sulla sua figura e su quello che fece, così da comprendere quanto è importante vivere e gestire positivamente e seriamente la politica per mezzo di delegati onesti e armati di forza e coraggio nell’ affrontare i problemi e gli argomenti meno gradevoli eppure importanti: il mondo può effettivamente migliorare immensamente se si lavora sui singoli individui, e in un simile contesto la politica, quella vera, promossa da uomini come La Guardia, purtroppo rari oggigiorno, giocherebbe un ruolo privilegiato. Eppure non è impossibile trovare gente di questo genere: l’ elettorato dovrebbe semplicemente cessare di votare a casaccio oppure vendere il proprio voto a delegati disonesti, avidi e litigiosi, in contatto con ambienti malsani e coinvolti in faccende poco limpide.