mercoledì 15 agosto 2018

Il dramma silenzioso del popolo saharawi

Anziano saharawi;

«In questa intemperie rimaniamo
noi, quelli di sempre,
quelli che lottano con i loro corpi nudi,
contro i lacerati denti del tempo che ci corrodono.
Quelli che soffocarono i loro cuori feriti
e legarono le proprie mani
al volo bianco delle colombe.
Quelli che muoiono, nascono, sognano
e soprattutto, sperano di strappare
dalle ceneri l’ identità
di un cuore in fiamme.»
poesia saharawi;

Da ormai lungo tempo i mezzi di comunicazione di massa usano abitualmente tre vocaboli semplici ma dal significato estremamente potente, che noi purtroppo diamo per scontati, ossia patria, popolo e nazione. L’ uomo è notoriamente un animale sociale e territoriale, e molte delle guerre che ha combattuto nei secoli hanno avuto in tutta evidenza il movente patriottico e nazionalista, se non più strettamente territoriale, mosso dalla difesa o dall’ ampliamento dello spazio vitale.
Ma quale rapporto sussiste esattamente tra queste tre parole? Papa Giovanni Paolo II, cresciuto tra le due guerre mondiali in Polonia, che vide recuperare la propria indipendenza per poi crollare sotto i colpi del Terzo Reich e dell’ Unione Sovietica, così si espresse in proposito:
«L’ espressione ‘patria’ si collega con il concetto e con la realtà di ‘padre’. La patria in un certo senso si identifica con il patrimonio, cioè con l’ insieme di beni che abbiamo ricevuto in retaggio dai nostri padri. La patria è l’ eredità e allo stesso tempo la situazione patrimoniale derivante da tale eredità; ciò riguarda anche la terra, il territorio. Ma più ancora il concetto di patria coinvolge i valori e i contenuti spirituali che compongono la cultura di una data nazione. Persino quando i polacchi furono privati del territorio e la nazione fu smantellata non venne meno in loro il senso del patrimonio spirituale, della cultura ricevuta dagli avi. Nel concetto stesso di patria è contenuto un profondo legame tra l’ aspetto spirituale e quello materiale, tra la cultura e il territorio.».

Nella storia dell’ umanità hanno avuto luogo una lunga serie di profonde ingiustizie, verificatesi specialmente a danno dei più deboli: guerre di conquista, razzie, stragi, genocidi e pulizie etniche. Ma vi è un’ ingiustizia particolarmente penosa su cui non si discute mai abbastanza, soprattutto per motivi politici e diplomatici a beneficio delle potenze dominanti, ossia il dramma dei popoli oppressi nella propria terra d’ origine o addirittura costretti all’ esilio. Popoli autonomi e indipendenti sotto tutti gli aspetti, sia culturali che politici, ma costretti a vivere in casa propria come sudditi di qualcun altro, e spesso in condizioni sfavorevoli, come minoranze soggette alle superiori esigenze della maggioranza.
Per anni, dopo una lunga propaganda letteraria e cinematografica alquanto equivoca, si è molto parlato del massacro dei pellerossa per mano dei colonizzatori europei prima e del neonato governo statunitense poi, piuttosto che dell’ oppressione e dei massicci esodi in terra straniera a causa delle politiche del governo di Pechino a danno delle popolazioni della Mongolia Interna, del Turkestan Orientale e del Tibet in risposta al crescente potere economico e finanziario della Repubblica Popolare Cinese nel mondo, o dell’ etnia karen in Birmania, spesso in conflitto con il governo centrale a causa della negata indipendenza e della conseguente brutalizzazione a suo carico. Nondimeno esiste un altro antico e suggestivo popolo che da ben quarant’ anni affronta quotidianamente gravissime difficoltà in continuo peggioramento, ma di cui si tace opportunamente a beneficio di un avido e spietato interesse politico e diplomatico: i saharawi, ossia «sahariani» in arabo, tradizionalmente dimoranti nelle zone del Sahara Occidentale, dotato di notevoli risorse minerarie, principalmente fosfati, e di uno strategico sbocco sul mare che lo hanno reso a lungo obiettivo di alcuni importanti Paesi. Impegnati già durante gli Anni Trenta nella lotta per la propria indipendenza, essi attualmente vivono senza terra, in un penoso esilio.
Il Sahara Occidentale;

Il popolo saharawi discende dalla mescolanza tra tribù nomadi berbere con i Maquil, stirpe araba e yemenita, stabilitesi tra il VII e il XIII secolo. Durante i secoli le quaranta tribù si riunirono in una sorta di lega retta dal Consiglio dei quaranta, che riuniva i capitribù allo scopo di prendere collegialmente decisioni che riguardavano gli interessi della comunità. Parlanti l’ hassāniyya, particolare dialetto molto vicino all’ arabo classico, e praticanti il sunnismo, la corrente maggioritaria dell’ Islam, per secoli i saharawi praticarono il nomadismo tra il Sahara e l’ Atlantico, spostandosi seguendo la pioggia, particolare tendenza che valse loro il soprannome di «Figli delle nuvole».
Alla fine del Quattrocento, gli spagnoli raggiunsero la costa atlantica del Sahara, di cui ottennero la sovranità nel 1885 con la Conferenza di Berlino, occupandosene con crescente interesse a partire dagli inizi del Novecento, a seguito dell’ avanzata francese in Algeria, Mauritania e Marocco. A seguito di tre importanti congressi diplomatici tenutisi a Parigi e Madrid tra il 1900 e il 1912, i confini del Sahara spagnolo vennero attentamente delimitati, e fatti rispettare dai francesi in assenza di un apposito presidio di frontiera spagnolo.
Nel 1934 il governatorato iberico attribuì ai saharawi, ormai largamente sedentarizzati e urbanizzati, ma sempre assai legati alle proprie tradizioni, uno stato civile e un documento di identità con l’ introduzione di un visto obbligatorio per la transumanza in territori francesi, consolidandone nel tempo l’ autoidentificazione e il sentimento della propria appartenenza al Sahara Occidentale, particolari elementi che portarono alla formazione di un movimento di resistenza contro lo sfruttamento e i soprusi coloniali, che dopo la Seconda Guerra Mondiale guardò con speranza verso il Marocco, che rivendicava la propria indipendenza, tanto che tra il 1956 e il 1958 molti saharawi si arruolarono nell’ Armée de la Liberation, operante nel Marocco meridionale. 
Donne saharawi;

Nel 1960, 1’ Assemblea generale delle Nazioni Unite riconobbe il diritto dei popoli all’ autodeterminazione, e a partire dal 1963 il Sahara Spagnolo venne inserito nella lista dei territori cui tale principio doveva essere applicato. Il primo nucleo nazionalista si creò attorno al giornalista Mohamed Bassiri, influenzato dalla visione di Gandhi, e nel 1967 si costituì il Movimento di Liberazione del Sahara, che tre anni dopo, uscito dalla clandestinità, divenne oggetto di una durissima repressione con morti e centinaia di arresti tra cui lo stesso Bassiri. Sotto gli auspici delle Nazioni Unite, una risoluzione del 1972 incluse per la prima volta anche il diritto all’ indipendenza. Nel maggio del 1973, un modesto gruppo di nazionalisti saharawi costituì il Fronte Polisario, il cui nome intendeva solo esprimere un’ opposizione al colonialismo, un «fare fronte», scegliendo le armi come strumento di lotta, individuando l’ indipendenza come obiettivo fondamentale, mentre la lotta armata, insieme al lavoro politico tra le masse, sarebbe rimasta lo strumento principale, rifiutando fermamente il terrorismo in modo da combattere a volto scoperto, guadagnandosi una certa reputazione di moralità e coscienza civile.
Nell’ agosto 1974 il governo spagnolo informò il Segretario generale delle Nazioni Unite dell’ intenzione di indire un referendum entro i primi sei mesi dell’ anno successivo, e in autunno procedette al primo censimento della popolazione: entrambe le iniziative trovarono ampio consenso presso l’ organizzazione intergovernativa. Tuttavia, Hasan II, re del Marocco, reagì aspramente vedendo vanificati i propri disegni di estensione della sua sovranità anche sul Sahara: volendo frenare qualsivoglia iniziativa di indipendenza saharawi annunciò una marcia popolare di occupazione pacifica, la Marcia Verde, dai trecentocinquantamila marciatori reclutati in tutto il Paese, dotati di una copia del Corano e bandierine verdi, colore dell’ Islam, che in pratica attuarono una vera invasione nel territorio saharawi forti di svariati reparti di polizia e drappelli militari. Tra Spagna, Marocco e Mauritania venne quindi stretto un accordo in base al quale Madrid si ritirò dietro una sostanziosa indennità cedendo la colonia a Rabat e Nouakchott: Marocco e Mauritania si presero rispettivamente il settentrione e il meridione del Sahara Occidentale.

La situazione degenerò drammaticamente per i saharawi, al punto che la priorità del Fronte Polisario divenne la protezione della popolazione civile, inerme agli attacchi dell’ esercito marocchino che in più occasioni compì intensi bombardamenti e brutali violenze, al punto che ben duecentocinquantamila saharawi attraversarono il deserto fino al confine algerino, dove, nei pressi di Tindouf, vennero accolti in una prima tendopoli.
Il 27 febbraio 1976 il Fronte Polisario proclamò l’ indipendenza e la nascita della Repubblica Araba Democratica dei Saharawi, Stato solo parzialmente riconosciuto sul piano internazionale, ma fermamente deciso a ottenere una piena sovranità e un completo riconoscimento da parte degli altri Paesi. La Mauritania ratificò nel 1979 un accordo di pace con le autorità del neonato Stato, ma il Marocco raddoppiò lo sforzo bellico per occupare l’ intero territorio del Sahara Occidentale. Negli anni successivi ottantadue Stati aderenti alle Nazioni Unite riconobbero la Repubblica dei saharawi, ma alcuni di essi in seguito ritirarono il proprio riconoscimento diplomatico: attualmente è riconosciuta da settantaquattro nazioni. Nei primi Anni Ottanta, il Fronte Polisario si rivolse ad ogni sede internazionale, suscitando dapprima l’ interesse dell’ Organizzazione dell’ Unità Africana, di cui divenne membro nel 1982 come cinquantunesimo Stato, e poi delle Nazioni Unite, mentre nel dicembre 1986 ottenne quella del Parlamento Europeo. Successivamente entrò a far parte dell’ Unione africana.
Nel 1991 entrò in vigore il cessate il fuoco tra il Fronte Polisario e il Marocco, e conseguentemente le Nazioni Unite crearono una missione di pace nota come Missione delle Nazioni Unite per il referendum nel Sahara Occidentale, allo scopo di proclamare i risultati del referendum di autoderminazione in cui i saharawi avrebbero scelto l’ integrazione con il Marocco oppure l’ indipendenza. Sebbene accettata da entrambe le parti, il provvedimento entrò in una fase di stallo in quanto le Nazioni Unite e l’ Organizzazione dell’ Unità Africana non seppero imporre una soluzione congiunta, situazione ulteriormente aggravata dal disimpegno delle istituzioni europee, verso le quali si era indirizzata un’ importante manovra diplomatica del Marocco, che aspirava ad entrare nella CEE. Il Fronte Polisario presenta tuttora il referendum come 1’ unico strumento capace di risolvere la controversia sotto gli auspici delle Nazioni Unite, e tenta di aggirare l’ indifferenza o le dichiarazioni di impotenza dei governi svolgendo un intenso lavoro a tutti i livelli della società civile, illustrando la situazione dei profughi e chiedendo solidarietà sul piano dell’ informazione e degli aiuti materiali.
Campo profughi saharawi nella provincia di Tindouf, Algeria;

Le condizioni di vita nei territori desertici a cui i saharawi risultano tuttora costretti sono molto dure: privati di un’ economia di sussistenza e dell’ accesso alla salute, essi sfidano costantemente dalle loro piccole tende e costruzioni in mattoni e fango un clima che sfiora i cinquanta gradi in estate e temperature inferiori allo zero durante l’ inverno. Il Marocco tolse loro ogni cosa, ma non seppe scalfire il saldo legame che li ha sempre uniti alla propria antica cultura: benché in condizioni estreme, i saharawi rimangono fedeli e coerenti con la tradizione in cui sono nati e vissuti di generazione in generazione, credendo fermamente al diritto all’ istruzione, uguale per uomini e donne, preservando un sistema scolastico adattato alla vita nei campi per rifugiati, salvando in tal modo la propria identità e la libertà individuale, che senza alfabetizzazione cesserebbero di esistere.
Attualmente i saharawi sfiorano il milione di persone, la metà delle quali vive nel territorio occupato dal Marocco, mentre altre duecentomila sono sparse tra Mauritania, Spagna e altri Paesi, e centosessantamila vivono in esilio nelle tendopoli nel deserto algerino, presso Hammada di Tindouf, ove sopravvivono liberi ma unicamente grazie alla solidarietà internazionale. All’ ingiustizia politica si è aggiunta nel tempo la censura dei mezzi di informazione: una congiura del silenzio che ha tristemente fatto di loro un popolo fantasma. Dopo oltre quarant’ anni, gli aiuti umanitari internazionali sono fortemente venuti meno: quelli europei sono scesi ad appena nove milioni di euro, contro i diciassette iniziali, mentre quelli di provenienza statunitense sono stati sospesi dal Presidente Trump. Le conseguenze sanitarie per centocinquantamila saharawi nelle tendopoli si manifestano ad alto livello tramite anemia diffusa, ritardi nella crescita per l’ insufficiente apporto calorico e proteico ed elevata mortalità infantile e materna.
Il Comitato internazionale per lo sviluppo dei popoli, che da trent’ anni opera nei campi profughi, dichiara che al momento gli ammanchi nelle donazioni e le promesse non mantenute compromettono ampiamente gli aiuti ai rifugiati. Per affrontare tale crisi serve una soluzione politica, e solo il governo e la Caritas algerini stanno compiendo un certo sforzo, che purtroppo non basta. I giovani vivono una condizione di forte esclusione: non sono impegnati in alcuna attività costruttiva, ma si confrontano con un mondo immaginario esclusivamente attraverso la rete telematica internazionale, a cui sono sempre connessi con i cellulari. Il Comitato internazionale per lo sviluppo dei popoli ha in corso progetti mirati per loro: ha ricostruito quindici scuole in due anni, organizza corsi di aggiornamento per insegnanti e ha realizzato localmente venti libri di storia e geografia per trentamila studenti. Vi è tuttavia ancora molto lavoro urgente da compiere.
Bandiera della Repubblica Democratica Araba dei Sahrawi;

Purtroppo, le prospettive per il futuro del popolo saharawi, che semplicemente domanda tutti quei diritti dati per scontati dal mondo moderno e civile, non sono affatto ottimistiche. La maggior parte delle nazioni del mondo riconosce la Carta delle Nazioni Unite e i Patti internazionali sui diritti dell’ Uomo, secondo cui: «Tutti i popoli hanno il diritto di autodeterminazione. In virtù di questo diritto, essi decidono liberamente del loro proprio statuto politico.».
Un popolo è una comunità che intende sé stessa in base alle proprie tradizioni linguistiche e culturali, ed è il fondamento di uno Stato avente diritto all’ autogoverno. I diritti dell’ uomo sono sostanzialmente diritti individuali, eppure ogni popolo è una comunità di individui, pertanto non si può negare alla comunità ciò che spetta ai singoli membri che la compongono. I saharawi sono portatori di una ricca storia di cui sono giustamente fieri: per secoli hanno manifestato con successo il proprio senso di indipendenza e autonomia, e la loro volontà di preservare la libertà.
La Repubblica Araba Democratica dei Sahrawi chiede esattamente ciò che il diritto internazionale riconosce, e nessuno Stato democratico moderno che prende sul serio i diritti umani sia collettivi che individuali può sottrarsi al principio della priorità del volere dei saharawi, che in armonia con la propria storia, tradizioni culturali e linguistiche, mentalità e modo di intendere sé stessi come specifica entità politica, costituiscono un popolo portatore del diritto inalienabile di determinare esso stesso il proprio destino politico. I diritti umani precedono nettamente le esigenze, le alchimie e gli intrighi del potere, che deve quindi rispettarli totalmente se non intende perdere la propria legittimità.