venerdì 13 dicembre 2019

I campi di concentramento statunitensi

«L’ America è il solo Paese idealista al mondo.» Woodrow Wilson, ventottesimo Presidente degli Stati Uniti;
Un campo di concentramento nel Colorado sudorientale;

Secondo un vecchio proverbio, la storia è scritta dai vincitori, quindi ogni volta che qualcuno sale al potere o vince una guerra si preoccupa di diffondere informazioni opportunamente costruite o ritoccate al fine di giustificare la propria posizione, passando alla storia come persone giuste, mosse da ideali positivi e disposte a tutto, anche ad azioni drastiche, pur di preservare l’ ordine o ristabilire l’ armonia perduta. I vincitori vengono sempre santificati, mentre agli sconfitti tocca la demonizzazione, in una tendenza senza appello. Tale fenomeno dura da migliaia di anni, e si è costantemente consolidata nelle motivazioni quanto nella sua efficacia, come dimostrato ad esempio dalle vicende di Giulio Cesare e Cesare Augusto, passati alla storia come grandi eroi che salvarono il caput mundi da un’ aristocrazia malevola a costo di sopprimere ogni libertà in nome della sicurezza instaurando un sistema di potere rigorosamente monocratico e condannando all’ eterno disonore i propri rivali politici, come Marco Giunio Bruto, Marco Tullio Cicerone, Marco Antonio e Cleopatra. Eppure, anche se con più fatica e lentezza, la verità tende sempre a riemergere dalle sabbie del tempo e dai dettami della versione ufficiale riportata dai cronisti di parte, consentendo di risalire ai fatti così come avvennero e di smontare i miti e le leggende che avvolgono la storia.
Parimenti, quando si parla di campi di concentramento noi tutti pensiamo ai famigerati lager che i nazisti sparpagliarono in Germania, Austria, Polonia, Italia, Francia e negli altri Paesi occupati, che le SS gestirono con un’ estrema organizzazione imprigionandovi milioni di persone per motivi razziali, politici e religiosi, dando luogo alla Soluzione finale con cui liberare la razza ariana dall’ inquinamento genetico indotto dal sangue ebraico e dei disabili e il Terzo Reich dalle interferenze delle varie forze politiche ad esso ostili, soprattutto il Bolscevismo. Il trattamento di prigionieri civili e militari nei campi di internamento, tuttora regolato dalla III e IV Convenzione di Ginevra del 12 agosto 1949, fa pensare a bui periodi di guerra e a regimi dittatoriali particolarmente duri e ingiusti, qualcosa di crudele e intollerabile agli occhi dei più elementari sistemi democratici. Eppure, diversamente da quanto si pensa attualmente i campi di concentramento non furono un fenomeno esclusivo di Germania nazista e Unione Sovietica, ma anche degli Stati Uniti d’ America, che certa propaganda inesatta dal 1945 in poi descrive come il tempio della democrazia, della tolleranza e della pace, il pilastro della libertà perennemente impegnato con forza e convinzione contro ogni forma di oppressione e ingiustizia. Se noi tutti oggi pensiamo agli Stati Uniti come l’ eroica potenza che scese coraggiosamente in campo armata di nobili ideali aiutando la Gran Bretagna a sconfiggere Adolf Hitler e il Nazismo al fine di ristabilire la democrazia in Europa, tralasciamo il fatto che non da subito si rivelarono ostili a quanto il Führer favoriva con la sua politica, e che molti statunitensi avevano addirittura un’ aperta simpatia per il Terzo Reich, che vedevano come un forte baluardo contro il proletario abisso incarnato dall’ Unione Sovietica, oltre che sentimenti antisemiti. Soprattutto, dimentichiamo che persino il Nuovo Mondo ebbe i suoi campi di concentramento, voluti dal Presidente Roosevelt, che con l’ ordine esecutivo 9066 decretò che tutti i residenti di provenienza giapponese, tedesca e italiana, immigrati o nati in territorio statunitense che fossero, dovevano essere rinchiusi in un campo di concentramento: donne, vecchi, bambini e intere famiglie umiliate e private della propria libertà in una vera e propria caccia alle streghe, analogamente a quanto avveniva in quel totalitarismo a cui Washington tanto si oppose a partire dal 1941, dando luogo ad una vicenda che, come molte altre, andrebbe doverosamente approfondita consentendo alla verità di riemergere in opposizione ad ogni visione parziale dei fatti.
Roosevelt firma la dichiarazione di guerra al Giappone;

A seguito dell’ occupazione tedesca della Polonia, la Gran Bretagna dichiarò guerra alla Germania il 1º settembre 1939, dando inizio alla Seconda Guerra Mondiale. Durante i primi due anni, gli Stati Uniti mantennero formalmente la propria neutralità, dimostrandosi tuttavia favorevoli alla causa britannica e a quella francese. In una dimostrazione di sostegno, il Presidente Franklin Delano Roosevelt richiese a J. Edgar Hoover, direttore dell’ FBI, di compilare un indice dei soggetti da arrestare al fine di garantire la sicurezza in un momento di emergenza nazionale. Tale disposizione riguardò la Germania e i suoi principali alleati, ossia Italia e Giappone, e il Dipartimento della giustizia iniziò a compilare elenchi di possibili sabotatori e spie nemiche tra i relativi gruppi etnici residenti sul suolo statunitense. A partire dal 1940, gli stranieri residenti furono tenuti a registrarsi in base a quanto disposto dallo Smith Act. A causa dell’ avanzata giapponese nell’ Indocina francese e in Cina, gli statunitensi, in accordo con i britannici e gli olandesi, bloccarono ogni rifornimento di carburante ai giapponesi, che ne importavano il novanta percento. L’ embargo minacciò la potenza militare del Paese de Sol Levante, che rigettò la richiesta statunitense di lasciare la Cina e segretamente decise che la guerra con gli Stati Uniti era inevitabile, sebbene la sola speranza di vittoria consistesse nel colpire per primo. Alcuni mesi prima, Roosevelt aveva ordinato che la flotta statunitense si spostasse dalla California alle Hawaii, in modo che fosse pronta se i giapponesi avessero dichiarato guerra. Il 7 dicembre 1941, le forze aeronavali giapponesi, guidate dal generale Isoroku Yamamoto, attaccarono senza preavviso la flotta e le installazioni militari statunitensi stanziate nella base navale di Pearl Harbor, nelle isole Hawaii, infliggendo una notevole perdita alla flotta nemica, mandando fuori combattimento diciotto navi. Durante i bombardamenti, duemilaquattrocentotre statunitensi persero la vita, e altri millecentosettantotto rimasero feriti. I giapponesi persero ventinove aerei, un grande sommergibile e cinque sottomarini, e contarono sessantaquattro morti. Fu la peggior sconfitta navale della storia degli Stati Uniti. Roosevelt e i suoi comandanti, che formavano gli Stati maggiori riuniti, decisero che nonostante l’ aggressione giapponese nel Pacifico l’ obiettivo principale della guerra fosse la sconfitta della Germania nazista, il nemico più pericoloso e potente. Appena il giorno dopo, su deliberazione del Congresso, gli Stati Uniti dichiararono guerra all’ Impero giapponese, e di conseguenza al Terzo Reich e al Regno d’ Italia.
Tuttavia, il fronte europeo non fu il solo in cui il governo di Washington si impegnò. Nel gennaio 1942, tutti gli stranieri appartenenti alle nazionalità ostili furono tenuti a registrarsi presso gli uffici postali del luogo di residenza. Come stranieri nemici dovevano essere prese loro le impronte digitali, andavano fotografati, e dovevano portare sempre con sé speciali documenti di identificazione. I giapponesi in particolare furono accusati di tradimento, e l’ odio, covato ormai da un secolo, dilagò sfociando in una campagna diffamatoria su vasta scala: essi facevano concorrenza sleale ai contadini e ai pescatori statunitensi, costituivano una minaccia per la virtù delle donne locali con i loro vizi e la loro lussuria, contaminavano la cultura occidentale con i loro costumi e la loro religione. Iniziarono presto retate e detenzioni, e furono confiscati fucili, coltelli, strumenti da lavoro, kimoni da cerimonia, statuine religiose, documenti e scritti in lingua giapponese.
Il Procuratore generale Francis Biddle garantì che gli stranieri nemici non sarebbero stati discriminati se si fossero dimostrati fedeli, e citando le cifre del Dipartimento di Giustizia indicò un milione e centomila stranieri nemici degli Stati Uniti, di cui novantaduemila giapponesi, trecentoquindicimila tedeschi e seicentonovantacinquemila. Il 19 febbraio 1942, ad appena due mesi dal proditorio attacco nipponico, il Presidente Roosevelt firmò l’ ordine esecutivo 9066, con il quale decretò che tutti i residenti sul territorio degli Stati Uniti di origine giapponese, tedesca e italiana, anche se nati in territorio statunitense, erano «nemici alieni» da rinchiudere in campi di concentramento. Ufficialmente, alla base di tale azione vi era lo stato di guerra in atto con i Paesi del Patto tripartito, quindi l’ esigenza di porre la nazione al sicuro da agenti segreti, spie e sabotatori al servizio del nemico. Tale provvedimento causò l’ imprigionamento di oltre centoventimila cittadini statunitensi di provenienza giapponese, italiana e tedesca, tra cui donne e bambini, in appositi campi di concentramento. Le operazioni furono rapide: i campi predisposti erano appena dieci, sparsi in Arizona, Idaho, Montana e Utah, dichiarati zone militari, e faticarono moltissimo a contenere le vaste ondate di prigionieri, provenienti dalla media borghesia e dalla classe lavoratrice e che si erano visti spogliare di ogni cosa alla stregua dei criminali più nefandi. Uno dei campi più noti e affollati fu quello di Manzanar, posto in un’ arida valle a più di trecento chilometri a nord di Los Angeles, a est delle montagne della Sierra Nevada. L’ ordine 9066 non tardò a svelare il proprio movente di pura fobia razziale, come infatti ebbe a dire il generale John L. De Witt, posto alla difesa del fronte occidentale: «La razza giapponese è una razza nemica, i cui effetti non si diluiscono neppure dopo tre generazioni.». I giornali usarono parole altrettanto impietose, come ad esempio si lesse in un articolo del Los Angeles Times: «Una vipera nasce vipera dovunque sia stato deposto l’ uovo.». Sulle vetrine dei negozi californiani comparivano invece cartelli recanti slogan antigiapponesi: «I giapponesi non sono desiderati». La rivista Life, invece, insegnava ai lettori come distinguere i tratti somatici dei giapponesi da quelli cinesi.
Prigionieri italiani all’ ingresso di un campo di prigionia;

Il provvedimento presidenziale venne molto criticato fin dall’ inizio in molti ambienti della società e della politica statunitense, al punto che persino la First lady, Eleanor Roosevelt, ne parlò in termini alquanto sfavorevoli, schierandosi apertamente contro il marito e facendo notare che il movente razziale da cui era mosso andava a colpire gruppi che, nonostante i forti pregiudizi che subivano da parte del popolo statunitense, si erano perfettamente integrati nella vita e nel sogno americano: tra i prigionieri vi erano infatti lavoratori, imprenditori, insegnanti, artisti e via dicendo, e oltre il settanta percento degli internati era cittadino statunitense. L’ ordine 9066 li aveva semplicemente colpiti per quello che erano, non per quello che avevano fatto. Come disse la signora Roosevelt: «Sono persone che non hanno commesso nessun crimine.». Molti di loro erano cittadini di seconda generazione nati in terra statunitense, ma bastava avere un bisnonno nato in Giappone, Germania e Italia per essere additati come traditori. Iniziò quindi l’ internamento forzato di molte migliaia di persone che videro andare in rovina la propria vita, senza sapere dove sarebbero state portate e per quanto tempo.
I soli nippoamericani colpiti dal provvedimento furono centodiecimila, e il loro trasferimento e internamento venne effettuato in modo diverso a seconda dell’ area nazionale in cui avveniva. Il provvedimento del Presidente permetteva ai locali comandanti militari di stabilire all’ interno delle aree militari ciò che vennero definite «zone di esclusione», in cui si sarebbero potute isolare in tutto o in parte le persone colpite. Quasi tutti i giapponesi internati risiedevano lungo la Costa Occidentale, in particolare in California, e nelle regioni occidentali degli Stati dell’ Oregon e di Washington, oltre che in Arizona. Nelle Hawaii, dove i nippoamericani erano oltre centocinquantamila, formando quindi più di un terzo della popolazione locale, ne vennero internati circa milleottocento. Si calcola che tra i giapponesi circa il sessantadue percento disponesse della cittadinanza statunitense. Molti giapponesi immigrati di prima generazione si presentarono volontariamente ai centri di trasferimento, per dimostrare lealtà e gratitudine nei confronti del Paese che li aveva accolti e in aperta condanna all’ attacco di Pearl Harbor, ma molti giovani nati negli Stati Uniti seminarono disordini e furono rinchiusi in spietati centri di detenzione, come il famigerato Tule Lake.
L’ internamento dei tedeschi rappresentò un fenomeno più articolato, in quanto era già in corso dal 1939 e colpì diecimila civili di provenienza tedesca residenti negli Stati Uniti e considerati come possibile minaccia, e i prigionieri di guerra. In una realtà come quella statunitense, che fa del «crogiolo di culture» in cui diverse provenienze etniche e religiose si amalgamano all’ interno di una stessa società una caratteristica essenziale e un proprio motivo di vanto, la popolazione di provenienza germanica era piuttosto silenziosa fin dal tempo della Grande Guerra, quando negli Stati Uniti era maturato un forte sentimento antitedesco: all’ inizio gli statunitensi di discendenza germanica erano stati spesso aggrediti per le strade, l’ insegnamento della loro lingua madre venne bandito dalle scuole e i libri tedeschi bruciati. Nemmeno la loro cucina venne risparmiata: uno dei piatti tipici che gli immigrati avevano importato dalla madrepatria, i sauerkraut, crauti fermentati che accompagnano i piatti principali della tradizione tedesca, fu ribattezzato liberty cabbage, ossia «cavoli della libertà». I prigionieri civili tratti nei campi di concentramento in virtù dell’ ordine 9066 appartenevano in maggioranza a famiglie che avevano smesso di parlare in tedesco e anglicizzato i propri cognomi, nel tentativo di nascondere il più possibile le proprie origini. I prigionieri di guerra cominciarono ad arrivare negli Stati Uniti in gran numero nella tarda primavera del 1943, dopo le vittorie degli Alleati in Africa. Si calcolarono trecentosettantottomila prigionieri catturati in Africa settentrionale, Italia e Francia, suddivisi in centotrenta campi base e duecentonovantacinque campi affiliati. Un numero aggiuntivo di prigionieri era distribuito in ospedali e vari istituti penali. Nel corso degli anni venne documentata la presenza di campi di prigionia in ben quarantacinque Stati su quarantotto. Per combattere più efficacemente il Terzo Reich, Roosevelt ebbe l’ idea di nominare numerosi comandanti militari con cognomi di chiara origine tedesca, ma le violenze perpetrate dal regime nazista e la Shoah funsero da ulteriore spinta per i tedeschi-statunitensi a tacere il più possibile sulle proprie origini e a sforzarsi in un’ integrazione maggiore e nell’ assunzione di una nuova identità statunitense.
Infine, venne la realtà italiana. Nei mesi immediatamente successivi all’ attacco presso Pearl Harbor centinaia di italiani vennero arrestati. Già nel mese di gennaio, poco prima che l’ ordine 9066 entrasse in vigore, duecentomila sindacalisti italoamericani lanciarono un appello alla Casa Bianca per rimuovere la macchia intollerabile rappresentata dal fatto di essere considerati «stranieri ostili» per conto di tutti quegli italiani che avevano formalmente dichiarato l’ intenzione di diventare cittadini statunitensi e di rinunciare ai vecchi documenti ancor prima dell’ entrata in guerra degli Stati Uniti. Nel giugno 1942, gli italiani arrestati dalla polizia federale furono millecinquecentoventuno, e circa duecentocinquanta di essi vennero internati per un massimo di due anni nei campi militari in Montana, Oklahoma, Tennessee e Texas. Nel mese di marzo fu istituita la War Relocation Autority, un ente governativo atto a gestire la detenzione secondo i canoni previsti dall’ ordine 9066, che nel caso degli italiani dovette sforzarsi molto di più che nel caso dei nippoamericani: tanto quelli con la cittadinanza che quelli senza furono internati, ma la maggior parte, circa il sessanta percento, erano cittadini italiani nati in territorio statunitense. Gli italoamericani internati non furono arrestati in base alla legge sui nemici interni, ma erano semplicemente «persone» trasferite forzosamente dalla War Relocation Authority.
A seguito dell’ Armistizio di Cassibile, che l’ 8 settembre 1943 portò alla resa dell’ Italia, la maggior parte degli italiani venne liberata entro la fine dell’ anno. Alcuni erano stati rilasciati già da mesi sulla parola dopo un esonero stabilito da un consiglio di seconda audizione sulla base di appelli avanzati dalle loro famiglie, tuttavia la maggior parte degli internati avevano già passato due anni come prigionieri, passando da un campo all’ altro ogni tre o quattro mesi.
Un giornale italiano dell’ epoca;

Nel complesso, la vita nei campi di concentramento fu molto difficile. Le strutture erano spesso troppo fredde in inverno e troppo calde in estate. Gli alloggi erano spartani, costituiti principalmente da grandi caserme. Le famiglie cenavano tutte insieme in mense povere e austere, e ai bambini era possibile frequentare la scuola. Gli adulti avevano la possibilità di lavorare per uno stipendio di cinque dollari al giorno. Il governo statunitense sperava che i campi fossero autosufficienti nella coltivazione del cibo, ma la produzione in terreni aridi costituì una sfida assai penosa. Gli alimenti erano prodotti in massa secondo lo stile dell’ esercito, e gli internati sapevano che se avessero tentato di fuggire le sentinelle armate avrebbero prontamente aperto il fuoco. Il campo di Manzanar, che significa «campo di mele» in spagnolo, divenne l’ esempio più noto di questi campi di concentramento, così come Aushwitz si erse a simbolo della Shoah nazista. Durante suoi i quattro anni di esistenza fu il luogo di internamento di ben undicimilasettanta persone, tra uomini, donne, bambini e anziani. Ospitava chiese, negozi, un ospedale, un ufficio postale e un auditorium per la scuola, ma la vita al suo interno era ardua, tra problemi di sovraffollamento, pochi servizi igienici in comune tra uomini e donne, alloggi assegnati spesso in modo casuale, causando la divisione di infinite famiglie che venivano costrette a convivere con estranei. Anche se privati della libertà, gli internati cercarono di sopravvivere in qualche modo, organizzando numerose attività, anche di carattere religioso. Il direttore del campo, Ralph Merrit, nel 1943 incaricò un suo amico fotografo Ansel Adams, di documentare quello che stava succedendo nella sua struttura. Adams catturò i momenti di vita quotidiana degli internati, evidenziandone la determinazione e la resistenza. Le fotografie furono raccolte nel libro «Born Free and Equal», pubblicato nel 1944 dopo essere passato attraverso le oscure e crudeli alchimie della censura.
La controversa disposizione esecutiva venne sospesa dallo stesso Roosevelt nel dicembre 1944, e i prigionieri vennero finalmente rilasciati, ormai liberi di tornare alle proprie normali esistenze. Tuttavia, l’ impatto della riacquistata libertà fu traumatizzante quanto l’ incarcerazione, e molti tra gli ex prigionieri politici non sapevano dove andare: giapponesi, tedeschi e italiani vennero spesso guardati tornare con sospetto nelle rispettive città e paesi, nella convinzione che fossero le avanguardie del nemico in Europa ed Estremo Oriente, e non mancò chi li paragonò alle orde barbariche che con le invasioni e i saccheggi avevano contribuito fortemente alla caduta di Roma. Tra i giapponesi in particolare, molti addirittura scoprirono di non poter neppure tornare nelle loro città d’ origine, perché soprattutto lungo la Costa Occidentale l’ ostilità antigiapponese rimaneva altissima, tanto che in molti villaggi vi erano cartelli nei quali si chiedeva che non tornassero. Tale animosità perdurò per lungo tempo nel Dopoguerra.
Il campo di Manzanar;

Spesso considerato dagli studiosi uno dei tre Presidenti statunitensi più popolari, dopo George Washington e Abraham Lincoln, Roosevelt fu una figura centrale del XX secolo, il solo ad essere eletto per ben quattro mandati consecutivi. Con il suo ottimismo, la sua calma e la sua capacità di giudizio, ebbe un ruolo di grande rilievo nel grandioso sviluppo della potenza militare statunitense, nella conduzione della guerra, nel consolidamento della «Grande Alleanza» con la Gran Bretagna di Sir Winston Churchill e l’ Unione Sovietica di Iosif Stalin, e nelle decisioni geopolitiche della fase finale del conflitto. Sostenne anche lo sviluppo e la costruzione delle prime bombe atomiche della storia dell’ umanità, impiegate dal suo successore Harry Truman in Giappone, sulle città di Hiroshima e Nagasaki. Diede inoltre un contributo fondamentale alla formazione dell’ Organizzazione delle Nazioni Unite. Tuttavia, l’ ordine 9066 fu senza dubbio la sua decisione più discutibile. Sebbene ritenuto costituzionale dalla Corte Suprema, fu considerato una grave violazione delle libertà civili e avversato da molti gruppi e da importanti funzionari come J. Edgar Hoover, che spesso criticarono il Presidente per non essersi opposto veramente al genocidio contro gli ebrei perpetrato dai nazisti, benché fosse dovutamente informato su tale atrocità. Questa disposizione andò a colpire persone civili che nulla avevano a che fare con il conflitto o i servizi segreti e di destabilizzazione dei Paesi da cui venivano, gente innocente che viveva tranquillamente, lavorando sodo per guadagnarsi la vita in modo onesto, mandando i figli a scuola.
Molti anni dopo, nel 1980, il Presidente Jimmy Carter, convinto sostenitore della pace, della democrazia e dei diritti umani, avviò un’ indagine atta a stabilire se l’ internamento dei giapponesi, dei tedeschi e degli italiani, soprattutto coloro che possedevano la cittadinanza statunitense, fosse giustificato dal punto di vista legale. Predispose un’ apposita Commissione, nella cui relazione, denominata «Giustizia personale negata», sostenne di non aver trovato prove significative di slealtà da parte dei giapponesi, contestando apertamente la motivazione fornita da Roosevelt per l’ adozione dell’ ordine 9066, non essendo suffragata da alcuna necessità militare ma solo da un mero pregiudizio razziale, isteria della guerra, e mancanza di controllo politico. Il governo venne pertanto sollecitato a pagare un risarcimento ai sopravvissuti. Successivamente, nel 1988, Ronald Reagan firmò un documento in cui gli Stati Uniti si scusavano ufficialmente per la deportazione e l’ internamento dei giapponesi che l’ amministrazione Roosevelt aveva ordinato, e l’ ammontare dei risarcimenti giunse a ventimila dollari per ogni reduce dei campi di concentramento, talvolta erogandoli ai loro discendenti.
A differenza dei nippoamericani, gli italoamericani non ricevettero mai nessun risarcimento. Nel 2010, la legislatura della California approvò una risoluzione in cui si chiedeva scusa per i maltrattamenti subiti dai residenti di origini italiane. I tedeschi, invece, non ricevettero mai risarcimenti e neppure scuse.
Alcuni giovani prigionieri giapponesi;

A dispetto di certa propaganda equivoca, il razzismo è tuttora molto forte in ogni parte del mondo, e in tempo di guerra si acutizza a livelli esponenziali. Gli Stati Uniti non fanno assolutamente eccezione, ed entro i loro confini non si riesce neppure a parlare liberamente di questo argomento. La grande visione di Abraham Lincoln, di John e Robert Kennedy nonché di Martin Luther King Jr. resta un sogno tuttora molto lontano dal suo traguardo. Il problema che da sempre affligge il mondo libero e civile sta nel fatto che il «popolo sovrano» è credulone e si lascia sempre opportunamente manipolare da delegati avidi e litigiosi, a cui nulla importa del bene comune. L’ umanità teme da sempre ciò che non riesce a capire, e sugli alti scranni del potere siede sempre chi ne istiga la paura contro il diverso: nonostante la scoperta della forza di gravità, dei vaccini, dei trapianti e i viaggi sulla luna la gente scivola tuttora nelle consuete sabbie mobili dell’ ignoranza, condannando gli stranieri e i migranti a rimanere nemici, delinquenti che rubano tutto ai nativi.
Tra il 1892 e il 1954, Ellis Island, isolotto parzialmente artificiale alla foce del fiume Hudson, nella baia di New York, fu il principale punto d’ ingresso per gli immigrati che sbarcavano negli Stati Uniti: ognuno di essi contemplava con meraviglia e fascino la Statua della Libertà, nella certezza di essere finalmente sbarcati nel Paese della tolleranza e della pace, ove avrebbero trovato fortuna. Invece, ahimè, non esiste alcun Paese tollerante o Terra promessa, non vi è pace e neppure uguaglianza in nessun posto: donne, bambini, intere famiglie distrutte semplicemente perché nati diversi dai detentori del potere. E il fenomeno, purtroppo, continua imperterrito ancora oggi sotto l’ amministrazione di Donald J. Trump, tramite il muro lungo il confine messicano e il Muslim ban, provvedimenti famigerati e discriminanti che più di tutto riescono a rievocare nel subconscio civile degli statunitensi quella parte dimenticata della loro storia. Un capitolo imbarazzante che il campo di Manzanar, designato come sito storico di interesse nazionale per l’ eccezionale stato di conservazione delle strutture del campo, potrebbe aiutare come non mai a far comprendere appieno con quella stessa bandiera a stelle e strisce generalmente indicata come simbolo di page e giustizia per tutti che sventola su quel deserto che sfortunatamente non è solamente ambientale, ma anche e soprattutto culturale…

lunedì 2 dicembre 2019

La spiritualità oltre la religione



«La spiritualità è riconoscere la luce divina che è dentro di noi. Non appartiene a nessuna religione in particolare, ma a tutti.» Muhammad Ali;
La parola come timone con cui orientare le masse;

Un antico proverbio zen dice: «Una buona parola tiene inchiodato un asino a un palo per cento anni.». Devo ammettere che quest’ affermazione mi ha molto colpito, e che mi ha fatto ricordare un concetto che fin da bambino ho spesso sentito dire dalla mia vecchia maestra elementare di italiano e, in seguito, da altre persone intelligenti che ho avuto la fortuna di conoscere personalmente: le parole hanno ciascuna un preciso significato, con il quale possono ampiamente influenzare il nostro modo di pensare e percepire la realtà, modellando le nostre convinzioni in un modo piuttosto che in un altro. Se usate con una motivazione e in un certo modo hanno il potere di elevarci a superiori livelli di consapevolezza oppure di allontanarcene nettamente, come dimostrato purtroppo dalle tecniche propagandistiche. Al tempo stesso, come tutte le cose del contesto umano il linguaggio ha i suoi limiti e non sempre è in grado di aiutarci a comprendere appieno i concetti, finendo spesso con l’ indurci a coltivare opinioni inesatte. Occorre quindi fare un uso molto attento delle parole, scegliendo quelle giuste quando occorrono e limitandoci al silenzio se invece non servono proprio: prima di parlare dovremmo infatti sempre domandarci se ciò che diremo corrisponde al vero, se non provoca male a nessuno, se è utile e, soprattutto, se valga davvero la pena turbare il silenzio per ciò che abbiamo da dire.
Il condizionamento e la metodicità della religione;

Uno dei contesti in cui le parole vengono utilizzate in maniera sconveniente e addirittura oppressiva è quello delicato della religione, un contesto molto antico e tutt’ altro che scontato. Da sempre, infatti, ogni dottrina poggia su concetti enigmatici e mai dimostrati in pratica, e i relativi chierici e maestri, impaludati in suggestivi abiti talari, trascorrono tutta la vita a studiarli e a insegnarli alla comunità spirituale, i cui membri pendono dalle loro labbra ammirando la bravura e la dimestichezza che denotano dalla santa cattedra. Non a caso, infatti, uno dei termini più ricorrenti nel mondo religioso è quello relativo ai pastori, intesi come vere e proprie guide autorevoli incaricate di indirizzare la massa: la comunità spirituale deve mettere da parte pensieri, dubbi e riflessioni e affidarsi alla conoscenza e all’ esperienza del suo pastore, che ha ricevuto l’ insegnamento, comprendendolo e divenendo poi in grado di trasmetterlo agli altri, sul preciso esempio delle pecore, che senza pensare seguono tutte insieme il loro allevatore mentre le conduce dalla stalla ai pascoli e viceversa.
In questo contesto, uno degli errori fondamentali che noi tutti comunemente facciamo in partenza è il confondere la religione con la spiritualità. Da migliaia di anni, infatti, questi due elementi sono molto presenti nella vita delle persone, e sono strettamente intrecciate fra loro, eppure ad un’ attenta considerazione si può capire quanto siano diverse e addirittura sappiano esistere l’ una senza l’ altra. Generalmente, siamo portati a credere che la religione sia l’ apice della spiritualità, ma in realtà non è così: essa è infatti un semplice prodotto umano. Fin dall’ origine dei tempi, infatti, ogni popolo ha avuto la propria religione, con le sue divinità buone e cattive, i propri dogmi, rituali e preghiere. Per certi aspetti, tutti i culti hanno molti aspetti in comune e altri punti di diversità, e per quanto si siano sempre presentati come una verità rivelata, non si può non notare quanto ognuno di essi sia il riflesso di una determinata mentalità in vigore una determinata epoca storica e regione geografica. Ogni confessione religiosa sorse in un’ era in cui uomini e donne si interrogavano sulle origini della vita, ma ancora non vi era la scienza con cui rispondere adeguatamente. Dalla religiosità sorge la ritualità, elemento tipico della psiche umana al punto da essere parte delle nostre attività quotidiane più familiari, e da questa sorgono la metodicità e, soprattutto, la convinzione, che il più delle volte sfocia nel pregiudizio divenendo un limite e addirittura un ostacolo al raggiungimento della comprensione della verità, in quanto una volta che siamo certi di qualcosa ci attacchiamo alle nostre convinzioni e abitudini adeguando ad esse la nostra mentalità ed esistenza divenendone praticamente prigionieri.
La libertà della personale ricerca spirituale;

In realtà, il culmine a cui noi tutti più o meno consapevolmente puntiamo è la spiritualità: è questo il nostro vero traguardo, peraltro slegato da tutti quei vincoli, limiti e dogmi tipici della religione. Ognuno di noi possiede uno spirito, indipendentemente dalla fede religiosa, e tende ad essere felice e ad evitare la sofferenza. La spiritualità parte proprio da qui, e consiste nella cura di questo nostro spirito: è il sentiero che ci conduce al benessere, indipendentemente da tutto ciò che ha a che fare con la religione. Persino molti atei affermano di praticare una qualche forma di spiritualità, sentendosi pervasi da una grande energia e senso di completezza semplicemente immergendosi nella natura, osservando le opere d’ arte o facendo del bene agli altri, impegnandosi in un sentiero vivo e radicato nella vita quotidiana in cui siamo tutti immersi.
Per sua natura, la religione non riesce a fornire una risposta a tutti i problemi delle persone, e ovviamente non si può cambiare il mondo dichiarandosi seguaci di una religione per poi passare il tempo pregando, andando al tempio più vicino a casa oppure in pellegrinaggio. La spiritualità consente invece di individuare sé stessi, riconoscendo quello che si è, che si può fare e di cui si ha bisogno. E’ una via basata sull’ astensione dal male, sul fare il bene e l’ essere sempre consapevoli, in un percorso basato su virtù quali disponibilità, condotta appropriata, pazienza, diligenza, saggezza, tolleranza e rispetto reciproco e che non è appannaggio esclusivo della religione. Solo aprendoci a noi stessi e alla realtà che ci circonda potremo finalmente vivere in armonia e trovare la pace.

Da anni quindi sostengo senza mezzi termini che possiamo tranquillamente fare a meno della religione, ma non della spiritualità. Se fin dal suo apparire la religione ha sempre esposto i propri concetti fondamentali senza alcuna dimostrazione pratica, fino a perdere ovviamente terreno di fronte alle recenti scoperte scientifiche, molto di ciò che ci vediamo attorno può costituire un ottimo punto di partenza per il nostro percorso spirituale, superando tutte quelle convinzioni erronee, distorte e ingannevoli che con l’ andare del tempo possono radicarsi sempre di più, conducendoci inevitabilmente in una solida gabbia mentale da noi stessi costruita e dalla quale si rischia seriamente di non uscire più, imprigionandoci nell’ aridità e nella desolazione del «materialismo religioso». Anziché credere occorre fare esperienza diretta di tutte le cose, in modo tale da poter comprendere e infine sapere. Bisogna ragionare attivamente con la propria testa e il cuore, tralasciando tutti quei concetti statici e leggende deleterie che ormai non valgono più, ai quali da sempre le religioni si aggrappano disperatamente da lungo tempo. Soprattutto, non bisogna mai commettere l’ errore di affidarsi ciecamente ad un maestro, per quanto famoso, carismatico e convincente, ricordando piuttosto che bisogna valutare con cura tutto quello che dice e l’ esempio che offre con le sue azioni: è bene che ciascuno sia il maestro di sé stesso, affidandosi alla propria esperienza. La verità si trova sempre e solo nei fatti, non nelle convinzioni: si deve quindi imparare a coltivare un atteggiamento di scetticismo con cui fare le domande giuste, a cui occorre dare le dovute risposte, evitando la trappola della liturgia, della dottrina, del mito, del culto, della fede e quindi della religione. Perché il cuore umano si trova sempre oltre la fitta coltre della teologia. Con la spiritualità si imbocca quella via che ci riporta al nostro vero io, al «qui e ora», distaccandoci dalle distrazioni inutili e dagli atteggiamenti mentali che ci isolano dalla realtà. E’ un’ attitudine che va oltre la fede, sperimentando l’ attimo presente e provando riconoscenza per il dono stesso della vita, acquisendo piena consapevolezza del nostro legame con il mondo e tutto ciò che ne fa parte, oltre le disattenzioni e i conflitti illusori del mondo materiale. Lo stato dello spirito non ha tempo, luogo e neppure religione, e dipende essenzialmente dalla nostra intuizione, esperienza soggettiva e unica per ogni persona. Giunti a questo punto potremmo chiederci perché sia così importante la religione, con tutti i suoi dogmi che ci isolano dalla realtà e da noi stessi impedendoci di percepirci come una parte fondamentale di qualcosa di più grande.
Il lato maggiormente importante della spiritualità è l’ esperienza effettiva, con la quale ci rendiamo parte del moto perpetuo dell’ esistenza. In un certo senso, questa è la vita stessa: per vivere la spiritualità servono solo quei piccoli gesti che ci avvicinino alla pace mentale, vivendo ogni momento con consapevolezza. Ad esempio, se stiamo pulendo casa dovremmo immergerci nell’ atto di pulizia; se siamo con i nostri cari, bisognerebbe essere completamente presenti per loro; se ci stiamo rilassando, ci si dovrebbe rilassare e basta, non lasciando che gli eventi del giorno o le preoccupazioni del futuro infestino i nostri pensieri. Questo atteggiamento ci aiuta ad accettare le cose pienamente così come vengono e apprezzarle nella loro interezza, preoccupandoci per il benessere nostro e di tutti gli altri esseri come se fossimo un tutt’ uno, per capire come siamo tutti interconnessi: la spiritualità è semplicemente questo.