venerdì 13 ottobre 2017

Il parere del Dalai Lama

Il XIV Dalai Lama;

La mia migliore amica, Paola, mi attendeva raggiante sulla soglia del giardino di casa sua. Mi venne incontro con un cerimonioso abbraccio, senza mai smettere di congratularsi per i meravigliosi risultati ottenuti all’ esame di maturità:
«Se avessero dato a me un bel cento e lode l’ avrei sbandierato a tutti fino all’ altro capo della luna!».
Mi fece entrare e, dopo aver salutato i suoi genitori, mi condusse fino alla sua camera, dove parlammo amabilmente.
«Cosa farai quest’ estate?» le chiesi.
«Ricordi quando ti parlai dell’ Istituto Lama Tzong Khapa, Maria?» mi chiese lei.
Annuì. Paola era molto interessata alle filosofie orientali, e da qualche tempo stava approfondendo la sua conoscenza del Buddhismo tibetano. In Toscana aveva molti amici, con i quali era stata già due volte a Santa Luce, in provincia di Pisa, presso l’ Istituto Lama Tzong Khapa, un famoso centro tibetano che ospitava spesso il Dalai Lama:
«Tra tre settimane il Dalai Lama verrà all’ Istituto. Ti va di accompagnarmi?».
Il mio sguardo espresse all’ istante un certo disagio. Per tutta la vita ero stata una cattolica credente e praticante, ma appena due anni prima avevo assistito alla morte di mio fratello maggiore, Marino, travolto sulla sua moto da un pirata della strada che non si era neppure fermato per soccorrerlo. Peggio ancora, la polizia non aveva saputo identificare quel delinquente, quindi le indagini erano state presto archiviate.
Dopo una settimana di agonia, Marino se ne andava lasciando un vuoto incolmabile in me e nei nostri genitori. Il suo trapasso fu per me un vero colpo, e la mia fede in Dio ne risultò duramente scossa: se era davvero infallibile e infinitamente buono perché mio fratello, che era giovane, buono e altruista, era morto in quel modo? Perché al posto suo non era morta una persona cattiva, una delle tante che anziché pagare per le loro colpe prosperavano e vivevano a lungo? E perché ogni giorno sentivo parlare di gente che viveva e moriva tra mille tormenti in luoghi come l’ Africa, l’ America meridionale e l’ Asia?
«Tu sai che non trovo nulla di buono nella religione.» dissi a Paola «Per come la vedo io, è solo uno spettacolo di varietà.».
Sorridendo, la mia amica disse che le filosofie orientali erano molto diverse da ciò che noi intendiamo per religione. Nessuna di esse prevedeva infatti la fede cieca in un dio o forme di estasi mistica, ma prediligevano pratiche spirituali atte a conoscere sé stessi e migliorarsi:
«Adoro il Taoismo, ma non è tanto male neppure la filosofia del Buddha. La scuola tibetana, in particolare, vanta tutta una conoscenza della mente che i nostri neuroscienziati stanno solo cominciando a intuire.».
Aggiunse che il Dalai Lama, una volta raggiunto l’ Istituto, avrebbe tenuto un discorso proprio sulla vita del Buddha, e sui suoi insegnamenti. Non le andava proprio di andarci da sola, e avrebbe particolarmente gradito la mia compagnia. Vidi in lei un entusiasmo tutto particolare, e compresi che non intendeva affatto convertirmi, ma solo dividere con me un’ esperienza che reputava unica e irripetibile.
«Ma chi è esattamente il Dalai Lama?» le domandai «Un santone? Un mistico?».
Dopo una bella e simpatica risata, Paola mi disse che si trattava di un monaco, la massima autorità spirituale del Buddhismo tibetano. Dal 1600 circa fino al 1959 era stato anche sovrano assoluto del Tibet, ma con l’ invasione del suo Paese da parte della Cina comunista era stato costretto a rifugiarsi con molti tibetani in India, nella città di Dharamsala, per chiedere aiuto politico e diplomatico all’ estero. Viaggiava in ogni parte del mondo parlando della situazione in Tibet e dando numerosi insegnamenti:
«In una certa misura, alcune scuole di Buddhismo erano già note agli studiosi fin dagli Anni Trenta, soprattutto l’ Hinayana e lo Zen. Ma negli Anni Settanta fiorì un immenso interesse per quella tibetana, con molti lama e monaci che migrarono in Occidente, Europa e Italia comprese.».
Con una punta di scetticismo, domandai se i monaci tibetani non si stessero servendo dell’ insegnamento buddhista per lavarci il cervello e usarci contro la Cina, ma Paola scosse vigorosamente il capo dicendo che i maestri buddhisti di ogni tradizione non cercano mai di fare proseliti, ma insegnano a chiunque voglia imparare:
«Il Buddha si rivolgeva a tutti ma non si imponeva mai a nessuno.».
Quanto alla questione cinese, precisò che da sempre il Dalai Lama seguiva la via del dialogo. Sebbene condannasse fermamente la dura repressione a cui il Tibet era soggetto, insisteva nei tentativi diplomatici con la Cina, e invitava tutti a rispettarla. Tale atteggiamento gli valse nel 1989 il Premio Nobel per la Pace.
«Sarà una bella esperienza, credimi.» disse «E quando torneremo potrai dire di averlo visto di persona.».
Contagiata da tanto entusiasmo, mi lasciai sfuggire un sorriso, e le promisi che mi sarei unita alla sua spedizione. Tre settimane dopo, infatti, salimmo in treno e ci recammo a Livorno, dove fummo accolte dagli amici di Paola, che ci accompagnarono al vicino paese di Santa Luce. L’ Istituto Lama Tzong Khapa sorgeva in un’ antica e grande residenza signorile, munita di camere per gli studenti e per gli ospiti di passaggio oltre che di casette in legno nel vasto podere vicino, ed era abitato da vari monaci italiani e da un lama tibetano. Vi si trovavano vari negozi di libri e oggetti religiosi, e anche una bella mensa e un bar. Paola mi presentò ai suoi amici monaci, molto cordiali e sempre pronti a ridere e scherzare, e mi mostrò ogni parte del centro. L’ orizzonte era dominato da colline e oliveti, e l’ atmosfera che vi regnava mi stupì e mi affascinò all’ istante: si era infatti immersi in una calma benefica, ognuno era sereno e rilassato, sempre pronto a sorridere benevolmente e ad aprirsi con spontaneità agli altri. Il silenzio era rotto dal fruscio degli alberi e dal canto degli uccelli. Qua e la si vedevano gatti e cagnolini che vivevano in una commovente armonia. Rimasi piacevolmente impressionata da un posto del genere, che fondeva tra loro antichi valori spirituali e la possibilità di un soggiorno altamente stimolante e riposante, ben lontano dal caos ormai consueto della vita urbana e «civile».
Dopo appena un paio di giorni, il Dalai Lama arrivò in automobile. Ricordo molto bene quei momenti: il cielo era terso e l’ aria piacevole, i monaci e il lama erano in fila e tutto intorno la gente formava un cerchio ordinato. Il silenzio era profondo. Un giovane monaco tibetano scese dall’ automobile scura e aprì la portiera da cui un momento dopo scese il Dalai Lama, un uomo sorridente, sulla settantina, dal volto piacevole e sereno, vestito con la tonaca rossa e gialla analogamente a tutti i monaci tibetani. Appena lo videro, i monaci dell’ Istituto si prostrarono a mani giunte ripetutamente, toccandosi con le mani giunte la fronte, la gola e il petto, mentre gli studenti restavano a capo chino e con le mani giunte. Il lama residente gli si avvicinò offrendogli una khata, la famosa sciarpa di seta bianca simbolo di purezza, rispetto e benvenuto che lui prese e gli pose sulle spalle. Il lama a quel punto fece tre prosternazioni, toccandosi con le mani giunte fronte, gola e petto. Rimasi affascinata da tutto questo, ma in cuor mio trovai che tanta adorazione fosse un po’ esagerata. Passando tra i presenti, il Dalai Lama benediceva tutti con un gesto, poi entrò nell’ Istituto, seguito dal lama e dai monaci.
La direzione ci aveva fatto sapere che la lezione si sarebbe tenuta dopo alcune ore nel gompa, la sala principale delle preghiere, dando così al Dalai Lama la possibilità di prepararsi. Paola mi disse di affrettarci a prendere posto, così ci recammo immediatamente nel gompa, una sala ampia con in fondo una grande immagine dorata del Buddha, un altare pieno di statue sacre e una miriade di cuscini da meditazione sul pavimento, per i partecipanti. L’ aria profumava d’ incenso. Quando arrivò, il Dalai Lama si prosternò tre volte davanti all’ immagine del Buddha e sedette a gambe incrociate sul trono sotto di essa. In basso, alla nostra destra, sedevano il lama e i monaci. Rimasi stupita dalla grande bontà e insieme dalla fermezza che il famoso maestro emanava, e dal momento che dimostrava di essere pienamente a suo agio pensai che fosse più che abituato a rivolgersi a un pubblico come il nostro.
«Come molti di voi sanno, io non cerco mai di fare proseliti.» esordì in inglese, mentre uno dei monaci italiani traduceva «In quanto monaco tibetano io condivido gli insegnamenti del Buddha con chiunque abbia il piacere di ascoltarli e di rifletterci sopra, ma è giusto che voi restiate fedeli alla vostra tradizione culturale. Chi di voi intende aderire al Buddhismo è libero di farlo, ma in tal caso consiglieri prima un’ attenta valutazione della nostra filosofia.».
Con questa premessa, che mi colpì notevolmente, incominciò a parlare del Buddha e della sua vita, tra mito e realtà. Disse che in Tibet nessuno si era mai posto il problema di fare ricerche storiche sulla sua esistenza, e in generale le date e certi episodi erano avvolti dall’ approssimazione. I britannici erano stati i primi ad applicare il rigore della ricerca scientifica alla figura del Maestro, ma per i tibetani non era molto importante sapere esattamente quando fosse nato o morto: aveva più valore il fatto che si fosse illuminato in una notte di luna piena di fine maggio, e che da quel momento fosse iniziata l’ epoca dei grandi insegnamenti. Indipendente dalle numerose leggende, dai miracoli che gli erano attribuiti e dagli effettivi riferimenti storici, il Buddha rappresentava un esempio che ciascuno di noi, nessuno escluso, può imitare: alla nascita era un semplice uomo, benché socialmente privilegiato in quanto figlio di un re, e ad un certo punto della sua vita si interrogò sulla vera natura dell’ esistenza, tanto da intraprendere un sentiero spirituale che lo condusse a maturare l’ Illuminazione, la piena realizzazione della sua natura innata:
«Non era un profeta, il Figlio di Dio o un liberatore divino, ma un uomo di buona volontà che dopo anni trascorsi in meditazione intuì il valore della consapevolezza e della compassione, semi del Risveglio. Senza la comprensione della realtà in cui viviamo, infatti, è molto difficile trovare pace, ed è impossibile amare il nostro prossimo. Compresi animali e ambiente.».
Sebbene la sua vita fosse ormai intrisa di leggenda e misticismo, analogamente a quella di Gesù, l’ aspetto più importante restava il suo messaggio:
«Come maestro, il Buddha invitava sempre i suoi discepoli a non dare mai per scontate le sue parole, ma a valutarle con attenzione e ad accettarle solo se fossero state utili al raggiungimento del Risveglio, la meta finale. Il nostro destino è quindi nelle nostre sole mani, non nelle sue o in quelle di qualche divinità sperduta tra le montagne o nell’ alto dei cieli.».
Ascoltai rapita dall’ interesse l’ intera lezione, che in tutto proseguì per ben tre ore, nelle quali il Dalai Lama raccontò la vita del Buddha tra i vaghi riferimenti storici e il suo significato più strettamente spirituale. Non lo vidi mai incerto su nulla, e al termine di quel lungo discorso non pareva affatto stanco, anzi, direi che avrebbe potuto proseguire ancora per ore e ore.
«Che ne dici?» mi domandò Paola mentre lasciavamo il gompa insieme agli altri ascoltatori.
«Mi ha colpito molto.» ammisi con entusiasmo «Mi è sembrato molto preparato e sincero per tutta la spiegazione.».
A quel punto la mia amica mi stupì domandandomi se volessi richiedergli un’ udienza. Non ero affatto preparata a un’ idea del genere, ma senza nemmeno riflettere risposi che sarebbe stato magnifico. Paola annuì, seria in volto, e mi invitò a tornare nella nostra casetta dicendo che sarebbe tornata presto con una risposta. Mezz’ ora più tardi tornò dicendo che la mattina dopo, alle dieci, il Dalai Lama mi avrebbe ricevuta nella sua stanza. All’ improvviso fui travolta dalla preoccupazione: stavamo parlando di uno degli uomini più influenti e famosi del mondo, come mi sarei dovuta comportare con lui? Ma Paola sorrise divertita, rispondendo di averlo già incontrato in un paio di occasioni, e che in sua presenza ogni formalità era bandita:
«E’ un uomo molto affabile e spontaneo. Mira dritto al sodo, e con il solo sguardo sa mettere chiunque a proprio agio. Standogli vicino per un po’ ogni turbamento se ne va come una nuvola soffiata via dal vento.».
Mi ricordò il saluto alla maniera tibetana, con la khata e le prosternazioni, e aggiunse che avrei dovuto porgergli un dono, che poteva consistere in un po’ di incenso, un rosario o una busta con del denaro. Si trattava infatti di un’ antica tradizione, e il più delle volte questo dono veniva nuovamente offerto a un monastero o a qualcun altro, per evitare la coltivazione dell’ egoismo e dell’ orgoglio.
Il mattino dopo mi svegliai di buon’ ora, feci un bagno e andai nel negozietto di articoli religiosi, dove chiesi il consiglio della monaca che lo gestiva: volevo infatti essere certa di fare bella figura! Prima e dopo la colazione ripassai bene nella mia testa le questioni di cui volevo parlare, e alle dieci in punto mi presentai nell’ alloggio privato del Dalai Lama, che trovai in attesa in fondo alla grande stanza, seduto a gambe incrociate nel suo letto giallo, ai cui piedi era disposto un comodo tappeto. Mi invitò sorridendo ad avvicinarmi. Gli offrì la khata, che mi mise sulle spalle, mi prostrai e gli offrì il mio dono, un rosario in legno di rosa da centododici grani, esattamente il tipo che lui amava di più. Mi sedetti, e come accennato da Paola il suo sguardo riuscì subito a mettermi a mio agio, irradiando bontà e amicizia. Mostrava un ampio sorriso, colmo di entusiasmo e amicizia, come se ci conoscessimo da una vita e se ci stessimo incontrando dopo molto tempo. Il nostro dialogo si tenne in inglese, e per prima cosa mi ringraziò del dono, dicendo che avevo scelto per lui un rosario dal bel colore:
«Cosa posso fare per te, cara?».
In quel preciso momento ogni mia tensione si dissipò come per magia, e ricambiando il sorriso gli chiesi a mia volta:
«Vostra Santità, che senso ha per lei la religione nel mondo di oggi, in mezzo a tanta sofferenza e difficoltà?».
Il Dalai Lama annuì, e mi rispose che lo scopo fondamentale di ogni religione, nessuna esclusa, era proprio quello di contribuire a risolvere la sofferenza, di aiutare gli uomini e le donne a diventare migliori:
«Sono convinto però che la religione sia spesso insegnata in modo scorretto, e che quindi sia malamente interpretata e vissuta dalla gente, che se ne allontana di giorno in giorno. Ma da quanto ho capito, il vero problema non sta nella mancanza di fede in una religione, perché spesso gli atei sono migliori di molti credenti: il vero problema è l’ allontanamento dalla spiritualità.».
Disse che trovava importante fare una distinzione piuttosto netta tra religione e spiritualità, poiché la prima implica l’ insieme di credenze mistiche, dogmi, rituali e preghiere, mentre l’ altra invece intende la cura e lo sviluppo dello spirito:
«Tutto ciò che stimola positivamente la mente e il cuore merita di essere considerato spiritualità, come ad esempio una passeggiata o la contemplazione di un’ opera d’ arte. La spiritualità non dipende per forza dalla religione.».
Aggiunse che nella sua residenza a Dharamsala, dove era solito a svegliarsi alle quattro del mattino, dopo la meditazione amava trascorrere un po’ di tempo in giardino contemplando il cielo stellato, la cui vista gli ricordava di essere parte di un universo la cui grandezza si intuisce a stento. Ciò rappresentava per lui un grande atto di spiritualità:
«La religione è soltanto una piccola parte della spiritualità, e personalmente non trovo necessario aderire a un credo per essere spirituali.».
Gli dissi che due anni prima mio fratello era morto, e che la mia fede in Dio ne era uscita devastata. Ripensavo alla sua bontà e al dolore che precedette la sua morte, e considerando l’ indubbio successo di tante persone cattive che invece vivevano e prosperavano trovavo piuttosto evidenti le manchevolezze della religione in materia di sofferenza.
«Se sei ebrea, cristiana o musulmana, devi avere fede in Dio.» affermò il Dalai Lama «Noi buddhisti non crediamo in dei simili al vostro, e ammetto che la mia conoscenza delle tre religioni che venerano lo stesso Dio non è particolarmente ricca. Dialogando con i maestri di tali tradizioni, però, ho scoperto che in effetti il tema della sofferenza è da sempre povero di spiegazioni. Ci si chiede perché Dio, infinitamente buono e perfetto, abbia posto le basi del dolore in questo mondo di sua creazione, e perché non intervenga quando esso si manifesta.».
Spiegò che il Buddha, invece, disse più volte che la sofferenza è una parte naturale e inevitabile della nostra vita, poiché noi siamo limitati e vulnerabili, tutto ciò che sorge è destinato a cessare, ed è soggetto al logoramento. E’ semplicemente così, e bisogna accettarlo. Tuttavia la vera sofferenza è scatenata da fattori psicologici:
«Spesso siamo soggetti al capriccio egoistico, ai piaceri dei sensi e al desiderio che le cose non cambino mai, se non in base alla nostra volontà. Tutto ciò, alla lunga, risulta inevitabilmente nocivo: piangiamo la morte di una persona cara ma ci infischiamo di quella di un estraneo, ci lagniamo di una pietanza che non ci piace senza pensare a chi muore di fame.».
Il Buddha invece esortava tutti con convinzione ad essere parsimoniosi ed equanimi, percorrendo la «Via di Mezzo», quel particolare sentiero di vita incentrato sul miglioramento di sè stessi e insieme sull’ accettazione di tutto ciò che non possiamo cambiare. Aggiunse che per quanto riguardava mio fratello, mi sarebbe stato di grande aiuto considerare che era morto solamente nel corpo, mentre il suo spirito continuava a vivere. Se era vero che in vita era stato buono avrei dovuto cercarlo nella beatitudine, e molto presto, in un modo o nell’ altro, ci saremmo incontrati di nuovo. Dunque non c’ era motivo di covare tanta tristezza:
«E’ vero, è morto in modo particolarmente triste, quindi nella vostra famiglia è più difficile maturare il distacco, ma le frontiere dello spirito umano sono meravigliose e infinite, e la morte per fortuna non ha il potere di cancellare il nostro spirito.».
Tornando alla questione della fede in un dio, gli domandai a chi si affidava il suo popolo. Da quando ero all’ Istituto, infatti, avevo sentito recitare moltissime preghiere.
«Noi tibetani abbiamo una tradizione un po’ diversa dalla vostra.» mi disse il Dalai Lama «Certo, abbiamo i nostri spiriti protettori, molto simili ai vostri angeli custodi, a cui chiediamo aiuto, un sostegno. Tuttavia siamo convinti che nessuno possa agire al posto nostro o compiere un miracolo per noi, nemmeno gli spiriti protettori, per quanto siano spiritualmente potenti.».
Spiegò che ogni pensiero, parola e azione nasce dalla persona, dunque ognuno di noi è artefice del proprio destino. Non le «forze invisibili». Proprio come quando si va dal dottore per curarsi: il medico indica la strada per la guarigione, ma senza la partecipazione del paziente le sue parole sono solo fiato al vento. Nemmeno il Buddha è considerato un essere divino da invocare per ricevere la grazia, magari un bel voto a scuola o la vincita della lotteria:
«Dobbiamo confidare prima di tutto in noi stessi e nelle nostre qualità innate!».
«Sempre più occidentali si stanno avvicinando alla filosofia buddhista.» gli dissi «Forse perché privilegia la consapevolezza della verità rispetto alla fede cieca in qualcosa?».
Il Dalai Lama rispose che molto probabilmente era così. Ogni volta che veniva in Occidente per insegnare, restava colpito dalla nostra curiosità e voglia di imparare:
«La compassione fa parte della vostra componente cristiana, e questo mi pare davvero meraviglioso. Quando insegno agli occidentali, mi vengono sempre poste molte domande sulla consapevolezza della realtà, ossia la capacità di giungere al vero partendo dai fatti evidenti, e sulla meditazione. Tutti ingredienti fondamentali per maturare il Risveglio.».
Aggiunse che lo considerava un atteggiamento molto buono, perché la fede cieca e non riflettuta in qualcosa porta sempre e comunque a dei problemi inutili che accrescono il dolore:
«Tutto può e deve essere messo in discussione. Proprio come diceva il Buddha: valuta sempre ogni cosa di persona, privilegia la comprensione alla fede. Sii scettico, fatti domande e trova le risposte.».
La nostra conversazione terminò così, dopo appena pochi ma intensi minuti. Mi sentivo molto felice, e cominciavo finalmente a intuire che cosa fosse un’ illuminazione interiore. Il Dalai Lama mi benedisse poggiando la sua fronte contro la mia e mormorando una breve preghiera in tibetano, e mi confortò dicendo che la nostra vita è un dono altamente prezioso, poiché tanto nella vita quanto nella morte siamo capaci di infinite opere di bene:
«Questo non è un privilegio, ma una responsabilità. Abbiamo il dovere di essere positivi non solo per noi stessi, ma per tutte le cose viventi che ci circondano, dal grande elefante alla piccola zanzara. Incluse le forme di vita vegetali.».
Noi umani siamo infatti parte dell’ ambiente circostante, non i suoi padroni, e se ci distinguiamo dagli altri animali per intelligenza e amore dobbiamo recare beneficio al maggior numero possibile di esseri viventi, senza speranza di ricompensa:
«Perfino molti dei nostri lama, quando ottengono l’ Illuminazione, anziché sgattaiolare nel Nirvana, dove non c’ è più dolore, continuano a reincarnarsi volontariamente per il bene di tutti. Proprio come i capitani che abbandonano la nave per ultimi. Questo è l’ altruismo alla base di tutti gli insegnamenti del Buddha.».

Quando uscì dalla grande stanza, con ancora la khata al collo, avevo per la prima volta le lacrime agli occhi. Quel grande saggio mi aveva toccato il cuore, molto più di quanto avesse potuto fare un vescovo o un papa, e compresi senza il minimo dubbio che meritava fino in fondo di essere il principale maestro di un’ antica e profonda filosofia che oggi si rivela sempre più attuale.

Nessun commento:

Posta un commento