sabato 17 agosto 2019

Amore reale

Re Vittorio Emanuele II e l’ amata Bela Rosin;


«Regina senza trono e senza corona.» Costantino Nigra a proposito della Bela Rosin;

Si può affermare con una certa sicurezza che il termine «amore» sia uno dei più usati e persino abusati di tutti i tempi: libri, poesie, canzoni e film lo ripetono all’ infinito, tanto che oggi viviamo in una società in cui viene spesso usato a sproposito, quindi comprenderne il vero senso risulta molto difficile, eppure è necessario per comprenderne l’ importanza e il beneficio che può donare a noi stessi e alle nostre relazioni, contribuendo ad arricchirle e a prolungarle. In questo solo vocabolo sono racchiusi infiniti significati. Alcuni, ad esempio lo definiscono un trasporto quasi involontario, incontrollabile e passionale verso un’ altra persona, un sentimento quasi animalesco legato più al corpo che all’ anima, mentre per altri significa desiderare che l’ altra persona sia felice e fare di tutto perché ciò accada. Il concetto alla base di questa parola è costantemente mutato nel tempo, tanto che oggi si potrebbe affermare che amare significhi accettare la persona che si ama così com’ è, con tutti i suoi pregi e difetti, sebbene non manchi chi ragiona sul fatto che pretendere di cambiare chi si ama possa equivalere a non amarlo del tutto, oppure se sia possibile desiderare un mutamento nella persona amata in maniera disinteressata, auspicando cioè una trasformazione che porti quella persona ad essere più felice nel suo esclusivo interesse. In tal senso, pare assai più appropriato il concetto secondo cui ci si innamora di qualcuno per la sua unicità. Secondo i più, innamorarsi è quanto di più sconvolgente e sublime si possa provare, tanto nella gioia quanto nel dolore, qualcosa che si accarezza, si vive e si ruba nutrendo il cuore. E’ la sola emozione della sfera umana che porta oltre la vita, calandosi in un alone di immortalità e infinito sconosciuto allo spirito, di condivisione e complicità, di maturità e determinazione, di interesse e bisogno, di tenerezza e compassione, rappresentando il donare sé stessi all’ altro e fondendosi in una relazione indissolubile di una sola anima. L’ amore riesce quindi a districare quel groviglio di pulsioni, emozioni e passioni che confondono i bisogni e le ragioni, affinché scorrano fluide ed indipendenti, dentro gli infiniti rivoli del nostro cuore.
Naturale conseguenza dell’ esperienza amorosa è il matrimonio, quel particolare impegno tra due persone a vivere insieme risalente agli albori della civiltà umana, tanto che secondo svariate testimonianze avrebbe avuto origine già nella Preistoria, affinandosi costantemente nelle epoche successive assumendo un valore differente a seconda delle culture e del periodo storico, pur basandosi su valori tradizionali quali unione morale, fisica e legale tra un uomo, il marito, e una donna, la moglie, in completa comunità di vita, tesa a fondare una famiglia e una discendenza. Oggigiorno il valore più importante e tutelato dell’ unione coniugale è proprio l’ amore, tanto che la legge sostiene apertamente che un matrimonio può ritenersi valido solo se entrambi i coniugi hanno preso la decisione di unirsi autonomamente, senza pressioni esterne, riconoscendo loro il diritto di divorziare nel caso in cui la reciproca armonia dovesse venire a mancare, cosa che in passato non era affatto scontata: nel corso della storia, infatti, non erano rari i casi in cui un matrimonio veniva combinato dai padri degli sposi, oppure dal padre di lei direttamente con il pretendente ritenuto più idoneo, senza tenere conto dei desideri della sposa, destinata a passare la vita con un estraneo molto diverso da lei oppure più vecchio, finendo con il rivestire il ruolo di merce tesa ad accrescere il patrimonio e l’ importanza famigliari. Nella nobiltà, soprattutto tra le famiglie reali, e in seguito nell’ alta borghesia, il matrimonio significava proprio questo: un contratto, un’ unione vantaggiosa per entrambe le parti e resa indissolubile dai legami di sangue che ne sarebbero derivati, una pratica privilegiata con cui avvicinare vasti e articolati interessi politici e sociali, consacrati dal valore parentale. Tra le famiglie contadine, invece, rappresentava un utile espediente con cui preservare più facilmente il patrimonio terreno all’ interno dello stesso ceppo parentale, ricorrendo abitualmente ad unioni tra cugini, anche di primo grado.
La storia d’ amore tra Vittorio Emanuele II, primo re d’ Italia tra il 1861 e il
1878, appartenente ad una delle più antiche ed illustri famiglie reali europee, dalle origini quasi millenarie, e Rosa Vercellana, meglio nota come «Bela Rosin», una popolana analfabeta, figlia di un militare di carriera e promossa al rango di contessa di Mirafiori e Fontanafredda, rappresenta da sempre una bella storia d’ amore, che continua ad affascinare tuttora per i sentimenti evidentemente autentici sbocciati tra i due in aperta sfida alle loro differenze di rango, alle ostilità della corte sabauda e persino alla proverbiale abitudine da parte di lui a concedersi una scappatella dietro l’ altra, che gli valse una lunga e imprecisata sfilza di figli illegittimi. Lei non fu mai una patriota impegnata nella lotta per l’ unità nazionale, come Giuditta Sidoli, e neppure una testimone seppur minima del Risorgimento, come Olimpia Savio: non parlava mai di faccende di corte o di politica, ma con la sua semplicità permetteva a Vittorio Emanuele di liberarsi dagli impegnativi e solenni abiti del sovrano per indossare quelli di più semplici e gradevoli dell’ uomo amato, compreso e accettato per quello che era veramente. Circa la sua bellezza si discute ancora oggi: con le sue abbondanze e i suoi tratti grezzi aveva certamente il suo fascino, in tono con i criteri dell’ epoca, ma se fosse vissuta un secolo e mezzo più tardi, molto probabilmente non sarebbe diventata modella o un «simbolo sessuale» del fenomeno del divismo, forse nemmeno una comprimaria da palcoscenico.
Quel che unì il sovrano sabaudo e la popolana di provenienza astigiana fu un rapporto di amore vero, vissuto nell’ era del Romanticismo, delle disperazioni amorose, delle lacrime e dei sospiri, degli svenimenti e delle donne fatali, e rappresentò l’ insolita vicenda di una donna qualunque, non ambiziosa e neppure intrigante, ascesa ai vertici della società per la sua avvenenza e, una volta che questa era sfiorita, per la capacità di creare intorno all’ uomo che amava una tranquillità tipicamente borghese, un rasserenante ambiente familiare di cui lui aveva bisogno come persona.
Ritratto ufficiale di Vittorio Emanuele;

Vittorio Emanuele Maria Alberto Eugenio Ferdinando Tommaso di Savoia nacque il 14 marzo 1820 a Torino, figlio primogenito di Carlo Alberto, VII principe di Carignano, e Maria Teresa d’ Asburgo-Lorena di Toscana, figlia di Ferdinando III di Toscana. Trascorse i primi anni della sua vita a Firenze, in quanto il padre, uno dei pochi membri di sesso maschile viventi di Casa Savoia, appartenente al ramo cadetto dei Carignano, era stato costretto a trasferirsi con la famiglia a Novara, dato il suo coinvolgimento nei disordini del 1821, nei quali aveva appoggiato i congiurati che volevano imporre la costituzione a Vittorio Emanuele I, re di Piemonte e Sardegna, finché il suo successore, Carlo Felice, gli fece pervenire un ordine di trasferimento in Toscana, oltre i confini del Regno. Ad appena due anni, il piccolo Vittorio Emanuele fu protagonista di un incidente che portò presto alla nascita di chiacchiere, miti e leggende ancora oggi ampiamente discussi, soprattutto a causa dei rapporti ufficiali preparati in modo frettoloso e confuso: così come venne documentato, la sera del 16 settembre dormiva nella propria culla, circondato da un nugolo di insistenti zanzare, finché la balia Teresa Zanotti Rasca, che lo vegliava, si avvicinò con una candela accesa nell’ intento di bruciarle. Inavvertitamente, la ragazza fece bruciare la culla, e dopo un attimo di spavento si lanciò verso di essa sottraendo il piccolo principe ad una sorte atroce. Se lui riportò leggere scottature al fianco sinistro e alla mano destra, che guarirono in pochi giorni, la sfortunata nutrice invece morì il successivo 6 ottobre, dopo venti giorni di agonia in quanto il suo intero vestito era andato a fuoco, ustionandola gravemente. La ricostruzione lasciò ovviamente alcuni dubbi, dalla culla distrutta dalle fiamme alla povera bambinaia defunta, con il bambino rimasto miracolosamente incolume. Subito dopo, pertanto, si disse che il bambino fosse in realtà morto, e che i genitori, preoccupati per la successione al trono sabaudo, avessero deciso di occultare la tragedia facendolo sostituire con un pargolo della stessa età, figlio di un macellaio di nome Tanaca, di Poggio Imperiale, di cui aveva denunciato ufficialmente la scomparsa, mentre secondo altre voci sarebbe stato scambiato con il bambino di un certo Mazzucca, a sua volta macellaio presso la vicina Porta Romana. Tale ipotesi, sostenuta dal fatto che Tanaca qualche anno dopo sarebbe divenuto improvvisamente ricco, venne tuttavia confutata dalla maggior parte degli storici, che la definirono improbabile e dubbiosa, confinandola nell’ ambito delle semplici maldicenze, soprattutto considerando il fatto che Carlo Alberto e Maria Teresa, ancora in giovane età e quindi pienamente in grado di generare altri figli, appena due mesi dopo, il 15 novembre, ebbero un secondo figlio, il duca Ferdinando di Genova, cosa che di fatto non aveva reso necessario il ricorso a simili stratagemmi, peraltro pericolosi per l’ immagine pubblica del casato. In secondo luogo, tempo dopo Maria Teresa inviò al proprio padre una lettera nella quale descriveva il piccolo Vittorio Emanuele e la sua particolare vivacità: «Io non so veramente di dove sia uscito codesto ragazzo. Non assomiglia a nessuno di noi, e si direbbe venuto per farci disperare tutti quanti.». Evidentemente, se il bambino non fosse stato figlio suo si sarebbe ben guardata dallo scrivere simili parole.
Negli anni seguenti, il granduca Ferdinando III affidò i nipoti Vittorio Emanuele e Ferdinando al precettore Giuseppe Dabormida, che impartì loro una disciplina militaresca. Ora che Vittorio Emanuele stava crescendo, non vi era nessuno che non si interrogasse vedendolo accanto al padre: Carlo Alberto era infatti pallido, alto più di due metri e magrissimo, di carattere timido, riservato e molto pudico, colto, anche se prevalentemente autodidatta, e assai intelligente, mentre il figlio era piccolo, grosso, dal carattere piuttosto aperto ed espansivo, poco amante dello studio, tanto che secondo il suo maestro aveva una certa difficoltà di comprensione: «Dopo che una cosa gli era stata spiegata più e più volte, con le sue domande faceva intendere di non averla affatto capita.». Occorre tuttavia ricordare che i precettori a cui il principe era stato affidato erano «parrucconi mediocri in tutto, rigidi nel pretendere un rispetto dissennato delle formalità, vecchi d’ età e d’ idee, consumati da cattivi pensieri, intrisi d’ etichetta, e ci sarebbe voluta l’ intelligenza di un Nobel per cavare qualcosa di utile dai loro insegnamenti», come affermò lo storico e giornalista Angelo Del Boca.
Vittorio Emanuele in tenuta da cacciatore;

Frattanto, a Torino, nel 1831, Carlo Felice morì senza eredi, fatto che portò all’ estinzione del ramo principale dei Savoia. Il cugino Carlo Alberto rientrò quindi come suo successore, e Vittorio Emanuele lo seguì insieme alla famiglia, venendo affidato ad uno stuolo di alti precettori incaricati di formarlo. La disciplina educativa destinata ai principi di Casa Savoia, soprattutto gli eredi al trono, era sempre stata piuttosto spartana: riceveva tenerezza solo dalla madre, mentre il padre non ne era capace con nessuno e comunque preferiva il secondogenito Ferdinando, mentre gli istitutori, rigidi formalisti scelti in base alla lealtà alla famiglia reale e alla devozione religiosa, gli imponevano orari da caserma sia in estate che in inverno, con la sveglia alle 5:30, tre ore di studio, un’ ora di equitazione, un’ ora per la colazione, poi scherma e ginnastica, altre tre ore di studio, mezz’ ora per il pranzo e la visita di etichetta alla madre, e mezz’ ora di preghiere per concludere la giornata. Gli sforzi dei dotti educatori ebbero scarso effetto sulla refrattarietà agli studi del principe ereditario, che preferiva di gran lunga dedicarsi ai cavalli, alla caccia e a maneggiare la sciabola, oltre che all’ escursionismo in montagna, mentre la grammatica, la matematica, la storia e qualunque altra materia che richiedesse lo studio o anche la semplice lettura erano cose da cui sfuggiva. Le uniche materie nelle quali aveva un certo profitto erano la calligrafia e il regolamento militare. Peraltro, era talmente privo di orecchio e ostile a ogni senso musicale che dovette fare studi appositi per imparare a dare i comandi, in quanto stonava pure in quelli.
Nonostante l’ educazione ricevuta, Vittorio Emanuele dimostrava con una certa fierezza di essere un uomo del popolo: amava la compagnia e l’ allegria, e disprezzava i salotti, era impulsivo e irascibile, ben poco incline all’ etichetta e al protocollo. Adorava combattere e cacciare, era molto sensibile alla buona cucina delle Langhe, ai vini invecchiati e, soprattutto, al fascino delle donne. Abituale frequentatore di trattorie, si intratteneva sempre affabilmente con tutti, parlando in dialetto torinese, la sua lingua corrente anche a corte, limitando il francese alle sole occasioni importanti. Con l’ italiano ebbe per tutta la vita enormi difficoltà. La sola cosa che lo accomunava ai suoi antenati era la passione per la caccia, non solo quella al cervo o al capriolo, ma specialmente quella amorosa: prediligeva le giovani contadine, con cui viveva fugaci amori campestri di cui nessuno si lamentò mai, soprattutto di fronte ai generosi contributi alla dote nuziale della ragazza, che lasciavano sempre tutti ampiamente soddisfatti. Era soprattutto in questo campo che il giovane Savoia denotava il gusto delle cose schiette, privilegiando le donne e i buoi dei paesi suoi, nonché il gusto delle conquiste spicce. Intorno a lui non orbitavano mai donne fatali, men che meno quelle dame tipiche dei salotti culturali e mondani, non visse nessuna di quelle avventure ricercate o esotiche nelle quali altri romantici rampolli di antichi casati dilapidavano patrimoni e sfoggiavano spiccate qualità interiori presso le stazioni termali di mezza Europa, allargando i memoriali e alimentando gli scandali.
Il castello reale di Racconigi;

Come era abituale per un erede al trono, Vittorio Emanuele era stato avviato alla disciplina militare ancora in tenera età: dopo essere stato capitano dei fucilieri a undici anni, a diciotto gli fu concesso il grado di colonnello e il comando di un reggimento. Per lui fu una vera benedizione, non solo per il comando, con cui finalmente avrebbe sfogato la sua ambizione di carattere militare, ma anche perché significava la tanto desiderata fine di quel regime oppressivo che lo aveva tormentato nell’ inutile tentativo di dargli una cultura.
Nel 1842, divenuto generale, dopo un’ estenuante negoziazione che durò due anni, sposò una cugina di primo grado, Maria Adelaide d’ Asburgo-Lorena, figlia dell’ arciduca Ranieri, viceré del Lombardo-Veneto, e Maria Elisabetta, sorella del padre Carlo Alberto. Si trattava ovviamente un matrimonio politico, di un’ unione combinata, sebbene lei fosse perdutamente innamorata di lui, come attestato dalle lettere che gli scrisse prima delle nozze, durante i reciproci scambi di profili, medaglie e miniature. Bruna, magra e di carnagione pallida, attraente nonostante il labbro pendulo tipico degli Asburgo, era più alta della media e del marito: per non sovrastarlo dovette ingobbirsi. Avendo fatto buoni studi con ottimi precettori, conosceva diverse lingue, amava la lettura e la conversazione, sapeva ricamare, lavorare a maglia e ballare. Gentile e premurosa con tutti, ignorava la presunzione e l’ alterigia, non si metteva mai in mostra, adempiendo diligentemente ai suoi doveri di moglie di un futuro re. Possedeva un vastissimo guardaroba, composto da duemiladuecentoquarantotto capi tra abiti, sottane, camicie, pellegrine, pellicce, scialli, velluti, manti, cuffie e ventagli che costituivano il suo corredo nuziale. Il marito, che in privato la chiamava Suzi o Suzette, pur attestandole stima e affetto la tradì costantemente con un’ abbondante schiera di amanti, da cui ebbe un numero di figli illegittimi così elevato da essere rimasto imprecisato, ai quali spesso diede il nome Vittorio o Vittoria ed il cognome Guerrieri o Guerriero, e sempre preoccupandosi di fornire loro una sistemazione. Uno di essi, in particolare, fu Giacomo Etna, che negli anni sarebbe divenuto generale degli Alpini. A partire dal 1844, la sua amante favorita fu l’ attrice teatrale Laura Bon, conosciuta a Torino, e che trattò con grande cura e riguardo, donandole peraltro un lussuoso appartamento in città, affinché potesse condurre agevolmente la sua vita mondana e rimanere comodamente vicina ai teatri. Maria Adelaide dimostrò una costante e straordinaria capacità di sopportazione verso Vittorio Emanuele, soffrendo in un fermo silenzio, in conformità con il suo carattere descritto come dolce, mite, paziente e remissivo, trovando consolazione nell’ educazione dei figli, nel cucito, nelle pratiche religiose e nelle opere pie. Con la stessa simpatia con cui lui faceva parlare di sé, lei veniva reputata una santa. Tra il 1843 e il 1855, marito e moglie ebbero sette figli, e le continue gravidanze minarono il fisico di lei, che per rimettersi in salute prese a trascorrere periodi di soggiorno al mare presso La Spezia, che contribuirono ad accentuare la distanza tra loro. Si mormorava che ogni volta che lei si ritirava in preghiera, lui ne approfittasse per le sue allegre scappatelle.
Noto ritratto della Bela Rosin;

Nel 1847, al castello di Racconigi, amatissimo luogo di villeggiatura della famiglia reale, ebbe luogo un evento molto importante per il principe ereditario, da un anno luogotenente generale: alla fine di una battuta di caccia vide affacciata a un balcone la giovanissima Rosa Vercellana, di cui si innamorò al primo sguardo. Benché appena quattordicenne, era dotata di una pienezza fisica che conturbava notevolmente gli spiccati desideri del rampollo reale: era bruna e sensuale, sebbene non particolarmente ossequiosa ai canoni estetici, con quel viso un po’ squadrato, i lineamenti decisi, gli occhi troppo distanti, un nasino non certo alla francese, il tutto addobbato da una bocca carnosa e una natura corvina che non era solo un colore di capelli ma una profondità fisica di tutto il corpo, stranamente in lei unita a una certa dolcezza. Lui, che stava per divenire padre per la quinta volta, aveva ventisette anni, e per la prima volta in vita sua fu amore nel vero senso della parola: «Bella è bella, molto bella. Gran massa di capelli corvini, occhi scurissimi, carnagione perfetta. Il petto tutt’ altro che acerbo.». I primi incontri tra i due furono ovviamente clandestini, rigorosamente lontani dagli occhi di re Carlo Alberto, che avrebbe disapprovato, e della corte pettegola, anche perché nel Regno di Piemonte e Sardegna vigeva una legge che puniva duramente il rapimento di ragazze al di sotto dei sedici anni dalle rispettive famiglie: uno scandalo avrebbe irrimediabilmente minato il buon nome della famiglia più importante del regno, tenuta a dare il buon esempio al popolo, rispettando la legge e la morale ed evitando qualsivoglia leggerezza e lussuria. La ragazza, residente a Pinerolo e che come il novanta percento della popolazione di quel tempo era analfabeta, venne quindi trasferita nella residenza della palazzina di caccia di Stupinigi, molto più vicina a Torino, in una dipendenza del parco stesso, ove gli incontri sarebbero stati più sicuri. Inizialmente, nulla avrebbe fatto supporre che fosse nato qualcosa di speciale tra i due, invece restarono tenacemente legati l’ uno all’ altra, e gli incontri presero a ripetersi sempre più abitualmente, tanto che la servitù e i pochissimi informati iniziarono a spettegolare, sia pur con prudenza e riguardo, domandandosi chi fosse questa giovincella che pareva proprio aver conquistato il cuore di Vittorio Emanuele: Rosa Vercellana era nata a Nizza Marittima l’ 11 giugno 1833, figlia di Giovanni Battista Vercellana, un militare originario di Moncalvo, e Maria Teresa Griglio. Il padre aveva fatto parte della Garde Impériale, la guardia del corpo dell’ Imperatore dei francesi, i cui reggimenti erano formati dai migliori uomini reclutati dagli eserciti europei degli Stati sottomessi, e che combattevano in solenni alte uniformi, ma nel 1814 si era rifiutato di seguire Napoleone nella sua fuga dall’ Elba, entrando nei granatieri di Casa Savoia, con il grado di tamburo maggiore. Attualmente era membro della guardia personale di Carlo Alberto, a cui era devotissimo, e Vittorio Emanuele lo definì «una perla d’ uomo», nonché un ottimo soldato fedelissimo al casato.

Frattanto, in Europa e nella penisola italiana, passate attraverso la Rivoluzione francese, il Primo Impero, il Congresso di Vienna e la Restaurazione, fervevano nuove idee e tensioni. In Italia in particolare, tuttora divisa in otto Stati, si era sviluppata la Carboneria, una società segreta rivoluzionaria dagli ideali liberali e patriottici, di cui avevano fatto parte molti personaggi di rilievo, come Giuseppe Mazzini e Carlo Alberto. In seguito al fallimento dei carbonari, lo stesso Mazzini aveva fondato nel 1831 a Marsiglia la Giovine Italia, tesa a dar vita ad un’ Italia repubblicana. Le prime rivolte avevano spesso avuto esiti disastrosi, come il cosiddetto Fiasco di Savoia e l’ uccisione dei fratelli Bandiera. Ma ormai in diverse zone d’ Italia le cose erano mutate, al punto che nel 1847 re Ferdinando II delle Due Sicilie, tenendo conto delle insurrezioni in Campania, Basilicata, Calabria e Sicilia, pur represse dall’ esercito, concedette la costituzione, gesto un anno dopo imitato da Carlo Alberto, che nel 1848 introdusse nel Regno di Piemonte e Sardegna lo Statuto Albertino e, soprattutto, diede avvio al Risorgimento, il grande fenomeno di riunificazione nazionale dai tempi della caduta dell’ Impero romano d’ Occidente, pur riportando esiti disastrosi contro l’ Impero austriaco a Custoza e Milano, e soprattutto a Novara nel 1849, particolare disfatta che il 24 marzo lo portò ad abdicare in favore del figlio primogenito, che salì al trono come Vittorio Emanuele II, quarantesimo signore della dinastia, impegnandosi duramente nelle trattative con gli austriaci, riuscendo ad attenuare le condizioni dell’ armistizio, e in poco tempo venne soprannominato «Re Galantuomo» per aver accettato il sistema della monarchia costituzionale pur essendo di idee conservatrici e aver scelto di rispettare le decisioni del suo governo anche nel caso in cui non avrebbe concordato. Il Parlamento, a maggioranza democratica, gli era ostile e non voleva ratificare il trattato di pace con l’ Austria, che occupava Alessandria, ma lui lo sciolse e indisse nuove elezioni invitando gli elettori tramite il Proclama di Moncalieri a votare deputati moderati: il nuovo Parlamento risultò composto per due terzi da moderati favorevoli al governo di Massimo d’ Azeglio. Lo Statuto Albertino non gli era congeniale, ma lo accettò come segno di lealtà costituzionale, analogamente alle leggi Siccardi contro i privilegi del clero, che firmò pur non condividendole. In seguito, il 4 novembre 1852, con la propria ascesa alla carica di Primo ministro del Regno, nella sua vita di monarca entrò un personaggio che avrebbe acquisito enorme importanza, mutando radicalmente le sorti di Casa Savoia e d’ Italia: il conte Camillo Benso di Cavour. Figlio di un proprietario terriero e amministratore di grandi proprietà uscito indenne dalla bufera napoleonica, non godette mai della simpatia del re, il quale probabilmente ricordava di quando questi, ancora giovane, era stato segnalato come infido e capace di tradire a seguito delle sue esternazioni repubblicane e rivoluzionarie durante il servizio militare. Tra i due si instaurò un saldo ma faticoso connubio politico, durante i quali Vittorio Emanuele arrivò più volte a limitare le azioni del suo Primo ministro, anche a costo di mandargli in fumo svariati progetti politici, alcuni dei quali di notevole portata. Ciononostante, nei dieci anni tra il 1849 e il 1859 il conte si dedicò efficacemente all’ ammodernamento del Regno e alla sua riorganizzazione: da una parte finanziava i moti rivoluzionari, o li tollerava, e dall’ altra proponeva come soluzione del problema dei disordini l’ ampliamento del reame sabaudo, che con la partecipazione alla guerra di Crimea come alleato del Secondo Impero francese, retto da Napoleone III, si affacciò con una certa importanza alla scena internazionale. In seguito, con gli accordi segreti di Plombiéres, l’ astuto statista ottenne la promessa dell’ appoggio francese in caso di attacco austriaco in cambio della Savoia, di Nizza e della corona del Regno delle due Sicilie, che sarebbe spettata al principe Girolamo Bonaparte di Montfort. Tra il 1859 e il 1861, grazie ad una serie di azioni ingegnose e occasioni favorevoli Casa Savoia riuscì insperatamente a unire l’ Italia sotto propria la corona: il 17 marzo 1861, Vittorio Emanuele, che aveva sempre desiderato proseguire la politica espansionistica dei suoi avi, divenne il primo re d’ Italia, benché mancassero ancora importanti territori quali il Veneto, il Friuli, la Venezia-Giulia e il Trentino-Alto Adige, tuttora entro i confini austriaci, il Lazio, parte dello Stato Pontificio, e il meridione, rimasto sotto il Regno delle Due Sicilie. Con l’ eccezione del Trentino-Alto Adige e del Friuli-Venezia Giulia, tutte queste zone vennero gradualmente annesse all’ Italia sabauda in una serie di azioni che durarono fino al 1871, mentre la capitale veniva spostata nel 1865 da Torino a Firenze, per poi essere definitivamente stabilita a Roma il 21 gennaio dello stesso 1871.
Il conte Emanuele Guerrieri;

Nonostante la sua intensa vita di re, trascorsa in un periodo molto particolare della storia del suo casato e della nazione su cui venne chiamato a regnare, Vittorio Emanuele non trascurò quella personale e le proprie passioni, soprattutto quelle amorose. Benché innamorato di Rosa, che divenne famosa come «Bela Rosin», non smise di frequentare l’ attrice Laura Bon, che nel 1849 per lui lasciò le scene, andando a vivere al castello di Moncalieri, ove condusse un’ esistenza dorata e piena di riguardo. I due amanti ebbero peraltro una figlia, Emanuela, nata prematura nel 1853, e che venne nominata dal padre contessa di Roverbella. Tuttavia, a causa della gelosia manifestata verso la giovane Rosa, l’ artista venne congedata e costretta a lasciare il vecchio Piemonte, riprendendo a calcare le scene a Firenze, Vienna e Napoli, vivendo gli ultimi anni della propria vita in povertà, al punto da dover recitare con compagnie teatrali modeste a Venezia, ove morì nel 1904. Altre donne condividevano le sue attenzioni, come l’ attrice quindicenne Emma Ivon, che frequentò a Firenze nel periodo in cui questa era la capitale nazionale: aveva perso la testa per lei, e spendeva somme enormi fino al giorno in cui, giunto da lei a sorpresa, la trovò tra le braccia di un ufficiale napoletano. Altra amante degna di nota fu la celeberrima contessa Virginia Oldoini di Castiglione, cugina del conte di Cavour, che nei suoi carnet, piccole agende che spesso le dame tenevano legati ai polsi, registrava gli incontri di ogni giornata, contrassegnando i nomi con una lettera, a seconda del carattere dell’ incontro: pare che la lettera F, che non mancava mai e spesso seguiva quello del Re Galantuomo, significasse «incontro carnale». Ironizzando sulle sue continue vicende ardenti, Massimo D’ Azeglio, già convinto della veridicità delle voci sullo scambio di neonati a seguito dell’ incendio della culla a Firenze, ebbe a dire: «Se continua così, più che il padre della patria sarà il padre degli italiani…».
Con l’ andare del tempo, Rosa si rivelò la donna ideale per il sovrano: sempre di buon umore, mai musona, tenace e convinta del valore dei sentimenti. Aveva compreso di non potersi aspettare la fedeltà fisica, e, ironicamente, lasciandolo libero lo legò ancora di più a sé. Qualche tempo dopo i loro primissimi incontri, i Vercellana richiesero un contributo affinché lei potesse rifarsi una vita con un sergente dell’ esercito, ma inaspettatamente Vittorio Emanuele reagì, e lo sfortunato rivale venne mandato in Sardegna. Peraltro, la ragazza di campagna si rivolse al suo principe per ottenere la grazia a beneficio del fratello Domenico, che era stato messo agli arresti. Tempo dopo, la sua posizione cominciò a divenire evidente quando Vittorio Emanuele, ormai re, esonerò il generale Cigala, in servizio a corte da trent’ anni, perché le aveva negato una vettura con lo stemma dei Savoia. Quando le cose tra i due amanti si fecero serie e le voci iniziarono a trapelare, presto emerse dal nulla una crescente schiera di parenti che, sempre vestiti a festa, accompagnavano la giovane praticamente ovunque, che fosse a teatro o durante la passeggiata attraverso il Parco del Valentino: vi fu perfino una vecchietta che aveva sempre venduto fiammiferi sotto i portici che incominciò addirittura a parlare del monarca come di «suo nipote Vittorio». Il sovrano reagì prontamente, ridimensionando con forza i pinerolesi dalla schiera degli aiutanti. Rosina riuscì comunque a piazzare a corte un cugino, Natale Aghemo, che divenne conte e addirittura capo di gabinetto di Vittorio Emanuele.
Ormai apertamente sulla bocca di tutti, questa relazione suscitò scandalo e ostilità sia a corte che presso l’ aristocrazia, ove imperavano bigottismo e alterigia, ma Vittorio Emanuele non cedette alle pressioni, e spesso ricordava a tutti e senza mezzi termini di essere il re. Affiancò a Rosa una dama di compagnia, Madama Michela, con il compito di insegnarle le buone maniere, ma per quanto lei si addobbasse con vistosi gioielli e sontuosi vestiti, venne sempre disprezzata ed evitata dalla nobiltà. I due amanti ebbero due figli, Vittoria ed Emanuele Guerrieri, nati rispettivamente nel 1848 e nel 1851 e denunciati come figli di ignoti. Maria Adelaide fu la sola a non accusare mai il colpo, andando costantemente avanti tra sorrisi e opere pie, sebbene un diplomatico francese di nome Ideville riferì che la regina un giorno incontrò uno dei figli di Vittorio e Rosina durante una passeggiata nel castello di Stupinigi e lo prese tra le braccia con il volto inondato di lacrime. Il 20 gennaio 1855, ella morì a seguito di un’ improvvisa e violenta gastroenterite manifestatasi mentre si trovava in carrozza, al ritorno a palazzo dai funerali della suocera Maria Teresa d’ Asburgo-Toscana. La sua agonia fu atroce, tanto che i suoi gemiti si udivano nella vicina piazza. Impietrito al suo capezzale, Vittorio Emanuele le tenne la mano sino all’ ultimo respiro. La morte della sua regina fu un duro colpo per lui, abbastanza forte da mettere per qualche tempo in crisi la convivenza con Rosa. Il sovrano manifestò un sincero dolore per la scomparsa della consorte, che aveva svolto magnificamente il proprio ruolo istituzionale, come una vera Asburgo, senza mai opporre ostacoli alla sua politica o compromettere il suo buon nome. Ora che il regnante si trovava vedovo, il conte di Cavour e i suoi ministri si interessarono vivamente alla preparazione di un nuovo matrimonio politico, identificando una cerchia di candidate ideali sulla base dei benefici dinastici che avrebbero portato con sé. La sola idea che sposasse ufficialmente la tanto invisa campagnola era intollerabile, e il Primo ministro in particolare non ebbe scrupoli a ricorrere a tenaci e costanti manovre che spesso sconfinarono nella minaccia pur di separare i due amanti: la Bela Rosin era impresentabile, avrebbe certamente finito con il gettare discredito sull’ immagine del re e Casa Savoia proprio ora che erano al centro di tutti i progetti per l’ unità d’ Italia, quindi non lasciò nulla di intentato nella sua opera, arrivando perfino a dire che lo tradiva, ma lei si difese con intelligenza affermando che non avrebbe mai potuto avere altri amanti perché i focosi assalti di Vittorio Emanuele erano piuttosto stancanti. Lo stesso re scrisse in una lettera: «Io non sposerò altra donna che lei!». Si racconta che quando il monarca convocava insieme il suo Primo ministro e la sua compagna in qualche residenza, loro viaggiassero sullo stesso treno ma su carrozze separate, però, una volta casa, lei cucinava risotti e tajarin di fronte ai quali anche il duro capo di governo tendeva ad ammorbidirsi.
Dopo la brillante partecipazione del Piemonte alla Guerra di Crimea, i sovrani di mezza Europa si mostravano interessati ad imparentarsi con Vittorio Emanuele, signore di quel piccolo Stato che, grazie al genio del conte di Cavour e all’ evolversi della situazione internazionale, stava espandendosi riscuotendo forti simpatie in ambito europeo: l’ imperatore Napoleone III voleva offrirgli una principessa dei belgi, mentre la regina Vittoria del Regno Unito, che lo invitò a Windsor per insignirlo dell’ ordine della Giarrettiera, pur avendo espresso privatamente alcuni dubbi su di lui, avanzò la candidatura di sua figlia Mary. Altri invece pensarono alla cognata Elisabetta di Sassonia, vedova del fratello Ferdinando di Genova. Benché comprendesse il prestigio e i numerosi vantaggi che avrebbe tratto da tali unioni dinastiche, il Re Galantuomo oppose sempre un fermo diniego: a proposito della principessa Mary, ad esempio, disse che «sapeva troppo di greco e di latino», manifestando una certa allergia verso la donna colta e al tempo stesso bellissima ed intrigante. Il re eluse con ostinazione i piani matrimoniali del suo governo, pensando sempre più spesso che Rosa fosse la sposa ideale per lui: cucinava per lui i cibi tradizionali della cucina piemontese, gli tagliava le unghie dei piedi, come tradizione nelle campagne, lo trattava con l’ affetto e la deferenza delle mogli borghesi dell’ epoca. Addirittura, nelle cene ufficiali non toccava cibo, mettendo tutti i commensali in imbarazzo. Ostile ad ogni forma di etichetta, nel proprio animo si considerava un borghese, un proprietario terriero, e lei lo faceva sentire tale. Lo seguì in ogni suo trasferimento lungo l’ Italia, sempre defilata ma presente: «E’ la compagna indivisa delle mie pene.».
In seguito, l’ 11 aprile 1858, la nominò contessa di Mirafiori e Fontanafredda, comprando per lei anche il castello di Sommariva Perno, con la possibilità di trasmettere il titolo al figlio Emanuele. Isolata e disprezzata dai nobili, Rosa fu invece amata dal popolo per le sue origini contadine: si dice che la canzone popolare risorgimentale «La bella Gigogin» si riferisse in realtà a lei, e il soprannome Bela Rosin veniva pronunciato sempre con affetto e rispetto. Nel 1863 si trasferì negli Appartamenti Reali di Borgo Castello. Tale residenza, che non apparteneva alla Corona ma al patrimonio privato del re, rimase sempre la preferita della coppia, poiché Vittorio Emanuele amava rifugiarvisi per cacciare e sfuggire alla vita di corte.
Vittorio Emanuele con Rosa e i figli;

Anche se in circostanze drammatiche, nel 1869 giunse finalmente la grande svolta nel loro rapporto. Dopo una tenace opposizione da parte di governo e aristocrazia, i due poterono sposarsi: a dicembre, Vittorio Emanuele fu colpito da una forte polmonite, che per i medici sarebbe stata fatale, e complice il fatto che il conte di Cavour era morto nel 1861, pochi mesi dopo la proclamazione dell’ Italia unita, si parlò apertamente di un matrimonio religioso, al quale il parroco di Mirafiori già lavorava da tempo. La notte del 18, alla presenza del principe ereditario, Umberto di Piemonte, figlio secondogenito del re, del Primo ministro Luigi Federico Menabrea e di pochi intimi, Vittorio Emanuele ricevette in articulo mortis il sacramento del matrimonio, e quello dell’ estrema unzione, sebbene qualche tempo dopo guarì e, nel giro di un anno, entrò trionfalmente a Roma. Quasi otto anni dopo, il 7 novembre 1877, nella Villa Mirafiori di Roma, sarebbe stato celebrato anche il matrimonio civile, del quale però non esistono documenti. Le nozze tra il Re Galantuomo e la Bela Rosin furono morganatiche, che escludevano sia la moglie che i figli dall’ ereditarietà e dall’ acquisizione dei titoli e del marito. Rosa, quindi, non fu mai regina, traguardo a cui pare che non mirasse neppure, sebbene qualche storico sia convinto del contrario. Sicuramente, Vittorio Emanuele avrebbe tanto voluto condividere la corona con lei, trovandosi tuttavia costretto a cedere a pressioni politiche, veti dei figli legittimi e questioni di immagine. Il successo di Casa Savoia, unica famiglia reale rimasta sulla scena italiana, fu un peso sulla loro vita coniugale che furono tenuti sempre ad accettare: non potevano far parlare di sé, dando il minimo appiglio agli oppositori, fossero essi aristocratici locali nostalgici delle precedenti famiglie reali oppure repubblicani. Rosa risiedeva in una villa sulla Salaria, che il re raggiungeva ogni giorno uscendo dalla foresteria del Quirinale, che non amava particolarmente, e viveva nel più stretto riserbo, accettando la condizione di moglie ombra. Le residenze dove lei abitava, dalla Mandria di Venaria alla Pietraia nei pressi di Firenze, passando per Villa Mirafiori, fatta costruire proprio per lei sulla Nomentana a Roma, furono le vere case anche del sovrano, quelle dove trovava una vera famiglia, con lei che lo aspettava per dargli tutto quello che una brava moglie sa dare a un marito, divenendo il suo rifugio tranquillo e appartato dalle noiose cerimonie e dagli interminabili ricevimenti, l’ oasi di benessere semplice, quasi borghese, campagnolo ed erotico, sempre pronta ad accoglierlo e viziarlo con piatti di tajarin, agnolotti, cinghiale in civet e barolo davanti al caminetto, oltre che con passeggiate a braccetto nei boschi e tra le vigne, lontano dagli intrighi di corte. Certo, si vestiva in modo un po’ chiassoso, a un certo punto della vita sembrava un po’ troppo incline agli sfarzi, per quanto sempre relativi, mentre lui non metteva mai a freno i propri istinti amorosi, conquistando una bella e focosa amante dopo l’ altra. Ma la Bela Rosin aspettava sempre, paziente e fiduciosa, e lui tornava puntualmente da lei, pronta a togliergli gli stivali, a porgergli un sigaro intinto nel cognac e a preparagli un buon piatto di bagna caoda. Le residenze ufficiali a lei erano precluse, ma questo non le impedì di organizzare con una certa bravura un proprio regno all’ interno delle sue eleganti tenute.
Se perfino Laura Bon, la sua più accesa rivale, l’ aveva trovava bella è certo che secondo i criteri dell’ epoca lo fosse davvero, ma dalle fotografie attualmente rimaste l’ aggettivo che più le si addice è «riposante»: forse fu proprio questo il suo lato caratteriale più importante, la base sicura della decennale storia d’ amore con il Re Galantuomo. In tali fotografie, che la ritraggono in età matura, appare rotondetta, serena, paciosa, matronale e protettiva, con l’ aria da popolana rifatta. Non ha più il fascino acerbo della ragazzina scorta per la prima volta al castello di Racconigi, ma certamente basa su altri mezzi il proprio potere di seduzione. Fu una donna riposante e semplice, spettatrice di primo piano della storia del Risorgimento, che visse di riflesso, come dalle finestre di un’ elegante e pacifica alcova, e certamente non inquietante o disinibita come la contessa di Castiglione, inviata dal conte di Cavour a Parigi per sedurre Napoleone III affinché fosse più propenso ad appoggiare gli interessi del governo di Torino. E neanche fatale, profonda, graziosa e inattingibile come la baronessa milanese Metilde Viscontini Dembrowski, coinvolta nel 1821 in una congiura contro gli austriaci, di cui Henri Beyle, in arte Stendhal, s’ innamorò perdutamente senza essere riamato.
Il Mausoleo della Bela Rosin, a Mirafiori, Torino;

Il 9 gennaio 1878, Vittorio Emanuele morì al Quirinale, a seguito di una polmonite derivante da una notte trascorsa all’ addiaccio presso il lago nella sua tenuta di caccia laziale in occasione di una battuta venatoria. La commozione che investì rapidamente la nazione fu unanime, e i titoli dei giornali la espressero facendo uso della retorica tipica del periodo. La sua Rosa era lontana, colpita da un’ influenza nella tenuta della Mandria, a pochi passi da Torino, uno dei tanti nidi d’ amore in cui alla coppia piaceva trascorrere le vacanze. Il Padre della Patria venne seppellito al Pantheon, pur avendo espresso il desiderio di riposare eternamente nella Cripta Reale della Basilica di Superga, ove erano già stati tumulati alcuni membri di Casa Savoia, come il padre Carlo Alberto. In occasione dei suoi solenni funerali, a cui parteciparono esponenti di governi e famiglie reali, nonché diplomatici e militari di alto rango, Roma fu invasa da una moltitudine sconfinata, comprendente circa duecentomila persone. Sul trono del neonato regno italiano salì il figlio Umberto di Piemonte, freddo, autoritario e compassato, che pur essendo il quarto capo del casato a portare questo nome decise di chiamarsi Umberto I per rispetto verso la patria, a differenza del padre, che non aveva ritenuto opportuno cambiare il numero per sottolineare la continuità dinastica.
Dopo la morte dell’ amato marito, la Bela Rosin fu definita persona non gradita da Margherita, moglie di Umberto e prima regina d’ Italia, che analogamente al marito l’ aveva sempre trattata con distacco, come un’ intrusa. Le vennero requisite tutte le residenze in cui abitava ad eccezione del Castello di Sommariva Perno. Malinconica e nostalgica, assunse il ruolo di vedova ombra, al punto che la corona di fiori che inviava al Pantheon ogni anno in occasione dell’ anniversario della morte di Vittorio Emanuele non recava alcun nome. Trascorse quindi il resto della sua vita presso Palazzo Beltrami, a Pisa, ove morì di diabete il 26 dicembre 1885, dopo aver spesso ripetuto di essere «sopravvissuta» all’ amato consorte. Casa Savoia vietò espressamente che venisse seppellita al Pantheon, non essendo mai stata regina: per questo motivo, in aperta sfida alla corte di Roma, i figli Vittoria ed Emanuele decisero di riunire moralmente i genitori facendo edificare a Mirafiori un Pantheon in miniatura, il «Mausoleo della Bela Rosin», in cui deposero le spoglie mortali di lei, che vi rimasero fino al 1972, quando furono spostate al Cimitero monumentale di Torino per evitare profanazioni e vandalismi ai danni della tomba. Oggi, in seguito ad un grave periodo di degrado, il Mausoleo di Mirafiori è sede espositiva gestita dalle biblioteche civiche torinesi.
Mentre i Savoia consolidavano la propria posizione sulla scena nazionale e internazionale cogliendo l’ eredità di Vittorio Emanuele II, Vittoria ed Emanuele Alberto Guerrieri vissero un’ esistenza decorosa e tranquilla, lontana dai clamori e dalla notorietà. Lei sposò nel 1868 il marchese Giacomo Filippo Spinola, primo aiutante di campo del sovrano, e poi con il fratello Luigi, mentre lui, che nel 1866, appena quindicenne, aveva partecipato insieme al padre alla Terza Guerra d’ Indipendenza, svolse attività di produttore di vini e altri prodotti agricoli nei territori di Serralunga d’ Alba e Barolo, fungendo da presidente di associazioni di ex combattenti e sportive. Fondò le rinomate Cantine di Fontanafredda, prestigiosa ditta vinicola ancora esistente, dimostrandosi un valente pioniere della viticultura piemontese. Sposò Bianca Enrichetta de Larderel, una nipote del conte Francesco Giacomo de Larderel di Montecerboli, da cui ebbe due figli, il secondo dei quali, Gastone, prese in moglie Margherita Boasso, da cui ebbe una sola figlia, Vittoria, che convolò a nozze con il conte Melchiorre Gromis di Trana, da cui nacquero sei figli, il secondo dei quali, Gastone, fu padre di Caterina, classe 1962, etologa e autrice di libri sugli animali nativa di Torino, dove risiede tuttora.
La contessa Caterina Gromis di Trana;

Quella tra Vittorio Emanuele e Rosa fu senz’ altro una bella storia di amore, forse addirittura la più famosa del Risorgimento, e si intrecciò in modo unico con la tappe dell’ unità nazionale e con le prime vicende del neonato Regno d’ Italia. Nonostante la sua natura poligama, che visse beatamente anche dopo averla conosciuta, il Re Galantuomo vide costantemente nella Bela Rosin la propria anima gemella, il suo spirito complice e confortante, la fonte più autentica della sua felicità, da cui ebbe i figli che molto probabilmente amò più di tutti gli altri. Fu senz’ altro un amore intenso e passionale, vissuto rigorosamente nel segreto delle loro stanze da letto, perfettamente armonioso a dispetto della differente provenienza sociale dei due, visto dal di fuori e nel tempo soprattutto come una relazione pacata, domestica e familiare, rasserenante e straordinariamente capace di resistere alle pressanti difficoltà affrontate, prima tra tutte la ferma opposizione da parte del potente conte di Cavour, uomo dalla mente raffinata, vasta ed intricata. Fu un rapporto davvero straordinario, come dimostrato dai ritratti in cui i due appaiono insieme: entrambi tracagnotti, con lo sguardo fiero, dritto e profondo di chi sa cosa vuole dalla vita, immersi in una bella aria di campagna, a conferma del vecchio detto secondo cui chi si assomiglia si piglia.
Perfino il loro matrimonio morganatico, che impedì a lei di divenire regina e ai due figli di acquisire il nome dei Savoia e di entrare conseguentemente nella linea di successione al trono d’ Italia, fu una notevole eccezione, in un’ era in cui principi e principesse di sangue reale si sposavano soltanto tra di loro stringendo vincoli di interesse e arricchendo la discendenza dinastica, a beneficio esclusivo della ragion di Stato e di casta: celebrato quando lui pareva ormai al termine della sua esistenza, più di ogni altra cosa dimostrò un sincero e raro amore.

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