giovedì 12 ottobre 2017

All' ombra di un culto tibetano controverso

XIV Dalai Lama;

In questi ultimi anni il Buddhismo tibetano è divenuto una delle più note e seguite forme di spiritualità in tutto il mondo. In Occidente annovera un sempre crescente numero di praticanti o semplici interessati. Riscuote generali apprezzamenti in ogni ambiente, nella convinzione che rappresenti una delle forme filosofiche e spirituali più profonde e complete, e i suoi maestri, primo tra tutti il XIV Dalai Lama, vincitore del Premio Nobel per la Pace nel 1989, sono ormai figure sempre più familiari e stimate.

Monastero di Drepung, a Lhasa;
Il Tibet è un’ immensa regione dell’ Asia centrale, posta sull’ altopiano più elevato al mondo, tra Cina e India. Un tempo i tibetani erano un popolo guerriero composto da tribù nomadi e seminomadi di allevatori e pastori, dediti a una cultura sciamanica e spiritistica, e nell’ VIII secolo entrarono per la prima volta in contatto con il Buddhadharma, termine sanscrito usato per indicare il Buddhismo, per mezzo di Padmasambhava, un insigne maestro ed esorcista indiano di scuola tantrica, basata su tecniche avanzate con cui raggiungere velocemente il Risveglio. Secondo una suggestiva leggenda, al suo arrivo in Tibet il «Prezioso Maestro» si scontrò con le divinità e gli spiriti locali, ostili all’ insegnamento del Buddha, e li assoggettò ricorrendo a sconfinati poteri soprannaturali con cui fece di loro una schiera di Dharmapala, ossia «protettori del Dharma» in sanscrito, entità spirituali incaricate di eliminare gli ostacoli interni ed esterni che impediscono al praticante buddhista di conseguire le realizzazioni spirituali. Nechung, l’ attuale oracolo di Stato e protettore del lignaggio dei Dalai Lama, è forse l’ esempio più noto di Dharmapala soggiogato da Padmasambhava.
Nei secoli successivi alla venuta del maestro indiano, il Buddhismo tramontò in Tibet con il ritorno dell’ antica tradizione Bön, per poi riaffermarsi suddiviso in quattro diverse scuole, ossia Nyingma, Kagyu, Kadam e Sakya, contraddistinte le une dalle altre da testi, tecniche meditative e specifici Dharmapala. Erede dell’ antica spiritualità Bön, che non scomparve mai del tutto, il Buddhismo tibetano diede un certo risalto all’ astrologia, agli oracoli e ai presagi, e tra le sue particolarità più suggestive figura senz’ altro il sistema dei tulku, i maestri reincarnati che in virtù delle loro qualità eccelse scelgono volontariamente di reincarnarsi per continuare a insegnare di vita in vita anziché accedere al Nirvana al momento della morte. La cultura tibetana subì moltissimo l’ influenza della nuova religione, e venne fortemente indirizzata allo spirito della nonviolenza. La popolazione divenne presto assai devota, al punto che in ogni famiglia, che appartenesse all’ aristocrazia feudale o al ceto contadino, divenne consuetudine avere almeno un monaco o una monaca. Eppure, com’ è nella natura di tutte le cose tipicamente umane, anche negli ambienti monastici buddhisti si alternarono luci e ombre: nel corso dei secoli, quando il Tibet era ancora un Paese autonomo e indipendente, la sua teocrazia, composta da potenti lama e monaci funzionari coinvolti con i nobili feudali nel governo terreno, agiva spesso in maniera arbitraria e ingiusta. Svariati lama erano coinvolti in faccende poco limpide, e altri si svagavano in faccende secolari lasciandosi prendere la mano dal potere, agendo più per sé stessi che per il bene comune. Solo alcune guide spirituali particolarmente rette non si immischiavano nella politica, attendendosi ai principi indicati dal Buddha e prediligendo una vita semplice, fatta di saggezza e compassione. Il Tibet non era esente da corruzione e assassini, e pochi lama e monaci soltanto seppero conservare la vera essenza del Buddhismo. In un contesto del genere risulta emblematica la lunga vicenda di Dorje Shugden, un’ entità spirituale di aspetto irato e terrificante dalla natura profondamente discussa e ormai sempre più comune non solo nei luoghi tradizionali quali Tibet, Mongolia, India settentrionale, Nepal e Cina sudorientale, ma anche nei Paesi occidentali, soprattutto Europa e America settentrionale. Dharmapala per alcuni e demone dal potere terribilmente nocivo per altri, oggi tra i tibetani la pratica del suo culto si è sempre più ridotta in confronto al passato, ma si è progressivamente espansa nei crescenti centri occidentali.
Alla luce di intense e animate dimostrazioni portate avanti dai discepoli occidentali del culto e perfino di determinati atti di violenza avvenuti in Oriente negli ultimi anni risulta sempre più urgente affrontare con animo equanime l’ antica controversia legata a questo culto, che da una parte vede schierato il Dalai Lama e dall’ altra un’ ala di lama e monaci dalle posizioni inflessibili.

Dorje Shugden;

Nel XVII secolo, il Tibet era una terra frammentata in vari potentati coinvolti in guerre e tensioni con gli imperi vicini, soprattutto Cina e Mongolia. Il V Dalai Lama, coreggente del Monastero di Drepung insieme a Tulku Drakpa Gyaltsen, nonché uno dei più rispettati lama reincarnati di scuola Gelug, fondata dal lama tibetano Tzong Khapa, erede della tradizione Kadam, ispirata dal maestro bengalese Atiśa, si recò personalmente in Mongolia per aprire i negoziati con i khan, a cui ebbe peraltro l’ opportunità di insegnare i principi del Buddhismo. I mongoli rimasero così colpiti dalle sue qualità sia diplomatiche che spirituali da accordargli la suprema autorità politica su tutto il Tibet, rendendolo di fatto un sovrano assoluto. Rientrato nel Paese delle Montagne, egli confermò la città di Lhasa come capitale e avviò la costruzione del maestoso palazzo del Potala, il centro del potere politico e religioso, e volendo consolidare sia la propria autorità che la stabilità della nascente nazione, intuì pur diffondendo i principi Gelug di doversi aprire senza esclusivismi anche alle altre tre scuole, ricevendo e dando insegnamenti. Tuttavia, l’ ala più conservatrice dei Gelug disapprovava tale atteggiamento e si schierò con Tulku Drakpa Gyaltsen, che in parte si opponeva all’ entrata in politica dei Gelug, nella convinzione che ciò avrebbe contaminato l’ insegnamento di lama Tzong Khapa, e in parte disapprovava gli insegnamenti di scuola Nyingma, la più antica, attribuita direttamente a Padmasambhava e basata sullo Dzogchen, a cui il V Dalai Lama dava molta importanza: a giudizio suo e dei Gelug a lui vicini, lo Dzogchen, che si richiamava al concetto di rigpa, che in tibetano significa «intelligenza» o «consapevolezza», era erede della scuola cinese Chán, che venne bandita dal Tibet nell’ VIII secolo a seguito di un dibattito tenutosi al Monastero di Samye tra il pandit Kamalshila e il maestro cinese Hoshang, che venne battuto, e promuoveva il principio di Ātman indù tradizionalmente confutato dal Buddha. In quel tempo molti lama e monaci tibetani promuovevano solo quegli insegnamenti ritenuti validi da tutti, affiancandoli ai sūtra tradizionali. I Gelug in particolare dubitavano dell’ efficacia di certe pratiche Nyingma, credendole difficili da applicare a favore del prossimo senza la dovuta preparazione e la necessaria compassione. Molte di esse venivano scoperte da yogi che dicevano di averne recuperato i testi nascosti tra le rocce, nelle grotte, sotto i sassi dei fiumi o addirittura di averle ricevute in sogno o in una visione di Padmasambhava. La maggioranza dei Gelug non vi prestava fede, e sconsigliò vivamente di non avventurarsi in esperimenti pericolosi senza un’ adeguata preparazione e la certezza della loro origine ed efficacia. Dal canone tibetano furono pertanto escluse gran parte di queste dottrine, che però si svilupparono più agevolmente tra i Nyingma e i Kagyu.
Tra i due lama reincarnati alla guida del Monastero di Drepung esistevano peraltro seri motivi di dissidio. Tulku Dragpa Gyaltsen era infatti considerato la reincarnazione di un grande lama, ed era il detentore della Residenza Superiore, che gli occhi di molti confermava una certa superiorità del suo rango in confronto a quello del V Dalai Lama, possessore della Residenza Inferiore: la loro rivalità e le gelosie reciproche non fece che precipitare a causa di queste divergenze di opinione, tanto che nel 1655, mentre il Tibet assumeva sempre più l’ assetto di nazione teocratica, in cui monaci e aristocratici fondiari accentravano nelle proprie mani un enorme potere, Tulku Dragpa Gyaltsen venne trovato morto nei suoi appartamenti in circostanze misteriose, forse stroncato da una malattia infettiva, ma i suoi discepoli accusarono prontamente il Reggente di aver inviato alcuni sicari che l’ avrebbero brutalmente ucciso facendogli ingoiare una sciarpa per ristabilire l’ onore e il prestigio del V Dalai Lama, e com’ è tipico in un Paese altamente spiritualista e addirittura superstizioso, in cui tutto è divinizzabile, da un semplice testo di preghiere a un saggio e profondo uomo praticante, nella loro opposizione al Dalai Lama e al suo governo sostennero che lo spirito della loro sfortunata guida spirituale fosse asceso ad un superiore livello di esistenza, divenendo Dorje Shugden, un Dharmapala di aspetto feroce intento a spaventare tutti gli ostacoli alla pratica della via graduale indicata da Atiśa e lama Tzong Khapa, e a impedire ogni mescolanza con le altre scuole, specialmente la Nyingma, punendo con malattie e sciagure i trasgressori e beneficiando generosamente gli osservanti.
La nuova entità divenne quindi il fondamento di un nuovo culto che si diffuse anche in certi ambienti di scuola Sakya, ove però era visto come un protettore mondano, pronto ad assistere il praticante in faccende terrene, per esempio nell’ accumulo di ricchezza, e mentre il potere sociale e politico dei Gelug cresceva a dismisura, anche con la chiusura o la conversione di molti monasteri delle altre tre tradizioni, la venerazione di Dorje Shugden continuò ad essere tramandato. Il V Dalai Lama e i suoi dignitari religiosi affermarono invece che per effetto di preghiere e invocazioni distorte Tulku Dragpa Gyaltsen si era trasformato in uno spirito malvagio desideroso di vendicarsi di lui e del governo tibetano. Lama e monaci di alto rango tentarono quindi di esorcizzarlo, ma senza successo.
Pabongka Rinpoche;

Dalla morte del V Dalai Lama, nel 1682, in avanti, il Tibet consolidò le proprie basi teocratiche, confermando la scuola Gelug come la più influente. Le sue due immediate reincarnazioni si distanziarono molto dalle rigidità della propria scuola, e dal 1757, quando il VII Dalai Lama morì, questo lignaggio di reincarnazione si indebolì notevolmente, in quanto ogni Dalai Lama a partire dall’ VIII al XII venne opportunamente manipolato dai Reggenti e dai ministri fedeli all’ Impero cinese per poi morire in giovane età in circostanze sospette, forse per mano degli stessi Reggenti tramite avvelenamento, su istigazione cinese, nell’ idea che fossero impostori.
Tuttavia, nel 1895, il XIII Dalai Lama, uomo dalla forte personalità, assunse pieni poteri politici e religiosi, e riuscì a vivere abbastanza a lungo da restaurare il ruolo unificante della propria istituzione, peraltro impegnandosi in un ambizioso progetto di modernizzazione e riforme sia temporali che religiose, aprendosi come il Grande Quinto alla scuola Nyingma. Tra le guide spirituali Gelug che videro di malanimo tutti i suoi sforzi spiccò Pabongka Rinpoche, il più grande e influente lama Gelug dell’ epoca, noto peraltro per il modo inusuale di dare insegnamenti al di fuori dei monasteri a un gran numero di discepoli laici. Convinto praticante del culto di Dorje Shugden, che riteneva un’ emanazione di Manjusri, Bodhisattva della Saggezza, iniziò a promuoverlo senza sosta al suo vasto novero di discepoli, molti dei quali erano aristocratici, alti dignitari religiosi e semplici cittadini. Circondato da funzionari e monaci intransigenti che di fatto frenavano ogni suo sforzo di apertura del Tibet verso l’ estero e di modernizzarlo nel timore che il Buddhadharma venisse inutilmente inquinato, il XIII Dalai Lama gli intimò di interrompere la propiziazione di questo culto, indicandolo come dannoso tanto per il Buddhismo quanto per la causa del Tibet, ma Pabongka Rinpoche si attenne alle disposizioni solo nell’ ambito del culto pubblico, proseguendo in forma privata la trasmissione ai discepoli, tra cui quello che prediligeva, Trijang Rinpoche.
Alla morte del Grande Tredicesimo, nel 1933, l’ influenza di Pabongka Rinpoce era tale che gli venne offerta la carica di Reggente, ma egli rifiutò sostenendo di non gradire gli affari politici. Tuttavia i suoi discepoli assunsero il pieno controllo di vari posti di grande importanza nella guida del Tibet: il V Reting Rinpoche divenne Reggente, mentre Trijang Rinpoche, che cominciava ad assumere importanza e seguito pari a quelle del maestro, divenne una figura sempre più autorevole anche al Potala. Il culto di Dorje Shugden veniva praticato alla luce del sole, senza alcun intralcio. Nel 1937 venne finalmente identificata la reincarnazione del Dalai Lama in Lamo Dondrub, un bambino di appena due anni nato nei pressi del confine cinese. Il nuovo Reggente, il III Taktra Rinpoche, altro discepolo di Pabongka Rinpoche e grande praticante del culto, gli assegnò come maestro Trijang Rinpoche. Contemporaneamente, il giovane X Panchen Lama, la seconda autorità religiosa dopo il Dalai Lama, fu a sua volta iniziato alla liturgia di Dorje Shugden.
Tra il 1950 e il 1959, il Tibet venne gradualmente conquistato dalla neonata Repubblica Popolare Cinese, e il giovanissimo XIV Dalai Lama tentò ripetutamente di trovare un accordo con gli occupanti per alleggerire la loro stretta, dal momento che nessun Paese accolse le richieste di aiuto del governo di Lhasa. Sotto la tutela di Trijang Rinpoche iniziò a praticare assiduamente il culto di Dorje Shugden, che gli venne presentato durante la permanenza al Monastero di Dungkar, a poca distanza dal confine indiano, peraltro ricorrendo spesso al parere del suo oracolo. Nel 1959, dato il peggioramento della situazione in Tibet, sfuggì in India, ove trovò rifugio insieme a migliaia di tibetani di ogni ceto ed età. Ben presto si diffuse la voce che l’ oracolo di Dorje Shugden gli avesse salvato la vita indicandogli la via migliore da seguire per scappare senza farsi trovare dai cinesi.
Mentre il governo indiano, presieduto da Jawaharlal Nehru, si spendeva tra mille difficoltà nell’ aiutare l’ enorme massa di profughi in continuo arrivo, il XIV Dalai Lama e i suoi funzionari politici e religiosi furono chiamati a provvedere alle esigenze sia materiali che culturali dei tibetani in condizioni assolutamente inconsuete, istituendo ad esempio un governo in esilio. In condizioni di tale precarietà, i tibetani avevano più che mai bisogno di una guida che unificasse tutte quante le tradizioni, e a tal proposito si sostiene che al Dalai Lama venne esplicitamente richiesto dalle massime guide Nyingma, Kagyu e Sakya di abbandonare il culto di Dorje Shugden. Di certo ebbero luogo alcune importanti aperture e concessioni, che permisero anche a queste antiche scuole di emergere per mezzo dei loro più importanti maestri, e davanti alle quali i Gelug, tuttora la tradizione dominante, risposero consolidando la preminenza del XIV Dalai Lama, promotore di una politica non settaria e una certa libertà di pensiero, sugli affari tibetani e in un certo modo sulle stesse altre scuole. Egli stesso seguì la via già intrapresa dal Grande Quinto e dal Grande Tredicesimo, aprendosi molto alle pratiche e agli insegnamenti Nyingma, e nel 1978 annunciò di aver smesso di praticare il culto di Dorje Shugden, descrivendolo come uno spirito malvagio e sconsigliandone vivamente la pratica, richiedendo a chi volesse invece mantenerla di non partecipare ai suoi insegnamenti, iniziazioni o conferimenti di voti, per non mettere in pericolo sia il maestro che i discepoli a causa di una relazione contaminata. La maggior parte dei tibetani si attenne alle sue disposizioni, ma alcuni lama e monaci si rifiutarono di ascoltarlo, anche per via di un clima di paura scatenato dalla pubblicazione del «Libro giallo», in cui Zemey Rinpoche, lama Gelug discepolo di Trijang Rinpoche, raccontò di disgrazie accadute a monaci e laici Gelug che avrebbero irritato Dorje Shugden mescolando gli insegnamenti della loro tradizione con quelli Nyingma o di altra natura: secondo alcuni tra i più noti esponenti del culto si tratterebbe di un testo di rara assurdità dal momento un essere illuminato o un Dharmapala non può recare danno, e la quasi totalità degli eventi descritti risultano impossibili da dimostrare.
Il XIV Dalai Lama condannò la pubblicazione e confermò le restrizioni al culto, incoraggiando quello di Nechung e ordinando la rimozione delle immagini di Dorje Shugden dai monasteri e dai templi. Ai monaci e ai funzionari del governo fu richiesto di sottoscrivere un atto di abiura: da quel momento iniziò una grave divisione nella comunità tibetana, con i devoti al Dalai Lama e i seguaci del culto della controversa entità coinvolti in violenti scontri e scambi di accuse, pestaggi, incendi di case ed emarginazione. La protesta dei lama, monaci e discepoli Gelug rimasti legati al culto si levò prontamente, e negli anni culminò con le accuse rivolte al XIV Dalai Lama di sopprimere la libertà religiosa. Le loro abitazioni vennero conseguentemente perquisite, forse dai loro avversari religiosi, e alcuni di loro furono assaliti, mentre le immagini e gli altari di Dorje Shugden subirono atti di distruzione.
XIII Dalai Lama;


In tale clima di odio e scontri senza esclusione di colpi, la notte del 4 febbraio 1997 vennero sorpresi e barbaramente uccisi ghesce Lobsang Gyatso, Responsabile della scuola di Dialettica e tra i più ascoltati consiglieri spirituali del Dalai Lama, nonché avversario dichiarato del culto, e due monaci suoi discepoli. Il raccapricciante assassinio ebbe luogo proprio a Dharamsala, la cittadina ai piedi dell’ Himalaya indiana ove risiede il XIV Dalai Lama, e molto probabilmente fu incoraggiato e gestito dai servizi segreti cinesi, nell’ intento di sfruttare a proprio vantaggio una situazione critica e gettare discordia tra le persone vicine al Dalai Lama. Certamente da allora sono emerse molte prove secondo cui il governo cinese sostiene i seguaci di Dorje Shugden all’ estero con generosi finanziamenti, mentre in Tibet concede un’ ulteriore protezione costituzionale nell’ intento di estinguere l’ importanza Dalai Lama nell’ ambito della cultura, dalla religione e dalla politica del Tibet.

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