giovedì 12 ottobre 2017

Oceano di Saggezza

«Apri le braccia al cambiamento, ma non lasciar andare i tuoi valori.» XIV Dalai Lama;
Il XIV Dalai Lama;

Tra le guide spirituali mondiali dei nostri giorni, il Dalai Lama occupa a buon diritto un posto di rilievo. Anche in Occidente risulta una delle figure più note, suggestive e rispettate. Appena cinquant’ anni fa, negli Anni Sessanta, all’ indomani della sua fuga in India dal natio Tibet, veniva generalmente indicato come uno strano giovane mistico proveniente da un lontano e misterioso Paese di monti colossali e monaci dagli abiti e copricapi variopinti, dediti a un’ oscura spiritualità animata da spiriti protettori e demoni sui quali troneggiava il sereno e sorridente Buddha. Oggi, invece, soprattutto in seguito alla consegna del Premio Nobel per la pace nel 1989, quest’ uomo dalla tonaca rossa e gialla e il costante e radioso sorriso rientra a pieno titolo tra gli uomini più influenti e stimati al mondo. Nessun Dalai Lama prima di lui ha mai riscosso una simile notorietà all’ estero, altrettanto consenso accompagnato talvolta da giudizi ostili. Con tanta allegria e un pizzico di ironia, lui stesso afferma di essere visto in modi assai differenti da persone assai differenti: secondo i buddhisti tantrici è la reincarnazione di Avalokiteshvara, il Bodhisattva della Compassione, mentre i tibetani lo considerano il loro quattordicesimo re divino e il governo cinese lo ritiene un monarca feudale dal quale ha generosamente liberato il Tibet. Per il resto del mondo corrisponde al Premio Nobel per la pace, erede del Mahatma Gandhi, che venera fin dalla più tenera età. Da parte sua, questo particolare individuo, diviso tra il suo ruolo di uomo, mistico e religioso, ama definire sé stesso «un semplice essere umano, incidentalmente tibetano, che ha scelto di essere un monaco buddhista». A dispetto della sua sincera umiltà occorre notare che l’ Occidente ha imparato a conoscerlo e apprezzarlo come simbolo di un cammino non violento teso a una duplice liberazione, politica per il Tibet, e spirituale per ogni essere vivente.
Il Dalai Lama in gioventù;

La figura del Dalai Lama, appartenente alla scuola Gelug, i Cappelli Gialli, ha un’ origine piuttosto antica, risalente al 1578, quando il condottiero mongolo Altan Khan strinse uno stretto legame spirituale con il monaco tibetano Sonam Gyatso, a cui attribuì per la prima volta il titolo, derivante dal mongolo dalai, ossia «oceano», e dal tibetano lama, ovvero «maestro spirituale», tradizionalmente tradotto come «Oceano di Saggezza». In quanto lama reincarnato, Sonam Gyatso attribuì l’ appellativo alle proprie precedenti incarnazioni, divenendo in tal modo il III Dalai Lama, e da allora il metodo di successione di tale istituzione si basa sulla reincarnazione.
Fino al 1959 dimorante nell’ immenso e maestoso palazzo del Potala, in cima a un colle della capitale, la città santa di Lhasa, il Dalai Lama divenne presto la massima autorità spirituale del Buddhismo tibetano e il sovrano assoluto del Tibet, caposaldo e simbolo della civiltà tibetana. Il suo popolo si riferisce a lui come Kyabgon, «Salvatore», o Yeshe Norbu, «Gemma che realizza i desideri», e gli si rivolge usando il termine Kundun, «Presenza». A dispetto dell’ assoluta venerazione di cui gode, occorre precisare che non è il capo della scuola Gelug, che attribuisce la propria guida ufficiale al Ganden Tripa, il «Detentore del Trono di Ganden», un lama scelto tramite elezione dagli abati dei più autorevoli monasteri e che in genere rimane in carica per tre anni.
Il Dalai Lama e il Pandit Nehru, Primo ministro indiano;

L’ attuale Dalai Lama, il quattordicesimo, nacque nel 1935 a Taktser, un piccolo villaggio nelle regioni nordorientali, presso il confine cinese, in una famiglia di contadini, e all’ età di due anni fu visitato ed esaminato da una delegazione di alti lama e monaci alla ricerca della reincarnazione del XIII Dalai Lama, morto nel 1933, e che riconobbe in lui il nuovo Salvatore. Il piccolo Lhamo Dondrub, come si chiamava, ossia «Dea che esaudisce i desideri», fu pertanto portato nel 1940 a Lhasa, ove fu proclamato XIV Dalai Lama e consacrato come monaco novizio, venendo peraltro ribattezzato Jetsun Jamphel Ngawang Lobsang Yeshe Tenzin Gyatso, ovvero «Sacro Signore, Gloria gentile, Compassionevole, Difensore della fede». Mentre alla sua famiglia veniva concesso un titolo nobiliare con tanto di una sostanziosa proprietà fondiaria, in tono con le antiche tradizioni riguardanti i lama reincarnati, il nuovo Oceano di Saggezza iniziò il duro percorso religioso sotto le più eminenti guide spirituali del tempo, particolarmente severe ed esigenti nei suoi riguardi in quanto Dalai Lama.
Mentre il Prescelto si divideva tra i giochi e gli studi, rigorosamente isolato dal resto del mondo nelle mille stanze della reggia e del monastero entro il Potala, il Tibet subiva gli effetti nocivi di una serie di governi retti da Reggenti ambiziosi e corrotti che, inavvertitamente, esposero sempre più il Regno delle Montagne all’ interesse della Cina, che da secoli faceva di tutto per annetterlo al proprio territorio sostenendo che ne fosse una parte integrante. Il Dalai Lama studiò con costante diligenza, dando ripetutamente prova di grande intelligenza e capacità e denotando notevoli abilità nel dibattito, peraltro maturando un certo interesse per l’ Occidente e la modernità stimolati dai suoi frequenti incontri con l’ alpinista austriaco Heinrich Harrer, che divenne suo buon amico e insegnante di inglese. Nel 1959, ormai ventiquattrenne, sostenne gli esami preliminari a Drepung, Sera e Ganden, le maggiori università monastiche tibetane, conseguendo con onore al termine del grande esame al Tempio di Jokhang, a Lhasa, il titolo di Ghesce Lharampa, equivalente a un dottorato in filosofia buddhista. Ma molto presto la situazione precipitò assai drammaticamente: tra il 1949 e il 1959 la Repubblica Popolare Cinese aveva infatti invaso gradualmente il Paese delle Nevi, sostenendo pubblicamente che oltre ad esserle sempre appartenuto desiderava sottrarlo all’ imperialismo angloamericano, colpevole di aver sostenuto il dominio feudale del Dalai Lama, che da parte sua sostenne fin dall’ inizio una politica conciliante, comprendente perfino un Tibet all’ interno della Cina purché dotato di autonomia, ma senza successo. Con l’ inasprimento delle brutalità da parte dei cinesi in territorio tibetano, tra il 1954 e il 1956 visitò con i maggiori lama al suo seguito e i ministri del suo governo la Cina, incontrandosi più volte con il Presidente Mao, ma i tentativi di pacificazione non diedero alcun risultato. Nel 1959, infine, a seguito di una grande sollevazione popolare motivata dal timore che il presidio cinese volesse rapirlo e portarlo in Cina, o persino assassinarlo, fuggì in India, seguito da migliaia di tibetani di ogni ceto sociale ed età, dai più influenti e ricchi aristocratici ai più umili sudditi, ove ottenne la protezione del governo di Nuova Delhi. Da allora vive a Dharamsala, con lo stato di rifugiato politico, riconosciuto soltanto come guida spirituale e non più come capo di Stato. Si prodiga costantemente e di persona a vantaggio degli esuli tibetani che tuttora ogni anno sfuggono in massa alle persecuzioni in patria, facendo del proprio meglio nella preservazione delle millenarie tradizioni sociali e religiose della sua gente, dando insegnamenti religiosi e promuovendo la causa politica del Tibet all’ estero. La propaganda cinese lo descrive accanitamente come un traditore, un secessionista ostile alla nobile causa comunista e desideroso di riappropriarsi degli antichi e dispotici privilegi feudali.
Le numerose e costanti avversità non hanno mai minimamente scalfito la sua attitudine diplomatica e conciliante, il suo ottimismo e la sua pratica dell’ insegnamento del Buddha. Parla spesso in favore del popolo cinese, sottolineando l’ inutilità della tendenza autoritaria del regime comunista non solo in Tibet ma in tutta la Cina, e condannando ogni soluzione che comprenda l’ impiego della violenza. Dal 1967 viaggia costantemente per il mondo: nell’ autunno del 1991, per esempio, visitò gli Stati baltici su invito del Presidente della Lituania, divenendo il primo capo straniero a rivolgersi al Parlamento lituano. Nel 1973, in Vaticano, incontrò papa Paolo VI, e alla conferenza stampa di Roma nel 1980 espresse la speranza di incontrare papa Giovanni Paolo II:
«Viviamo in un periodo di grande crisi e di problematici sviluppi mondiali. Non è possibile trovare la pace nell’ anima senza la sicurezza e l’ armonia tra le persone. Per questa ragione aspetto con fede e speranza l’ incontro con il Santo Padre: per uno scambio d’ idee e sentimenti e per i suoi consigli, così da poter aprire la porta a una progressiva pacificazione tra gli individui.». L’ Oceano di Saggezza e il Vescovo di Roma si incontrarono più e più volte, soprattutto nel 1980, 1982, 1986, 1988 e 1990, divenendo sinceri amici uniti dalle analoghe esperienze con il comunismo, che tanto scompiglio aveva creato nei rispettivi Paesi di provenienza. Il Dalai Lama stabilì peraltro duraturi rapporti amichevoli con l’ Arcivescovo di Canterbury e altri capi della Chiesa anglicana, oltre che con le guide delle comunità cattoliche ed ebraiche, affermando in un evento interreligioso tenutosi in suo onore al World Congress of Faith:
«Credo che sia sempre assai preferibile che esista una varietà di religioni e filosofie in luogo di una singola religione o filosofia. Tutto ciò è necessario a causa delle differenti predisposizioni mentali di ogni singolo essere umano. Ogni religione prevede proprie idee e tecniche, il cui apprendimento non può che arricchire la fede di ognuno.».
Nella sua lunga vita di monaco e guida spirituale e politica non si è mai minimamente allontanato dai principi buddhisti fondamentali a cui è stato educato, denunciando con fermezza costante la decennale repressione cinese in terra tibetana senza però mai incitare il suo popolo o i Paesi del mondo ad adottare un atteggiamento ostile contro la Cina, pertanto la decisione della Commissione norvegese del Nobel di assegnargli il Premio della Pace nel 1989 riscosse lodi e plausi in tutto il mondo, fuorché in territorio cinese. Così recitava la motivazione della Commissione:
«La Commissione intende enfatizzare il fatto che il Dalai Lama, nella sua lotta per la liberazione del Tibet, si sia coerentemente opposto all’ uso della violenza. Ha invece propugnato soluzioni pacifiche basate sulla tolleranza e sul rispetto reciproco, in modo da preservare l’ eredità storica e culturale della sua gente.». Il 10 dicembre 1989, accettando il prestigioso riconoscimento a nome di tutti gli oppressi e di tutti coloro che si battono per la libertà e lavorano per la pace nel mondo e i tibetani, affermò:
«Il Premio ribadisce la nostra convinzione che il Tibet sarà liberato usando come proprie armi la verità, il coraggio e la determinazione. La nostra battaglia deve rimanere non violenta e libera da ogni odio.».
Il Dalai Lama e papa Giovanni Paolo II;

Ora che Sua Santità il Dalai Lama ha superato gli ottant’ anni, inevitabilmente si è aperta la questione della sua successione. Dal 2011, quando si dimise da capo politico, la sua posizione è chiara e netta: spetta al popolo tibetano decidere se mantenere il suo lignaggio di reincarnazione o meno, e nel caso di un parere favorevole si limiterà a reincarnarsi per esercitare la sola guida religiosa, magari anche in forma femminile, lasciando le funzioni politiche al governo e al parlamento tibetani in esilio, mentre in caso contrario sceglierà di non reincarnarsi più. A dispetto del carattere tipicamente tibetano dell’ istituzione che incarna, però, il governo di Pechino ha deciso di assumersi personalmente il diritto di nominare le future incarnazioni. Nel 1995, ad esempio, gli agenti cinesi rapirono la reincarnazione del X Panchen Lama, la seconda autorità religiosa del Tibet, soggetta solo al Dalai Lama, con cui aveva stretti legami spirituali, al punto che uno ricercava la reincarnazione dell’ altro, fungendo successivamente da maestro. Dopo la sparizione del candidato riconosciuto dall’ Oceano di Saggezza, un bambino di appena sei anni di cui si fece abilmente perdere ogni traccia, Pechino impose un proprio candidato, un bambino cinese di cinque anni figlio di influenti esponenti del Partito comunista, affermando che tutti gli alti monaci tibetani dovranno essere nominati dal governo cinese, i quali dovranno designare ed investire ufficialmente il XV Dalai Lama sotto la supervisione del Panchen Lama gradito alla madrepatria socialista: poiché il Tibet è sempre stato cinese, la nomina del Dalai Lama è sempre dipesa dal governo cinese. In risposta, il rappresentante del Dalai Lama in Europa fece sapere che tali elezioni saranno del tutto prive di valore:
«Non si possono imporre imam o vescovi alle altre religioni. La decisione di nominare lama e monaci spetta ai tibetani. I cinesi possono usare la loro forza politica, ma le loro decisioni saranno comunque senza valore. Così è stato per l’ usurpatore del Panchen Lama, così sarà per ogni carica non eletta dai tibetani.».
Da parte sua, il Dalai Lama rispose con un sorriso accompagnato dalla sua proverbiale ironia:
«Il Buddhismo raggiunse il Tibet dopo essersi già molto diffuso in Cina. Spiritualmente, i cinesi sono pertanto nostri fratelli maggiori, ma stranamente pare che non abbiano capito molto né del Buddhismo, né della reincarnazione…».
Il Dalai Lama alla consegna del Nobel per la Pace;

Nessun commento:

Posta un commento